“Negoziazione e potere in Medio Oriente. Alle radici dei conflitti in Siria e dintorni” di Lorenzo Trombetta

Dott. Lorenzo Trombetta, Lei è autore del libro Negoziazione e potere in Medio Oriente. Alle radici dei conflitti in Siria e dintorni edito da Mondadori Università: quali meccanismi egemonici sono stati messi in atto nel corso del tempo in Medio Oriente?
Negoziazione e potere in Medio Oriente. Alle radici dei conflitti in Siria e dintorni, Lorenzo TrombettaIl fenomeno globale dell’esclusione di settori della società dalla gestione delle risorse del territorio è periodicamente evocato come la principale causa dei conflitti armati, non soltanto in Siria o in Medio Oriente, ma in numerosi altri contesti del mondo. I conflitti si possono scatenare a partire da forme più o meno violente di contestazione da parte di gruppi di individui che, a vario titolo, si sentono esclusi dal sistema di potere.

Il caso siriano sembra fare scuola ma non per questo costituisce un’eccezione. Sebbene il tema della guerra risulti da tempo al centro delle cronache siriane, le sue descrizione e analisi non bastano a far comprendere la complessa natura del sistema di potere.

Il conflitto armato è infatti solo un possibile momento, a volte anche prolungato nel tempo ma comunque transitorio, di un più articolato processo di negoziazione tra un’ampia varietà di attori coinvolti nella governance.

In questo senso, l’autoritarismo e la coercizione sono solo alcuni degli strumenti adottati dal sistema per esercitare la propria egemonia.

In contesti di crisi, di fronte all’emergere di forme di contestazione percepite come destabilizzanti dello statu quo, il ricorso alla violenza può diventare la modalità principale di salvaguardia dell’autorità. Ma in periodi di relativo equilibrio, questa si può mantenere in maniera efficace e durevole anche tramite pratiche di costruzione della legittimità politica e attraverso dinamiche di cooptazione di segmenti della società.

Non essendo dunque semplicemente cruda dominazione e nuda coercizione, il potere è articolato. Esistono cioè diversi tipi di legami che in maniera articolata servono a mantenere uniti i gruppi subalterni, spesso più numerosi a livello locale, con quelli dominanti, solitamente ben rappresentati a livello centrale. Le articolazioni del potere collegano il centro e la periferia e sono ‘legate’ da vari tipi di canali di comunicazione e accesso: alcuni canali sono istituzionali, altri sono extra-istituzionali; a seconda dei punti di vista alcuni di questi sono considerati ‘formali’ e altri ‘informali’; in base alle percezioni di chi osserva, alcuni appaiono visibili e altri appaiono celati. Tra questi canali di comunicazione tra centro e periferia possono esserci, a seconda dei contesti, le leggi e gli ordinamenti, le catene produttive e di valori, i partiti e i sindacati, le organizzazioni religiose, ma anche forme di clientelismo e favoritismo, le reti sociali, la gerarchia istituzionale, i legami ideologici.

Quali sono gli elementi caratteristici dell’articolazione del potere esercitato nei contesti mediorientali?
Questo è composto da una serie di elementi ricorrenti, ciascuno descritto nella sua evoluzione temporale attraverso alcuni degli snodi più significativi della storia moderna e contemporanea siriana e della regione.

  1. Ambiente e società

La dinamica di potere avviene in un ambiente fisico, geografico e sociale specifico e in continuo cambiamento. Essa è determinata in maniera significativa dal clima, dalla configurazione del territorio, e dalla presenza di risorse. È inoltre segnata dal passaggio e dalla permanenza, più o meno prolungati, e dall’intervento, più o meno marginale o massiccio, di quantità variabili di persone. L’ambiente influisce nel modellare il processo di governance; viceversa, il processo di governance ha un impatto sull’ambiente fisico e sull’organizzazione della società. All’interno dei principali ambienti siriani (le città e le zone rurali; le regioni steppose e quelle desertiche) i gruppi locali dominanti sono organizzati in strutture familiari, claniche e tribali. Questi ambienti sono socialmente ed economicamente collegati fra loro.

