“«Nel mio baule mentale»: per una ricerca sugli inediti di Goliarda Sapienza” di Alessandra Trevisan

Dott.ssa Alessandra Trevisan, Lei è autrice del libro «Nel mio baule mentale»: per una ricerca sugli inediti di Goliarda Sapienza edito da Aracne: quali vicende hanno segnato la vita di Goliarda Sapienza?
«Nel mio baule mentale»: per una ricerca sugli inediti di Goliarda Sapienza, Alessandra TrevisanQuest’autrice si conosce soprattutto per il passato di attrice di teatro e cinema, quale fu senza raggiungere riconoscimenti in quell’ambito; poi per essere stata la compagna del regista Citto Maselli. Un’altra comune nota su di lei riguarda la depressione, gli elettroshock subìti e la terapia psicanalitica nei primi anni Sessanta. Questi tratti oscillano sopra la scrittura eppure, studiandola più da vicino, mi pare possa essere importante sottolineare almeno due aspetti: il primo riguarda la sua rivendicazione di prefemminista, insieme a molte altre artiste del suo tempo, tra cui Titina Maselli, Vera De Seta e Marilù Carteny; Sapienza ne parla in un articolo uscito nel 1981 su «Quotidiano donna» che offro nella prima parte del volume, per inquadrare la sua necessaria posizione rispetto all’élite di cui faceva parte negli anni Sessanta. Dall’altro ho dedicato un’ampia parte importante di questo lavoro al “Gruppo di scrittura” informale che frequentò insieme ad Adele Cambria, Elena Gianini Belotti e altre autrici tra anni Ottanta e Novanta. Il periodo post-carcerario mi pare il più rilevante, per i movimenti che racchiude, con avvicinamenti importanti al femminismo della differenza. Nessun critico aveva inquadrato la sua vicenda secondo questi due fatti, tutt’altro che strettamente biografici.

Quale ricezione ha avuto l’opera di Goliarda Sapienza?
Se parliamo della fortuna postuma credo che il suo successo sia stato grandioso, sia in ambito universitario – perché studi e tesi di laurea e di dottorato sono sempre più diffuse – sia in ambito editoriale, tant’è vero che L’arte della gioia ha conosciuto traduzioni all’estero, negli Stati Uniti, in Svezia, in Romania e in Israele, dov’è approdato proprio nel novembre 2020 grazie alla curatela di Shirley Finzi-Loew. Tra il 2014 e il 2016, con un progetto di reading performativo, anche Fabio Michieli, Anna Toscano ed io abbiamo viaggiato per l’Italia raccontando quest’autrice ad un pubblico eterogeneo. Gruppi di lettura la amano e la tramandano ad altri. Mi pare coraggiosa e vincente la scelta di aprire a Roma la prima biblioteca popolare che porta il nome di Goliarda Sapienza: è stata inaugurata ad ottobre 2020 grazie ad alcune associazioni attive alla Montagnola (qui).

Come è avvenuta la riscoperta di Sapienza?
Quando lei morì, nel 1998, Stampa Alternativa pubblicò L’arte della gioia grazie al contributo dell’erede Angelo Pellegrino. Nel 1994 erano usciti solo i primi 39 capitoli ma l’opera integrale non aveva trovato posto altrove. Nei primi anni Duemila il romanzo fu tradotto in Francia e nel 2006 Einaudi lo ripubblicò in Italia. Più o meno nello stesso momento iniziò una riscoperta in ambito accademico, grazie al contributo di numerose studiose che incominciarono a interrogarsi sul corpus dell’autrice. Dal 2009 a oggi sono venuti alla luce racconti, poesie, romanzi e pièce di teatro e Goliarda Sapienza è diventata un’autrice molto amata dal pubblico.

Dopo dieci anni di studio penso di poter affermare che, come spesso avviene quando si adotta una prospettiva filologica e basata sulla ricerca d’archivio, è divenuto fondamentale per me leggere l’opera secondo l’ordine di scrittura e non secondo la pubblicazione, che include i volumi postumi. Mettendo ordine si dà rilievo e verità all’indagine dell’intera opera. In occasione di incontri pubblici mi è spesso capitato di proporre le ragioni della cronologia anche ai lettori, perché restituiscono la misura del “baule mentale” di Sapienza.

