“Mystery Cults in Visual Representation in Graeco-Roman Antiquity” a cura di Francesco Massa e Nicole Belayche

Prof. Francesco Massa, Lei ha curato con Nicole Belayche l’edizione del libro Mystery Cults in Visual Representation in Graeco-Roman Antiquity pubblicato da Brill: che cosa intendiamo con l’espressione “culti misterici”?
Mystery Cults in Visual Representation in Graeco-Roman Antiquity, Francesco Massa, Nicole BelaycheAncora oggi, i termini “misteri” o “culti misterici” evocano immediatamente scene tenebrose, dove strani personaggi celebrano riti insoliti, inaccessibili a chiunque non sia iniziato. In questa rappresentazione, è la dimensione segreta, “misteriosa” che è messa in risalto. La storiografia ha a lungo considerato che i misteri trasmettessero essenzialmente un insegnamento, se non una vera e propria dottrina, attraverso un messaggio di salvezza rivelato agli iniziati. Di conseguenza, si è spesso trascurato che il campo semantico dei misteri si riferisce soprattutto al rito, alla pratica.

Il problema principale che si deve affrontare quando si studiano i culti misterici antichi è quello della definizione. Cosa intendiamo noi per “culti misterici” e cosa intendevano i Greci e i Romani? La risposta non è semplice: esistono senza dubbio alcuni termini, in greco e in latino, che sono utilizzati per parlare di culti riservati e il cui contenuto era “indicibile”: mysteria, teletai, orgia, initia, ed altri. È importante ricordare, però, fin da subito che questo vocabolario comprende varie pratiche cultuali diverse tra loro che sono state celebrate in un arco cronologico molto ampio, dal tempo della Grecia arcaica alla fine dell’Antichità, e su territori fra loro lontani. L’organizzazione, le possibilità di accesso e la diffusione non sono le stesse, a seconda dei tempi e dei luoghi, e le divinità che questi riti servivano a onorare erano esse stesse diverse.

Non c’è dubbio che nell’Antichità un culto fra tutti gli altri rappresentava il modello per antonomasia dei culti misterici: quelli celebrati una volta all’anno in onore di Demetra e Core ad Eleusi, un santuario dell’Attica situato a circa 20 km da Atene. Come viene cantato nell’Inno omerico a Demetra, i mysteria eleusini sarebbero stati istituiti dalla dea in persona e trasmessi al genere umano.

Per questo è importante non considerare i misteri come un “tipo assoluto”, un fenomeno la cui evoluzione può essere seguita indipendentemente da qualsiasi contesto storico, ma realizzare una ricerca ancorata in contesti storici specifici. Questo approccio permette di evitare certe generalizzazioni abusive e altre semplificazioni a cui troppo spesso dà luogo l’uso di questa categoria onnicomprensiva. Gli articoli contenuti nel volume pubblicato da Brill non analizzano soltanto la questione dell’iconografia dei culti misterici, ma si interrogano anche sulla pertinenza della categoria di “misteri” per parlare delle diverse pratiche analizzate (Mithra, Iside, Madre degli dèi, Dioniso, etc.).

Quale diffusione avevano i culti misterici nel mondo greco-romano?
Come spesso accade quando si studia la storia dell’Antichità, non è facile definire da un punto di vista quantitativo la diffusione delle pratiche cultuali. Quello che possiamo dire è che le diverse forme di “culti misterici” sono documentati in molti territori del mondo imperiale romano: dalla penisola iberica fino alla Siria, dall’Egitto alla Britannia. Ovviamente, ognuno di questi culti aveva una diffusione specifica: le attestazioni del culto di Mithra sono numericamente più importanti nelle province occidentali di lingua latina; i misteri di Dioniso al contrario sono più attestati nei territori di lingua greca. Una valutazione complessiva e dettagliata, però, è pressoché impossibile.