  1. Le élites locali come intermediari

I gruppi sociali sono uniti orizzontalmente da solidarietà di parentela (‘asabiya), professionale o di altro tipo, e sono organizzati verticalmente in forme più o meno strutturate di rappresentanza. Da ciascun gruppo emergono delle figure chiave che, in virtù di statuti, funzioni e legittimazioni identitarie, assumono il ruolo di intermediari tra i contesti locali e i poteri sovralocali di riferimento.

  1. La città e il rapporto clientelare centro-periferia

Le città, incluse le zone rurali che gravitano attorno alle aree urbane, sono il luogo privilegiato della negoziazione, e quindi anche di eventuali conflitti, tra le élites locali e una gamma variabile di attori più o meno estranei al contesto, siano essi rappresentanti di autorità centrali o di forze considerate straniere. Il rapporto tra centro e periferia è stato a lungo ed è ancora oggi caratterizzato da una costante ricerca da parte del potere centrale di identificare i suoi interlocutori locali per poter delegare i compiti di controllare il territorio e di gestire le risorse, riscuotendo le imposte e assicurando, nei momenti di necessità, l’arruolamento di uomini in arme per la difesa degli interessi dello stesso potere centrale. Le élites venivano e vengono ancora oggi riconosciute più o meno formalmente come intermediari. In quanto tali, ricevevano e ricevono protezione, privilegi, benefici e rendite sociali, economiche, politiche. Attraverso il tempo questo modello clientelare si è imposto nei diversi contesti siriani e mediorientali, sviluppando delle caratteristiche costanti e, al tempo stesso, mostrando delle variazioni dovute alle interazioni con i diversi ambienti.

  1. Capacità di adattarsi in una negoziazione continua

Nel corso dell’ultimo secolo l’articolazione del potere si è modellata seguendo le travagliate vicende storiche della regione: i massicci interventi coloniali; l’avvento dello Stato-nazione; l’emergere di partiti politici ideologici e di massa; l’affermarsi di poteri autoritari, spesso incarnati da esponenti delle zone periferiche e promossi tramite gli apparati militari e di sicurezza; il passaggio da politiche economiche liberali ad altre di stampo social-nazionalista, trasformate in seguito in sistemi pseudo-neoliberisti controllati da oligarchi, affaristi ed ex signori della guerra ormai parte delle istituzioni; proteste popolari e di conflitti armati.

In questo continuo processo di trasformazione, il potere dominante è tale quando riesce a mantenere l’egemonia nella gestione delle risorse, assicurandosi dunque il controllo del territorio e di chi vi abita.

Come già sottolineato, questa egemonia non è soltanto imposta dall’alto col monopolio della violenza ma si esprime tramite una continua negoziazione tra i diversi attori, espressa anche tramite tentativi, più o meno genuini o di facciata, di introdurre riforme. Tra gli attori più longevi, nel livello locale e in quello sovralocale, vi sono quelli che dimostrano un’elevata maturità politica, data dall’aver acquisito consapevolezza e conoscenza delle stesse dinamiche di potere, e una spiccata capacità di adattarsi costantemente alle mutazioni dei contesti e alle contingenze regionali e globali.

