
Una storia presenta sempre un soggetto che entra in conflitto con un antagonista. Tuttavia, è mutato lo statuto del personaggio nel corso del tempo?
Facendo un lungo salto a ritroso, non è difficile affermare che siano gli eroi greci i prodromi di tutti i personaggi ai quali si è poi ispirata la letteratura dei secoli successivi. Nella Poetica, Aristotele riconosceva grande importanza all’azione – più che alle persone che le eseguivano – in quanto gli agenti erano considerati meri esecutori di piani ciclici, ripetitivi, già previsti dalle forme drammaturgiche dell’epoca. I personaggi erano, in tal senso, strumenti già programmati per lo sviluppo della vicenda dicotomica che vedeva un eroe positivo scontrarsi con un antagonista, spesso identico a lui, ma schierato dalla parte sbagliata. Indubbiamente oggi l’azione viene surclassata dal “carattere” che diviene il fulcro principale su cui costruire la trama. Negli ultimi decenni, ma già dall’avvento dell’esistenzialismo e della psicoanalisi freudiana, sono emersi per lo più degli antieroi, al cui fondo giace un’idea di “caduta”, di privazione del sé di ordine storico, sociologico o psichico. Così pensati, gli agenti sono molto più rappresentativi del disordine, delle nevrosi, o semplicemente della banalità e dell’inettitudine che governa più verosimilmente le identità umane; basti pensare ai protagonisti delle serie tv degli ultimi anni tra cui: i nerd di The big bang theory, i criminali di Gomorra, il professore-spacciatore di Breaking bad, le ipocrite benpensanti di Desperate housewives, o i loser di After life, per comprendere come siano le divaricazioni dalla “normalità” a risultare più drammaticamente pregnanti.
Risulta difficile immedesimarsi negli antieroi. Cosa crea, dunque, empatia nello spettatore?
Nonostante la vastità dei possibili, la narrativa ripropone in modo piuttosto costante un sistema preformato e assolutamente istintivo di motivi, costituito molto prima che l’uomo sviluppasse una coscienza riflessiva, una data cultura, un dato assetto valoriale. Mi riferisco all’impianto archetipico che, nella visione junghiana, è correlato all’inconscio collettivo. Gli archetipi non si diffondono attraverso la tradizione o la lingua, ma risorgono spontaneamente in un modo che non è influenzato dalla trasmissione esterna. Perciò, Jung sostiene che essi siano già presenti nella psiche come forme, disposizioni, idee primigenie. Rappresentare gli archetipi tramite i personaggi risulta, in tal senso, un congegno creativo strategico ed efficace. C. Pearson ha modellizzato gli archetipi in rapporto al percorso che la nostra coscienza intraprende nell’armonizzazione della psiche e nella formazione della propria identità, stilando un viaggio sistematico che dall’infanzia giunge fino alla vecchiaia. In ognuna di queste fasi, un archetipo-personaggio funge da guida interiore e rappresenta una temporanea espressione dell’identità di quel momento. In tal senso, non è difficile ritrovarsi in ogni personaggio, sia esso un Innocente, un Guerriero, un Saggio o un Distruttore. Gli antieroi, che dunque richiamano l’ambivalenza profonda, descrivono dello stesso archetipo la sua ombra, la sua debolezza, quel difetto speculare alla dote. Un’analisi di questo tipo può ben spiegare l’attrazione che possiamo provare verso l’archetipo luminoso e, nel contempo, la pungente curiosità che ci spinge a volerne indagare quel simmetrico lato oscuro, presente seppur nascosto alla nostra coscienza.
In questo volume lei parla nello specifico della trama classica come base di partenza da cui si sviluppano poi le numerose variabili. Quali sono i passaggi necessari affinché una storia possa ritenersi ben strutturata?
