Pascoli è tutto volto a captare i moti esterni della vita. Per questo vien voglia di credere che la sua essenza stia nel rimosso e nel vicario. E non è una voglia sbagliata. Né c’è in lui amore per la vita, diversamente che in Leopardi. La commozione, in Pascoli, è sempre per qualcosa che non viene detto e resta implicito, cioè la morte. Certo, ci sono immagini positive, come quella fondamentale del nido. Ma anche il celebrato nido, in sostanza, è morte, perché è un frutto della morte. È il lutto. Per una simile ambiguità il tono di Pascoli è tanto inconfondibile, è così completamente suo, anche se può passare per posa, quando non per falsità bell’e buona. […]
La poesia di Myricae sgorga dalla coscienza dell’orfanità o più precisamente dal senso dell’ingiustizia subita. La contemplazione della natura offre palliativi utili, anche qualche compenso, ma non riesce a riparare la perdita. Piuttosto, alla fine, le dà una collocazione ancora più ampia. Solo così il piccolo mondo pascoliano diventa cosmico. […]
Pascoli ha uno sguardo sociale sulla propria vicenda. La sua poesia è un palcoscenico di apparizioni popolari, un mondo di vicende infelici, che però, gira e rigira, sono sempre la sua. Ecco perché, pur essendo un gigante, non è mai assurto a modello spirituale per gli italiani, a differenza di Leopardi o di Petrarca, che avevano un’idea non solo della propria vita, ma di quella dell’umanità intera. […] Insomma, Pascoli vede il mondo (e la letteratura) e ci vede solo se stesso e i suoi. […]
A Pascoli, dunque, non chiederemo un «sistema», ma leggeremo la sua poesia come manifestazione di una rinuncia a qualunque ideale o filosofia, anche negativa. E in questa rinuncia o inettitudine il suo individualismo esasperato si rivela segno di uno smarrimento non solo personale; di una volontà di rivalsa che avrà esiti anche fuori del suo caso particolare. […]
Myricae, anche se ha l’evidente limite di non (voler o poter) interpretare il mondo che evoca, è un libro trionfale per la coerenza con cui sa rappresentare l’ossessione della morte. Nessun altro poeta ha pensato alla morte così tanto e così normalmente. La morte, per Pascoli, è un dato dell’esistenza: è un aspetto della giornata. Perché per lui la morte è un inizio, non una fine.»
tratto da Per una biblioteca indispensabile. Cinquantadue classici della letteratura italiana di Nicola Gardini, Einaudi editore