Come venivano rappresentati visivamente i culti misterici nell’antichità greco-romana?
Si sottolinea spesso, e a ragione, l’importanza delle immagini nelle società antiche (basti pensare alla definizione di Atene come La Cité des images, in un volume importante del 1984). Le rappresentazioni iconografiche erano pervasive, tanto nella sfera pubblica quanto in quella privata. In questa prospettiva, l’idea originaria del volume – e del convegno parigino che l’ha preceduto – era quella di capire se le immagini potessero fornire elementi nuovi per la comprensione delle pratiche rituali celebrate duranti i riti misterici. Sappiamo però che nessuna rappresentazione figurativa è una replica fedele della realtà. Come l’hanno spiegato molto bene le studiose e gli studiosi che si sono occupati dell’iconic turn, ogni immagine è una costruzione visiva che si modella diversamente a seconda dell’ambiente culturale in cui viene prodotta.

Nel caso dei culti misterici antichi va poi sottolineato un altro aspetto che l’introduzione al volume cerca di mettere in evidenza: le immagini legate ai misteri non sono il prodotto di una religione intesa in senso moderno e quindi non contengono un’illustrazione letterale delle credenze religiose di coloro che celebravano questi culti. Inoltre, le rappresentazioni iconografiche dei misteri che abbiamo a disposizione non erano limitate ai “luoghi di culto”; le immagini potevano decorare spazi che non erano riservati agli iniziati, come le case private o i sarcofagi nelle tombe.

Un esempio della difficoltà di interpretazione delle immagini, con cui il confronto è costante, è il famoso è il ciclo di affreschi della cosiddetta “Villa dei Misteri” di Pompei. Il ciclo pittorico che decora il triclinium della villa pompeiana è stato variamente interpretato: alcuni, seguendo l’interpretazione tradizionale che ha poi dato il nome alla villa, propendono per una scena di iniziazione dionisiaca, mentre Paul Veyne ha riconosciuto una scena interna nel gineceo di una matrona romana in occasione di una festa di nozze. Senza entrare nei dettagli dell’affresco, si può almeno notare l’assenza di qualsiasi caratteristica architettonica che supporti l’identificazione di questa stanza come luogo di culto degli iniziati dionisiaci, se ci sono delle caratteristiche architettoniche specifiche dei misteri. In questa prospettiva, lo studio di Stéphanie Wyler si concentra sugli affreschi (oggi perduti) che decoravano il primo palazzo di Nerone sulla collina del Palatino e sul ruolo dei simboli misterici dionisiaci, in particolare il fallo e la cista che si pensava contenesse gli oggetti svelati durante l’iniziazione.

In che modo l’analisi visuale contribuisce a ricostruire le pratiche rituali che accompagnavano i culti misterici?
Oltre che nell’introduzione, la questione è in particolare affrontata nella prima parte del volume che tenta di rispondere a due domande complesse: cosa mostrano, indicano o suggeriscono le immagini quando raffigurano i culti misterici? E come possiamo identificare le immagini dei culti misterici se, come abbiamo detto, non esiste una definizione uniforme di questi riti?

Dal momento che il contenuto dei culti misterici era “indicibile” e non poteva essere trasmesso a coloro che non erano iniziati, le immagini non possono essere una semplice rappresentazione di un’iniziazione. Tuttavia, non si può negare che l’artista (o chi ha commissionato l’opera) abbia voluto evocare dei riti legati al contesto misterico. Non stiamo, ovviamente, guardando una fotografia o un reportage delle cerimonie, ma le immagini offrono una rappresentazione che allude ad esse, come nel caso dei sarcofagi romani con rappresentazioni dionisiache.