In che modo Sapienza raggiunse critica e pubblico durante la vita?
Secondo i miei studi Lettera aperta, il suo primo romanzo pubblicato da Garzanti nel 1967, ricevette molte recensioni da parte di giornalisti e intellettuali, da Giancarlo Vigorelli a Giulio Nascimbeni, da Domenico Porzio a Mario Lunetta fino a Roberto Mazzucco e ad altri. Non sempre furono voci a favore e ciò ci fa comprendere anche quale fosse la libertà d’espressione dei critici all’epoca o per quale ragione il libro pare non sia andato bene (forse sul mercato). Nel saggio ripercorro le recensioni che sono riuscita a reperire, dopo un lavoro approfondito di Domenico Scarpa che, nel 2008, ha tracciato un quadro della critica coeva molto interessante. Probabilmente i critici se ne interessarono sulla scorta della candidatura al Premio Strega e al Premio Viareggio – cosa che nessuno sa –, due premi che lei non riuscì a vincere. Allo stesso modo credo che Il filo di mezzogiorno (Garzanti 1969) abbia ricevuto diverse segnalazioni da parte della stampa, forse perché candidato al Brancati per quell’anno – anche questo dato è stato ignorato.

Quello che si conosce circa la ricezione, sino allo studio che ho proposto, è un’attenzione che non fa guadagnare prestigio a quest’autrice, eppure lei tentò una strada per il successo. Ho cercato di ricostruire come un ruolo chiave, in questa vicenda, sembri averlo avuto Enzo Siciliano – e non senza ambiguità, poiché non dispongo di tutte le pezze di appoggio che servirebbero; lui ha collaborato all’editing dei due romanzi Garzanti, casa editrice con cui lavorava come consulente esterno, e dal mio punto di vista è stato il fautore di un’operazione mirata alla partecipazione dei primi libri di Sapienza ai premi importanti sopraccitati.

Non fanno eccezione i romanzi L’università di Rebibbia e Le certezze del dubbio, che almeno in un caso concorsero a premi nazionali, guadagnando un’esposizione mediatica importante.

È vero che Goliarda Sapienza godette solo in parte di tutto questo e che non riuscì a pubblicare L’arte della gioia nella sua versione integrale prima di morire, eppure mi chiedo spesso, visti i materiali a disposizione di chi studia, quanto ciò sia dipeso dall’esterno, ossia dall’ambiente letterario italiano, e quanto invece sia stata sua la responsabilità di certe scelte, che hanno segnato una precisa volontà di autoesclusione. Non vorrei che L’arte della gioia restasse uno specchietto per le allodole in grado di nascondere alcuni passaggi complessi della ricezione in vita. Nel saggio affronto, in un intero paragrafo, la vicenda della mancata pubblicazione del romanzo che, come si sa, insieme a tante altre opere postume, ha creato una sorta di “leggenda-Sapienza”, la quale propone una vicenda di oblio più severa di quella che a mio parere fu la realtà. In altri termini credo che Goliarda Sapienza abbia ricevuto riconoscimenti nel proprio tempo o li abbia sfiorati, ma per carattere o per altre ragioni a me non del tutto chiare non abbia assecondato gli eventi, cercando di farsi lei stessa, coraggiosamente, fautrice di un destino meno escludente per le donne, un destino che sarebbe stato di partecipazione com’è stato per altre autrici, come ad esempio Elsa Morante.

Quali temi e stile caratterizzano l’opera di Goliarda Sapienza?
Il suo è, a mio avviso, uno stile lirico, con un continuo impasto poetico nel linguaggio, cadenzato da un approccio all’oralità che potrebbe essere forse dimostrato in termini linguistici con uno studio stilistico approfondito. È come se la sua esperienza di artista performativa si traducesse continuamente nel testo nel segno di un’evidente oralità nata dai modi del teatro che diventano, testualmente, poetici.

L’autobiografia dichiarata da lei nelle sue lettere – che cito – permette di perimetrare la scrittura attorno alla vita, tracciata secondo una memoria che talvolta pare reinventare fatti e circostanze. Ma questa reinvenzione, dell’infanzia e della vita della sua famiglia, e dei genitori Peppino Sapienza e Maria Giudice, attivisti socialisti negli anni del fascismo, si traduce sempre in un modo di intendere la letteratura strettamente connaturato all’esperienza, tipico della scrittura di molti, ma che separa la vera scrittura d’invenzione da quella autobiografica. Non credo che la definizione memoir sia corretta nel suo caso, come ha scritto Gloria Scarfone, proprio perché lei definisce nel proprio tempo e con strumenti propri cosa significhi scrivere di sé autobiograficamente. Credo si debbano sempre rispettare le parole degli autori prima delle nostre.

