
In effetti non si trattava di un solo piano, ma di tre piani diversi e complementari. C’era il piano minimo, e cioè quello che l’Italia avrebbe cercato di attuare con una sorta di “pareggio” militare, diciamo così, tra Asse e Gran Bretagna, e che si sarebbe quasi tutto risolto territorialmente a discapito della Francia, già sconfitta. C’era poi il piano medio, quello da cercare di attuare in caso di una possibile “pace di compromesso” (il compromesso rappresentava la soluzione migliore, era poco dispendiosa, ed era perseguita dallo stesso Mussolini) con la Gran Bretagna; piano che, magari, potenva anche approfittare di alcune, non sempre, marginali concessioni britanniche. E infine c’era il piano massimo, quello che l’Italia avrebbe dovuto cercare di attuare nella sua forma più larga e in caso di una sconfitta militare della Gran Bretagna; una sconfitta che avrebbe magari visto il concorso attivo e fattivo delle armi italiane, soprattutto in Africa settentrionale, nel confronto diretto col nemico e nel suolo coloniale stesso.
A tali progetti lavoravano da tempo, con una certa enfasi e forse oltre le buone norme della realpolitik, gli Uffici studi del Ministero dell’Africa italiana e del Ministero della Guerra, in particolare dello Stato Maggiore Esercito (essendo le altre Armi meno coinvolte nel progetto relativo all’espansionismo territoriale, nell’ipotesi di una vittoria militare), e a tali disegni queste istituzioni finirono per rimanere sempre ancorate, anche quando l’ipotesi della vittoria sembrava andare sfumando e anche quando la stessa pace di compromesso non appariva più così possibile. E vi rimasero ancorate almeno fino alle gravi sconfitte militari della seconda metà del 1942 (Stalingrado e El-Alamein), e tali elaborati progetti rimasero sempre sui tavoli dei soggetti che li andavano adeguando e che gradatamente inoltravano al Ministero degli Esteri e allo stesso Capo del Governo.
A quali tradizionali rivendicazioni irredentistiche del fascismo si assommava il nuovo piano espansionistico?
I tre progetti, tanto quello massimo, quanto quello medio, e pure quello minimo, davano per scontate, certe e acquisite, le maggiori rivendicazioni irredentistiche “storiche” italiane. Per intendersi sull’acquisizione al territorio metropolitano di Nizza, della Corsica e della Dalmazia, nessuno nutriva dubbi. Il possesso di tali territori, dopo la sconfitta francese e jugoslava, era considerato indifferibile. E, sconfitta ormai la Francia, occorre ripetere, le attenzioni erano rivolte ai possessi francesi sul continente africano, che rappresentavano zone di interesse italiano: Gibuti (o Africa Francese) era data per acquisita anche nella ipotesi di “compromesso”, al pari della Tunisia. Nelle ipotesi della vittoria, più o meno completa, e con il concorso più o meno determinante delle armi italiane, si riteneva altresì certa l’acquisizione della Somalia britannica e il “condominio”, con l’Egitto, in Sudan. L’ipotesi massima rappresentava, letteralmente, il sogno, forse irraggiungibile in qualsiasi anche pur benigna e favorevole ipotesi finale, dell’espansionismo italiano, mirato – nella sua ideologia di fondo – all’apertura degli sbocchi sugli Oceani per l’Italia.
Mi fa piacere allegare, per quanto con i limiti della riproduzione viste le dimensioni delle varie mappe impiegate degli Uffici studi sopra accennati, la cartina (n. 1) di questo piano massimo dell’espansionismo italiano: come si può vedere il nuovo “grande Impero”, colorato in giallo dallo Stato maggiore esercito, prevedeva l’acquisizione di quasi un terzo del continente africano; lasciava agli inglesi pochi possedimenti nell’Africa meridionale e ai francesi esclusivamente l’Africa occidentale. Non solo, ma pure nel medio Oriente l’Italia avrebbe dovuto rimpiazzare le due grandi potenze coloniali, sostituendosi nel possesso della Transgiordania, del Kuwaitt, del Bahrein, e di altre località minori (ma importanti strategicamente), come Socotra, Perim, Aden, Cipro. Completavano il quadro, infine, i possedimenti di Malta, Creta, e Suez, come a dire: l’intero fulcro dell’impero inglese.
Oltre alla mappa geopolitica originale, in fotografia, è possibile vedere anche lo stesso quadro, che mostra appunto le ipotetiche acquisizioni evidenziate in maniera più immediata (n. 2).