  1. Gli strumenti del potere

Per assicurarsi il controllo delle risorse e, quindi, del territorio e dei suoi abitanti, l’autorità si affida a una serie di strumenti. Prima di descriverli nel dettaglio è importante sottolineare tre aspetti: ciascuno di questi strumenti ha una funzione ben precisa all’interno della più articolata gestione del potere; per quanto sia funzionante ed efficace nel suo ambito specifico, nessuno di questi può sostituirsi agli altri ed essere da solo sufficiente per mantenere il potere; ognuno va interpretato in modo da garantire all’autorità le due capacità chiave: saper negoziare e adattarsi ai contesti. I principali strumenti sono:

  1. l’apparato militare e poliziesco di controllo
  2. il mantenimento di ampi strati della popolazione scarsamente sviluppati dal punto di vista politico, economico, Per esempio, contribuire a far sì che la popolazione rimanga sotto la costante minaccia dell’insicurezza alimentare. E questo per evitare che una situazione di relativo benessere porti a pensare ad altro oltre alla mera sopravvivenza. In questo modo si rende più difficile lo sviluppo di personalità in grado di ergersi a guida politica, culturale, spirituale.
  3. assicurarsi il controllo fisico del territorio significa includere gli abitanti, del tutto o parzialmente, nel sistema di prelievo e ridistribuzione delle risorse. Per esempio, le periodiche riforme agrarie e la continua definizione e ridefinizione del quadro normativo-istituzionale e degli spazi amministrativi-elettorali sono azioni necessarie per incorporare o escludere le élites
  4. dividere la società lungo linee verticali ed evitare qualsiasi forma di solidarietà orizzontale. Nella negoziazione tra centro e periferia, il primo ha bisogno di relazionarsi con controparti locali deboli, non collegate ad altre realtà locali. Per questo motivo il potere dominante fa di tutto affinché le varie periferie non si alleino le une con le altre. L’autorità centrale evita quanto possibile di intavolare delle negoziazioni multilaterali, preferendo piuttosto trattare con attori locali in maniera bilaterale. Per raggiungere l’obiettivo di mantenere la società frazionata verticalmente, il potere adotta una serie di pratiche: 1) distribuisce in maniera disuguale i servizi, i diritti, le rendite, i privilegi ai vari attori locali; 2) alimenta retoriche e pratiche identitarie divisive, sostenendo in modo esplicito o implicito le contrapposizioni comunitarie e quelle socio-economiche, insistendo sulla minaccia esistenziale posta da ‘terroristi’ e nemici esterni, enfatizzando la presunta cesura tra ‘minoranze’ e ‘maggioranze’; 3) organizza l’ambito del lavoro e delle organizzazioni professionali favorendo una logica corporativa verticale a scapito di quella sindacale trasversale; 4) promuove il localismo e il campanilismo dietro un’apparente retorica nazionalista e unitaria.
  1. I canali del potere

Gli strumenti del potere finora descritti sono impiegati dall’autorità tramite una serie di canali, la cui funzione essenziale è quella di collegare il centro con la periferia. Questi canali mostrano le seguenti proprietà:

  1. Non sono monodirezionali dal centro verso la periferia, bensì servono entrambe le estremità del rapporto di potere, consentendo al centro di arrivare alla periferia e viceversa, in una costante interazione e
  2. La capacità di ciascun canale di penetrare la periferia varia a seconda delle caratteristiche ambientali, della struttura sociale e delle sensibilità culturali del contesto, degli attori individuali e dei gruppi coinvolti nel processo, delle contingenze politiche ed economiche sia su scala locale che
  3. Ciascun canale può presentarsi, esprimersi e funzionare in maniera differente a seconda delle numerose combinazioni possibili delle interazioni tra gli attori del centro e della Nello stesso periodo di tempo, per esempio, il partito Ba‘th può esprimersi in maniera diversa a Hama rispetto alla sua declinazione locale di Suwayda’ o di Qunaytra.
  4. Questi canali non si esprimono solo attraverso le istituzioni cosiddette formali ma operano in maniera ibrida: l’aspetto ‘formale’, quello ‘informale’ e quello ‘consuetudinario’ (‘urf) si intrecciano e si sovrappongono fino a rendere spesso difficile tracciare un confine chiaro tra queste dimensioni, come risulterà più chiaro nelle pagine che