Quali avvenimenti segnarono la vicenda editoriale di Lettera aperta?
Ne ho fatto accenno in una delle precedenti risposte: la mia interpretazione attorno a questo romanzo è cambiata negli anni proprio alla luce della possibilità di lavorare sulla prima versione dattiloscritta, fornitemi molto generosamente da Angelo Pellegrino, custode dell’Archivio privato Sapienza-Pellegrino. Confrontando le versioni fino a quella a stampa del 1967, con un primo tentativo di approccio filologico, ho riconosciuto l’editing (coatto?) che il testo originario ha subìto, nella prospettiva di renderlo pubblicabile e vendibile, e dal mio punto di vista di renderlo adatto a un mercato in cui sarebbe stato accettato solo se depurato di riflessioni, digressioni – su Simone de Beauvoir, su Virginia Woolf, e altri autori – e pagine in cui la confessione dell’autrice diventa il vero centro della narrazione. Un’opera modellata sul mercato: ho interpretato così i diversi tagli e le diverse espunzioni operate sul testo. Una lettera di Livio Garzanti a Enzo Siciliano, infatti, fa capire come, nonostante lo sforzo del secondo di lanciare nuovi autori quali Sapienza era in quel momento, non ci fu un sostegno della casa editrice a quel lavoro, soprattutto per ciò che riguarda il Premio Strega. Sembra che un ruolo chiave, nell’editing, l’abbia avuto anche Attilio Bertolucci, che suggerì la traccia del Tristram Shandy di Sterne, che sopravvive in effetti a una traccia più remota e presente di Pirandello, da un lato, e del David Copperfield di Dickens dall’altro. Ripercorrendo in parallelo le varianti si comprendono anche i meccanismi della lingua di Sapienza, una lingua che si costruisce nella poesia degli anni Cinquanta (oggi in Ancestrale, La Vita Felice, 2013) e Sessanta e nella prosa breve dello stesso periodo (oggi in Destino coatto, Empirìa, 2002) per approdare faticosamente al romanzo e tentando di cavalcare il successo di un romanzo che in Francia fece scalpore e incuriosì: La bastarda di Violette Leduc, che era già stato tradotto e pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1965, proprio nel periodo di fine scrittura e di editing di Lettera aperta. Ne ho trattato in un recente articolo che si può leggere qui.

Che relazione esiste tra l’iter attoriale e la scrittura dell’Autrice?
Credo vi sia una relazione molto forte tra il performativo artistico e l’arte visiva (la scrittura) poi scelta, che forse si confaceva a un lavoro solitario più aderente al sé per Goliarda Sapienza. Nella precedente monografia Goliarda Sapienza: una voce intertestuale (1996-2016) (La Vita Felice 2016) ho posto la voce al centro di un percorso di lettura critica, poiché credo che la voce sia uno strumento di lettura importante per capire quest’autrice. In questo nuovo saggio la chiave resta ferma ed evolve verso altre direzioni, ad esempio la ricerca dell’autenticità nella voce delle fonti.

Come si è sviluppato il Suo lavoro di ricerca delle fonti?
La ricerca d’archivio richiede pazienza e il desiderio sempre vivo di scavare a fondo, cercando nuove interpretazioni di dati già in nostro possesso che si aggiornano con la presenza di nuovi documenti e fonti. Non so se si possa definire un percorso di “mestiere” ma certamente leggendo e rileggendo, ponendomi diverse domande, andando a indagare in luoghi in cui nessuno aveva ancora lavorato, sono riuscita a raccogliere diverse fonti che hanno costruito il mio nuovo orizzonte critico. Ad esempio, un documento interessante è una pièce del 1970 intitolata Ipotesi conservata nel Fondo Gianfranco Mingozzi della Cineteca di Bologna che anticipa la riscrittura poi edita nel 2014 da La Vita Felice nel volume dedicato al teatro di Sapienza.

A cosa si deve la mancata fortuna in vita di Sapienza?
Mi pare che la mancata fortuna in vita sia stata una mancata fortuna solo parziale, dal momento che non è sostenuta completamente dalle fonti, che invece rivelano una presenza considerevole di recensioni, alcune interviste, contatti con il mondo culturale. È difficile parlare invece dell’oblio che ha avvolto l’autrice, seguito forse da un mercato editoriale che dagli anni Sessanta agli anni Novanta è profondamente mutato: l’ha affermato Cesare Garboli nel documentario di Loredana Rotondo Goliarda Sapienza: l’arte di una vita (2000). Dal mio punto di vista l’artista non può esimersi dal mantenere i contatti con il proprio mondo – lo scopriamo anche dagli archivi degli autori più inseriti – e chi li schiva resta fuori, non compreso, pur nella propria libertà e nel proprio coraggio.

Qual è la lezione più viva di Goliarda Sapienza?
Mi pare che la libertà resti la più grande lezione di Sapienza, una libertà che tuttavia non sempre risponde al un successo più largo che avrebbe meritato l’opera. Ci sono esempi di scrittrici dimenticate che hanno lottato tenacemente per un ruolo nel loro tempo: mi viene in mente Milena Milani, impavida e fiera in un mondo che ha tentato spesso di rifiutarla ma al quale non ha mai voltato le spalle, sicura della propria forza, che forse a Sapienza, un poco, è mancata.

Alessandra Trevisan è nata nel 1987 a Mestre. Dopo la laurea in Filologia e letteratura italiana all’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha conseguito un Dottorato in Italianistica nella medesima Università

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