La struttura classica definisce la spina dorsale di una storia ed è dal distanziamento da tale struttura che vengono poi create le variabili, le rotture, i capovolgimenti creativi che possono generare strutture più complesse e impreviste, dalla forte cifra autoriale. Secondo la manualistica tradizionale, l’ossatura tradizionale di un plot deve prevedere almeno cinque passi ovvero l’incidente scatenante (inciting incident o catalyst), evento che rompe l’equilibrio iniziale mettendo il protagonista in una situazione ignota o imprevista, le complicazioni progressive (plot point e punto di non ritorno) che segnano le azioni principali volte al raggiungimento dell’obiettivo e alla ricostruzione dell’armonia perduta, la crisi che vede il protagonista di fronte ad una scelta fondamentale, il climax e la risoluzione che evolvono nel picco emotivo conclusivo. L’incidente e la risoluzione devono essere fortemente correlati, tant’è che si consiglia di partire dal finale per poi ricostruire l’inizio della vicenda. Quando questo suggerimento è ben attualizzato, la trama appare solida e conclusa, quando invece è trascurato la trama appare ben strutturata inizialmente ma deludente e superficiale nella risoluzione. Ciò non toglie che alcune narrazioni siano favorevoli alla destrutturazione di tale modello rassicurante, ne sono un esempio proprio quelle de-drammatizzazioni che, alla logica della causa-effetto o alla conclusione prevedibile, preferiscono un’apertura che convoca un libero lavoro interpretativo, pensiamo tra gli altri a film quali La montagna sacra di A. Jodorowsky, a Holy motors di L. Carax o al recente Il buco di G. Gaztelu-Urrutia analizzato nel volume.
Qual è il contributo della semiotica all’analisi dell’immagine?
I film tratti da romanzi e novelle, partono dalla necessità di disegnare un modello di realtà vincolato ai codici cinematografici: se il testo scritto ci invita ad immaginare scenari, colori, figure, corpi, voci, costringendoci ad un fantasioso sforzo cognitivo, un film ci “risparmia”, obbligandoci a vedere con gli occhi di chi ha già scelto, selezionato e costruito al posto nostro. Un testo scritto può, infatti, lasciare su uno sfondo indistinto informazioni che nel testo audiovisivo, per sua natura, non possono essere trascurate. Lo stesso lavoro immaginativo che fa il lettore, lo fa il regista che traduce in visione la sceneggiatura fatta di dialoghi e vaghe indicazioni descrittive. Le immagini selezionate non vengono solo attinte dal profilmico ma vengono trattate in modo significativo dalla macchina da presa che, come la penna dello scrittore, scrive la colonna visiva: determina i confini della messa in quadro, la vicinanza all’obiettivo, i piani e la messa a fuoco, la concatenazione delle inquadrature grazie a diversi tipi di montaggio e così via. Saper leggere semioticamente un’immagine significa saper ricostruire un ulteriore livello di senso che va , dunque, oltre la referenza di ciò che si percepisce: lo sapevano già grandi registi come il russo S. M. Ėjzenštejn, il giapponese Y. Ozu, lo statunitense O. Welles o ancora il londinese A. Hitchcock che si adoperarono a che l’immagine significasse altro da sé determinando, ad esempio, le attrazioni tra gli elementi compositivi, la dominanza dei corpi rispetto allo spazio – ora inglobante ora puro sfondo -, o ancora l’elogio del dettaglio che, come un punto esclamativo, drammatizza fortemente una descrizione. Lo studio dei segni e dei codici consente di poter aggiungere informazioni al piano della trama e di godere in modo totalizzante l’esperienza della visione.
Anna Cicalese è professore associato presso l’Università degli Studi di Salerno dove è titolare delle cattedre di Semiotica e Semiotica e Comunicazione. Si occupa di Linguistica e di Semiotica testuale, privilegiando il linguaggio pubblicitario e cinematografico. Tra le sue monografie: Imparare a scrivere. Una guida teorico-pratica (Carocci Editore, 2001); Semiotica e comunicazione (FrancoAngeli, 2004), Da dove dgt? Chatlines, testo e società (FrancoAngeli, 2007), Fatti di consumo (Edizioni Gaia, 2010), C’era una volta Storybrooke (Edizioni Gaia, 2017), La psicoanalisi in tv. Analisi semiotica della serie ‘In treatment’ (Brunolibri, 2018), Appunti di semiotica (FrancoAngeli, 2019), Narrazioni audiovisive. Film, spot, serie tv (FrancoAngeli, 2021).