“Nel segno della freccia. San Sebastiano, una inesauribile «forma nel tempo»” di Gian Piero Jacobelli

Prof. Gian Piero Jacobelli, in quanto autore del libro Nel segno della freccia. San Sebastiano, una inesauribile “forma nel tempo”, edito da Meltemi, quale rilevanza hanno assunto a suo avviso la figura di San Sebastiano e il suo martirio nella storia dell’arte?
Nel segno della freccia San Sebastiano, una inesauribile «forma nel tempo», Gian Piero JacobelliLa figura di San Sebastiano nella iconografia occidentale, e non soltanto, ha avuto senza dubbio una rilevanza “inesauribile”, come recita il sottotitolo del saggio che ho voluto dedicargli proprio perché questa davvero straordinaria profusione di metamorfosi rappresentative e di modalità stilistiche ne facevano un impareggiabile laboratorio di analisi del rapporto tra la persistenza tematica e la variabilità problematica di un segno carismatico che ha attraversato circa un millennio e mezzo della storia dell’arte, non esclusivamente religiosa.

In effetti, a parte i personaggi evangelici della cosiddetta Sacra Famiglia, non si registra nella storia dell’arte sacra e profana una presenza così duratura, incisiva, affascinante (tanto seduttiva quanto compromettente) come quella di San Sebastiano: vero e proprio Alter Christus, predisposto a fungere da tramite simbolico tra la terra e il cielo nelle più diverse situazioni di vita e di morte. Un santo per tutte le stagioni, in grado di rispondere secondo canoni sia religiosi sia profani alle più o meno prevedibili istanze di una sofferenza invasiva, dalle epidemie alle persecuzioni, ma anche di un piacere pervasivo, dalle ossessioni maniacali alle coazioni a ripetere.

Per inciso, proprio per chiarire la specificità circostanziale di questa sofferenza e di questo piacere, va rilevato come la morte di San Sebastiano, avvenuta successivamente mediante fustigazione, il supplizio riservato agli schiavi, non coincida con il conclamato ed eclatante martirio delle frecce. Perciò il martirio e il suo strumento, la freccia, assumono un peculiare significato agiografico, non immediatamente connesso alle convenzionali vicissitudini della vita del santo, ma piuttosto a quelle che si potrebbero definire le sue “ragioni di santità”: quelle ragioni che, prescindendo dalle presunte narrazioni biografiche, riguardano essenzialmente il carattere “passionale” di San Sebastiano, rappresentato e rappreso in quella “freccia” che spesso nella storia dell’arte – da Antonello da Messina a El Greco, da Guido Reni a Gian Lorenzo Bernini, per citare solo alcuni tra i più celebri e patetici interpreti rinascimentali e barocchi del santo delle frecce – ha costituito il segno esplicito di una passione, divina e umana al tempo stesso, capace di trasfigurare un corpo di vergogna in un corpo di gloria.

In altre parole, San Sebastiano trae dal suo martirio tanto una morte temporanea, quanto una vita eterna: quella vita oltre la morte, ma anche oltre la vita, che agisce nell’immaginario collettivo come un fattore sia di riscatto materiale, la difesa miracolosa contro i mali del mondo, sia di riscatto spirituale, il valore identitario della sofferenza e della derelizione.

In che modo l’iconografia del santo costituisce una “forma nel tempo”?
La domanda si colloca proprio al centro delle ipotesi metodologiche della mia ricerca che, non è tanto iconografica, cioè intesa a raccogliere e distinguere le diverse modalità rappresentative di San Sebastiano, ma iconologica, cioè intesa a cogliere e connettere nella successione di queste innumerevoli modalità rappresentative quello che si potrebbe definire come un algoritmo metamorfico: un principio e una regola di trasformazione, in cui confluiscono le regole semiotiche, che studiano come un segno muti organicamente nel tempo in ragione dei vari contesti comunicativi, con le regole antropologiche, che studiano come le sequenziali determinazioni del segno corrispondano ad altrettante, storicamente mutevoli esigenze operative e simboliche implicite nelle variabili e specifiche dinamiche culturali.