In che modo la storiografia ha interpretato le immagini dei culti mitraico e isiaco?
Come afferma Nicole Belayche nell’introduzione alla seconda parte del volume, soprattutto nel caso di Mithra le numerose immagini che l’Antichità ci ha trasmesso hanno per lungo tempo condotto la critica a utilizzare l’iconografia per ricostruire i culti mitraici, in particolare per quanto riguarda il celebre sacrificio del toro rappresentato negli affreschi e nelle statue rinvenute nei mitrei. Da questo punto di vista, i lavori dello studioso belga Franz Cumont, dell’inizio del XX secolo, sono particolarmente significativi. Oggi la storiografia è più prudente, e l’articolo di Philippa Adrych contenuto nel volume ne è un esempio importante. La studiosa si concentra sulla lettura del mosaico del mitreo di Felicissimus a Ostia, che è stato spesso considerato come un’illustrazione dei sette gradi dell’iniziazione mitraica: attraverso un’analisi del mosaico alla luce delle fonti letterarie e epigrafiche, P. Adrych sottolinea come questo non possa essere preso come un modello per l’insieme del culto mitraico che era invece composto da una pluralità di forme cultuali, diverse a seconda delle regioni.

Un problema storiografico analogo si riscontra nel caso dell’iconografia relativa ai culti isiaci. Richard Veymiers propone un approccio semiologico alla lettura delle immagini e mette in luce come la critica abbia spesso utilizzato il filtro delle Metamorfosi di Apuleio per leggere le rappresentazioni iconografiche isiache. Ricostruendo il contesto archeologico delle immagini analizzate, lo studioso riconosce nella cista raffigurata in ambito isiaco la presenza di un “marcatore misterico”, un elemento iconografico che rinviava lo spettatore alla celebrazione dei riti celebrati in onore di Iside e Osiride.

Quale funzione svolgevano gli oggetti nei culti di Dioniso e della Madre degli Dei?
Quattro studi contenuti nel volume si concentrano sui culti di Dioniso. La ricchezza del materiale iconografico dionisiaco è uno degli elementi centrali delle analisi: il culto di Dioniso, pur non rappresentando un fenomeno religioso unitario, ha attraversato le epoche del mondo antico e gli articoli mettono in evidenza le trasformazioni intervenute tra l’epoca greca classica e quella imperiale romana.

Oltre al già citato contributo di S. Wyler, il ruolo degli oggetti è soprattutto analizzato da Anne-Françoise Jaccottet (per il contesto dionisiaco e eleusino) e da Françoise Van Haeperen (per il culto della Madre degli dèi). Lo studio del liknon (il termine greco per definire la cesta) dionisiaco è esemplare del rapporto tra immagini e culti misterici: si tratta in effetti di un oggetto di uso quotidiano che viene reinterpretato, soprattutto a partire dal I secolo d.C., con una valenza iniziatica. Le immagini alludono al contenuto di oggetti misterici, come il fallo, e rappresentano talvolta personaggi nell’atto di svelarne il contenuto. Come già sottolineato per il contesto isiaco, si tratta di un dispositivo visivo che attirava l’attenzione di coloro che guardavano le immagini e che rinviava al contenuto “indicibile” dei riti celebrati.

Nel caso della Madre degli dèi, la questione è ancora più complessa; innanzitutto perché, come lo sottolinea Françoise Van Haeperen, le fonti non sono esplicite nell’attribuire a questi culti una valenza misterica. Se anche in questo caso la rappresentazione della cesta di vimini contenente gli oggetti cultuali può essere interpretata come un “marcatore” di cerimonie non aperte a tutti, la studiosa mette in evidenza come la presenza della cista sia associata soprattutto al personale cultuale che utilizza questo oggetto per sottolineare la sua autorità in ambito rituale.

Francesco Massa è professore assistente di Storia dell’Antichità presso l’Università di Friburgo, dove dirige un gruppo di ricerca sulla competizione religiosa nella tarda antichità, finanziato dal Fondo Nazionale Svizzero per la ricerca scientifica (https://relab.hypotheses.org). Si occupa principalmente di storia delle religioni dell’Antichità e delle interazioni religiose tra pagani e cristiani nel mondo imperiale romano. Co-dirige la rivista svizzera Asdiwal (www.asdiwal.ch) e la rivista italiana Mythos (https://journals.openedition.org/mythos/).

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