I principali canali del potere, presenti nei vari contesti siriani attraverso le diverse fasi della storia contemporanea sono i seguenti:

  1. L’apparato di sicurezza, repressione e giudiziario (coercizione).
  2. Le istituzioni ‘formali’ dello Stato: parlamento, presidenza, governo e loro rispettive emanazioni locali (governatorato, direttorato), autorità
  3. Il Ba‘th (nelle aree governative). Come si vedrà nella Parte Terza, nelle zone amministrate dalle forze curde e in quelle controllate dalla Turchia non esiste un’istituzione con la capillarità e l’efficacia del Ba‘th, ma esistono entità politico-ideologiche tentano di assicurare la legittimazione del potere, l’incorporazione delle classi subalterne, cercando di identificare l’interesse dell’oligarchia con quello
  4. Unioni professionali, cooperative, camere di commercio, dell’agricoltura e dell’industria.
  5. Associazioni, organizzazioni non governative, entità religiose-

Questo schema va ovviamente contestualizzato e adattato alle varie fasi della modernità e della contemporaneità, così come va letto alla luce della più recente attualità.

Come si compone il sistema di potere in Siria? Oltre ai vertici della piramide istituzionale, chi comanda a livello nazionale e locale?
Nella Siria contemporanea, così come in gran parte dei territori mediorientali, il patto sociale si è basato e si basa ancora oggi su un articolato processo di prelievo delle risorse del territorio e una distribuzione non equa dei servizi e delle rendite. È un paradigma di potere dominante da secoli, ben prima dell’avvento dei regimi ba‘thisti incarnati dalla famiglia Asad. Ma soltanto nell’ultimo mezzo secolo di storia, il potere centrale è riuscito a portare la sua capacità estrattiva e distributiva in quasi ogni angolo del territorio. I poteri ottomani e quello mandatario francese avevano tentato, in modi diversi, di territorializzare la loro egemonia che era però rimasta limitata alle regioni occidentali, dove si concentrava il potere locale urbano-rurale. Da almeno quattro secoli i territori siriani sono comunque governati da poteri centrali che concepiscono queste terre come una risorsa da sfruttare e non su cui investire per lo sviluppo delle varie popolazioni. Queste sono considerate come genti da assoggettare con una sapiente miscela di cooptazione e coercizione. Si tratta di una mentalità egemonica che si riproduce da secoli in una miriade di pratiche e di discorsi diventati parte integrante del modo di pensare e di vivere di gran parte della società in tutte le sue componenti elitarie e subalterne.

Il processo di prelievo e distribuzione come strumento egemonico ha sempre visto al suo centro la presenza di intermediari. Oggi come ieri le élites locali sono infatti al centro dell’articolazione di potere tra centro e periferia.

Questo meccanismo è caratterizzato dall’intermediazione e dalla concentrazione dei poteri nel contesto fisico della città. Si tratta di un concetto fondamentale per comprendere le dinamiche di potere, legate al clientelismo e alla cosiddetta corruzione, non solo in Siria ma in molti altri contesti mediorientali, mediterranei e di altre regioni del globo. I paragrafi che seguono sono dedicati alla rivisitazione diacronica della funzione e del carattere degli intermediari. Se i caratteri sono mutati e mutano continuamente a seconda dei contesti e delle contingenze locali, nazionali, regionali, rimane pressoché inalterata la loro funzione di cardine nel processo estrattivo, gestionale e distributivo delle risorse.

In un’infografica a pagina 166 del volume è illustrata l’articolazione del potere tra periferia e centro, passando per una serie di intermediari locali e nazionali. Alla base c’è il territorio, con le sue risorse e i suoi abitanti. Le risorse sono prelevate con vari mezzi dal potere centrale tramite una serie di articolazioni intermedie – intermediari, appunto – incarnati in élites locali e nazionali. Parallelo al processo di prelevamento c’è quello di distribuzione delle rendite e di parte delle risorse stesse.