Ho definito questo algoritmo come una “forma nel tempo” per esplicitarne i due principi essenziali: quello della “forma”, che costituisce la condizione di possibilità di ogni percezione chiara e distinta, di ogni interpretazione della realtà che abbia un senso individuabile e comunicabile; e quello del “tempo”, vale a dire della durata di una forma, che muta incessantemente secondo le aspettative e le sensibilità dei contesti culturali in cui volta a volta si manifesta e si esprime, ma che resta sostanzialmente sempre la stessa in quanto aggregazione intenzionata e intenzionante delle sue anche difformi e apparentemente incompatibili emergenze spaziali e temporali.

Insomma, contrariamente alle concezioni ideali di una forma concepita come una sublimata ed epocale astrazione, ho ritenuto culturalmente più congrua ed euristicamente più comprensiva la concezione di una forma articolata in tutte le sue diverse e successive implementazioni espressive. Una “forma nel tempo”, appunto, che ho voluto anche terminologicamente distinguere dalle “forme del tempo”, vale a dire le rappresentazioni che nella storia della civiltà occidentale, e non soltanto, sono state elaborate per rappresentare il concettuale contrasto tra Kronos e Kairos, tra il tempo quantitativo e il tempo qualitativo, tra il tempo che passa e il tempo che resta, tra il tempo rappresentato come un mostro che divora i suoi figli e il tempo rappresentato come un giovane alato che soppesa con una bilancia il destino degli dei e degli uomini.

Mentre le forme “del” tempo comportano il tentativo di conferire una consistenza rappresentativa a qualcosa di fluido e sfuggente, parlando di forme “nel” tempo ho cercato di evidenziare come proprio la fluidità temporale possa concorrere alla epifania progressiva di una forma, che appare ogni volta compiuta in tutte le sue precedenti manifestazioni anche se continua a evolvere in tutte le sue manifestazioni ulteriori. In altre parole, da questo punto di vista una forma si risolve sempre in una successione di forme tomograficamente connesse in una parabola indiziaria che si configura come una sorta di percezione anamorfica della forma stessa.

Si potrebbe rilevare a titolo di esempio, con riferimento alla più evidente delle caratteristiche di San Sebastiano, quella dell’abbigliamento, come le singole configurazioni, se vestito del tutto, parzialmente vestito o nudo, ognuna espressione degli usi e costumi succedutisi nel tempo, acquistino un significato non soltanto funzionale, ma anche e soprattutto strutturale, nel senso in cui Claude Lévi-Strauss concepiva la struttura come l’insieme di tutte le sue implementazioni successive.

Questo significato “strutturale”, che per così dire comporta una vista dall’alto dei tanti significati “funzionali” volta a volta messi a fuoco, confluisce nella complessiva rappresentazione di San Sebastiano come di un santo che si spoglia, un santo che mette progressivamente a nudo il proprio corpo trasformandolo progressivamente da un corpo variamente “connotato” in un corpo univocamente denotato, da un corpo “relativo” in un corpo “assoluto”. Non come appare ogni volta qui e ora, ma come tende ad apparire una volta per tutte nell’insieme delle sue trasformazioni, che definitivamente lo identificano con la freccia, lo strumento del suo martirio.

Il santo che si spoglia diventa così il santo che compendia l’umanità nel suo insieme, con tutte le sue inadeguatezze e debolezze, ma congiuntamente il santo che si propone come il veicolo propulsivo di questa umanità derelitta verso i suoi ideali sempre consunti, ma perciò sempre riesumati.

Quali significati ha assunto, nelle interpretazioni che si sono storicamente succedute, la parabola “sebastiana”?
Proprio in quanto articolata nel tempo, la parabola sebastiana sembra continuamente esplodere come una sorta di fuoco di artificio, in tanti lampi di luce che si allargano incessantemente sull’orizzonte della storia dell’arte e del costume. Questa fantasmagorica esplosione si articola in varie e complesse dimensioni: in particolare, una dimensione sociologica, secondo le diverse articolazione del potere politico e religioso; etnologica, secondo la centralità o la marginalità dei gruppi umani presi in considerazione; filosofica, secondo i processi identitari nel cui ambito la parabola sebastiana viene desunta, interpretata e rielaborata.