La distribuzione dal vertice alla base avviene in maniera diseguale attraverso pratiche clientelari: le articolazioni intermedie sono dominate dal rapporto tra soggetti che ricoprono, molto spesso in maniera alternata e intercambiabile, il ruolo sia di cliente sia di padrone. In queste articolazioni si concentra il potere e si accumulano le rendite, grazie ai surplus derivanti anche dai costi di transazione sotto forma di commissioni, cambi valutari, imposte sui consumi. In questo processo, gli individui non sono dei cittadini con parità di diritti, indipendentemente dalle loro appartenenze territoriali e comunitarie. Né sono dei contribuenti con delle responsabilità civili. Sono delle entità che si realizzano soltanto all’interno di comunità. Queste appaiono coese al loro interno sulla base di reali o immaginarie solidarietà etniche, religiose, geografiche e storiche. Sono gruppi comunitari guidati da leader a loro volta clienti e intermediari di poteri situati più in alto nel processo estrattivo e distributivo.

Che impatto ha avuto il conflitto siriano nella definizione delle dinamiche di potere locali e nazionali?
La rabbia è figlia della sofferenza. Questa epigrafe potrebbe apparire sul frontespizio di ogni opera dedicata al conflitto siriano e alle travagliate vicende che da secoli caratterizzano la storia dei territori a est del Mediterraneo.

Una sofferenza, e quindi una rabbia, che sono il risultato di sedimentate pratiche di esclusione di ampi settori della società secondo un paradigma clientelare che, come visto in questo volume, finisce per generare profonde diseguaglianze, gettando le basi per ricorrenti conflitti sociali e politici.

L’inasprirsi della tensione sociale porta con sé l’emergere di forme dirompenti di contestazione, soprattutto nei contesti di governo poco trasparenti, dove i rappresentanti del potere sono poco propensi a dare conto delle proprie responsabilità e dove le comunità non hanno potere nell’orientare i processi distributivi e di investimento per lo sviluppo.

In molti casi, quello che spinge gli individui e i gruppi a protestare con forme apertamente trasgressive, arrivando a sfidare la minaccia repressiva del potere, non è tanto la povertà o la fame, bensì il timore di rimanere esclusi dal beneficio e dalla gestione delle risorse e dei servizi. È la paura di essere tagliati fuori dal sistema di distribuzione. Di rimanere senza prospettive di crescita e di sviluppo. In assenza dell’applicazione pratica del principio di cittadinanza, che in teoria garantisce diritti a tutti gli individui civilmente responsabili di assolvere ai loro doveri, indipendentemente dalle appartenenze comunitarie e affiliazioni clientelari, chi si sente escluso è alla costante ricerca di una chiave per accedere al carosello dei favori, dei privilegi, delle regalie da parte dei potenti e dei loro intermediari.

Il paradigma comunitario, basato sulla presunta comune appartenenza etnica o confessionale, è da circa centocinquant’anni uno dei sistemi più diffusi di accreditamento cooptazione. In Libano costituisce l’impalcatura ben visibile del potere, mentre in Siria e in altri Paesi questo paradigma opera spesso sottotraccia. Nel confronto tra il potere costituito e i gruppi che lo contestano si innesca uno scontro di discorsi e di pratiche per riaffermare la legittimità dello statu quo o a delegittimarlo. Nascono così rappresentazioni identitarie esclusive, per molti aspetti estreme, e si irrigidiscono le posizioni sia di chi mette in discussione il patto sociale sia di chi lo difende. In questa dialettica si ricorre, in maniera più frequente del solito, a terminologie tese sia a escludere l’altro, indicandolo per esempio come ‘terrorista’ o ‘infedele’, sia a identificare l’interesse e il bene delle élites con quelli della gente comune.

A tale scopo le autorità intensificano gli sforzi per ribadire l’esistenza di una vera o presunta coscienza identitaria nazionale, mentre si rafforzano rappresentazioni radicali circa il passato, il presente e il futuro. E in determinate congiunture locali, nazionali e regionali possono scoppiare i conflitti armati.

Il processo dialettico e negoziale non si arresta con l’ingresso sulla scena della violenza armata. I gruppi non statuali che riescono a mantenere aperta la contestazione trasgressiva possono ricorrere, anche grazie all’efficacia dei social media, a forme di costruzioni identitarie sovranazionali come nel caso, per esempio, del panarabismo degli anni Cinquanta e Sessanta, del qaidismo degli anni Novanta, del più recente jihadismo dell’ISIS. Questi gruppi cercano di raccogliere una legittimità extra-locale per moltiplicare le fonti del consenso e quelle del sostegno finanziario per poi promuoversi in ambito interno, tentando di forzare l’accesso al sistema distributivo locale e nazionale.

Dal canto suo, il potere è spinto a reagire con tutte le risorse per riportare l’ordine e ripristinare il controllo del territorio e della popolazione: le autorità intervengono ricorrendo all’uso della violenza ma anche introducendo nuove leggi e modificandone altre; spingendo parti di popolazione considerate ostili ad abbandonare territori da comunità percepite come fedeli al patto sociale; rafforzando l’apparato retorico sia negli ambiti dell’educazione nazionale sia nei media.

Il potere può trovarsi costretto a metter mano al processo di prelievo e distribuzione, cedendo porzioni più o meno consistenti di monopolio in favore di nuovi o vecchi clienti locali, ma anche in favore di forze straniere. A questi attori si appaltano così i compiti, in precedenza affidati alle autorità nazionali, di garanzia della ‘stabilità’ e della ‘sicurezza’. Questi vengono esercitati sempre in nome dell’‘unità’ nazionale, in un apparente contesto di continuità con il periodo precedente allo scoppio del conflitto. In realtà è un gioco a somma zero in cui il potere ha ormai ceduto ai clienti locali o a suoi padroni stranieri, il privilegio di prelevare parte delle risorse nazionali e, in molti casi, di distribuire i servizi ad alcune comunità. Le risorse del territorio sono depauperate e lo sfruttamento di quelle ancora disponibili e accessibili è compromesso dai danni strutturali e logistici causati dal malgoverno e dal conflitto armato. Le filiere di produzione e quelle del commercio sono interrotte dalla frammentazione territoriale imposta da una pletora di milizie, «signori della guerra», eserciti stranieri.

Questi impongono dazi e controllano i valichi frontalieri così come i posti di blocco, riducendo ulteriormente la capacità delle varie comunità locali di mantenere legami di solidarietà socio-economiche, politiche e culturali. L’agricoltura e l’industria non offrono più garanzie di produttività, di occupazione e di sostentamento; non soddisfano le richieste per l’esportazione né rispondono al fabbisogno interno. Le istituzioni dello Stato sono sempre più dipendenti da creditori stranieri e, col passare del tempo, perdono ogni margine di autonomia, decretando il collasso dell’apparato statale e l’impoverimento della popolazione. È un circolo vizioso che crea nuove sofferenze, nuove frustrazioni e nuove esclusioni. Si diffondono semi di discordia e rabbia e si generano cause di conflitti che, con modalità e intensità di verse, sono destinati a protrarsi nel tempo.

Lorenzo Trombetta è tra i maggiori studiosi di Siria contemporanea, cui ha dedicato una tesi di dottorato discussa alla Sorbona di Parigi (2008) e due saggi in italiano, l’ultimo edito da Mondadori Università nel 2014 (Siria. Dagli ottomani agli Asad. E oltre). Arabista e giornalista professionista, è corrispondente per l’ANSA e per la rivista di geopolitica «LiMes» nell’area. Con Lorenzo Kamel ha pubblicato Sciismo e potere. Il peso della storia tra Iran, Libano e Iraq (Ipo, 2021).

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