Schematizzando in maniera forse eccessiva, si può dire che nel primo caso, quello sociologico, San Sebastiano sia stato adottato a rappresentare sia la derelizione della condizione umana afflitta dalle pene della povertà, della malattia, della solitudine, sia la esaltazione aristocratica ed elitaria del gentiluomo di corte, il “cortegiano” di Baldassarre Castiglione, non più trafitto dalle frecce, ma con le frecce infilate nella cintura dell’abito da parata, quasi come un piccolo pugnale di ordinanza, per indicare una qualità della vita più che una qualità della morte.

Nel secondo caso, quello etnologico, mentre le società marginali hanno tendenzialmente interpretato San Sebastiano nelle sue potenzialità soteriologiche, di riscatto e di salvezza, di protezione dalle avversità incombenti, non soltanto collettive, ma anche individuali, le società egemoni lo hanno interpretato prevalentemente in una chiave allegorica, come espressione di una condizione umana che si riservava il privilegio di un dialogo diretto con la divinità e che quindi aveva bisogno più di intermediari che di intercessori, quasi se il dialogo con la divinità dovesse comunque passare attraverso procedure istituzionali e tutto sommato predeterminate.

Nel terzo caso, quello filosofico, che si manifesta in maniera particolarmente evidente con la modernità, San Sebastiano perde ogni sua prevalente caratteristica sacrale per diventare una esclusiva icona identitaria, aderendo alle opportunistiche, talvolta stravaganti opzioni esistenziali e assumendo spesso un valore contestativo, connesso tanto alle eversioni quanto alle perversioni collettive e individuali: un modo per riconoscersi oltre e talvolta contro i riconoscimenti ottriati quando non imposti del conformismo imperante e del politicamente corretto.

Di fronte a questa molteplicità prospettica delle frecce lanciate contro un corpo da santificare o lanciate dallo stesso corpo santificato, mi è parso appunto di scorgere delle ricorrenze significative nella loro sistematica trasgressività, che, alla luce di altrettanto trasgressive, perché poco convenzionali suggestioni linguistiche, epistemologiche e persino teologiche, si prestavano a venire interpretate come una sorta di “romanzo di formazione”, in cui San Sebastiano si libera del proprio martirio diventandone il suo stesso strumento crudele: quella freccia che finisce per identificarsi con il corpo del personaggio carismatico, in una drammaturgia quasi pirandelliana, dove la ricerca di una identità implica che ogni identità venga radicalmente rimossa per potersi identificare con la ricerca in quanto tale.

Perché questa, a conti fatti, mi sembra che sia la cifra fondamentale e permanente di San Sebastiano, più “sebastiano”, cioè virtualmente venerabile, che “santo”, cioè concretamente venerato: l’emblema del bisogno di essere diversi da come si è potendo fare leva soltanto su come si è. Un modo per cercare di trascendersi giocando sulla propria incoercibile immanenza, rinunciando alla soddisfazione immediata del piacere per la mediazione di un desiderio che non deve venire soddisfatto, ma che proprio in quanto tale, non può mai venire meno.

Gian Piero Jacobelli ha insegnato Filosofia, Sociologia, Semiotica presso le università Sapienza di Roma, Roma Tre, Roma Tor Vergata, Luiss, Iulm. Dal 1988 è direttore responsabile di “MIT Technology Review Italia”. Ha pubblicato tra l’altro: Scomunicare (Meltemi, 2003), Le mosse del cavallo (Rubbettino, 2008), Babele o della traduzione (FrancoAngeli, 2010), La corna (Bevivino, 2010), Il posto improprio (FrancoAngeli 2011), Adorno&Benjamin (Sossella, 2015), Bond, James Bond (Mymesis, 2015), Al fuoco! Per una critica della ragione monumentale (Sossella, 2015), I passaggi di Ernesto de Martino (Sossella, 2021), Contro il futuro (Armando, 2022).

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