Non si pensi tuttavia che anche le ipotesi media e minima fossero molto più contenute nelle eventuali richieste e, quindi, poco redditizie per i progetti espansionistici: anzi, forse perché proprio più realistici, ovviamente nella ipotesi (tuttavia sempre più recondita, col passare dei mesi) della vittoria con le armi, questi piani meno egemonici avevo possibilità di pratica attuazione. Si veda, per esempio, il progetto medio (n. 3), nel quale veniva precluso lo sbocco all’Oceano Atlantico, ma in cui rimaneva del tutto invariato il progetto espansionistico verso l’Oceano Indiano e le località medio-orientali.
Come doveva articolarsi il piano di sostituzione italiana nei possedimenti coloniali francesi e inglesi elaborato dalle amministrazioni militari e politiche del regime?
Tali piani geopolitici dovettero adeguarsi, ovviamente, alle necessità contingenti dell’andamento bellico, ma certo, come dimostro nel libro, molti di quegli stessi piani, che erano stati messi sulle carte già precedentemente lo scoppio del conflitto – e mi riferisco qui, in particolare, ai Balcani – trovarono attuazione pratica nella realtà effettiva, per esempio proprio in seguito alla sconfitta e alla conseguente disgregazione della Jugoslavia. Ciò non toglieva che, al di là dell’andamento delle operazioni belliche, si potesse intervenire e modificare i progetti più generali con eventuali varianti e tenendo conto di aspetti locali e geopolitici particolari.
Certo era che la sostituzione delle amministrazioni coloniali francesi e inglesi, nei nuovi possedimenti coloniali italiani, avrebbe dovuto essere estremamente celere, senza lasciare spazio a periodi di “interregno” o di “compresenza”. I funzionari del Ministero dell’Africa italiana avevano già dato le indicazioni operative di massima, ma indubbiamente la sostituzione dell’intero apparato amministrativo era “il” problema, quello maggiore complesso da risolvere, in virtù della mancanza (anche dal punto di vista umano e numerico) di dirigenti, funzionari, impiegati da adibire a tale complesso e delicato apparato. Inoltre, se in molte località africane il colonialismo inglese e francese era mal tollerato, per non dire odiato, dalle popolazioni locali, le quali ambivano, dietro un sempre più diffuso nazionalismo, a maggiori concessioni e persino all’indipendenza, anche il colonialismo italiano non era certo visto di buon occhio, e la “sostituzione” non doveva considerarsi automatica. Non si trattava, quindi, di un semplice cambio di “colore” sulla cartina geografica, ma di un impegno amministrativo reale ed effettivo, da realizzare dunque sul campo, con tutte le gravi difficoltà che un processo coloniale avrebbe comportato in quel contesto. Per di più l’impero francese non mostrava, nel suo complesso, grossi cenni di sfaldamento, e molti ritenevano che la sconfitta militare patita sul territorio metropolitano non si sarebbe certo riflettuta pure sul vasto possedimento coloniale: quindi, se l’Italia avesse voluto le colonie, ebbene essa avrebbe dovuto conquistarle, con la forza delle armi, non certo con un semplice e indolore passaggio di consegne. E questa era una opinione piuttosto diffusa e condivisa nei territori francesi, anche a sconfitta avvenuta e con i lavori della commissione armistiziale italiana in corso…
Questa è una domanda un po’ complessa, alla quale occorre rispondere per gradi. Cominciamo dal primo interrogativo: l’atteggiamento dell’Alleato. Il Reich, probabilmente, non era a conoscenza dei progetti del “grande Impero”, limitandosi a quanto veniva discusso a livello dei rispettivi Ministeri degli Affari Esteri e dei due governi. Indubbiamente il vasto e ambizioso progetto dell’«Ordine nuovo» nazionalsocialista era fondamentalmente relativo all’Europa, in particolare a quella Centrale e a quella Orientale. Certo la Germania aveva già mostrato di non volersi occupare della politica mediterranea (almeno in quei primi mesi del conflitto) e africana, non andando a disturbare i progetti del «Nuovo Ordine» fascista. Per di più la Germania si era mostrata cauta nei grandi stravolgimenti territoriali che avrebbero interessato la Francia dopo la sconfitta, invitando al realismo pratico anche l’alleato italiano, pronto invece a banchettare senza ritegno a quel tavolo così imbandito. Sembra altresì che lo stesso Mussolini (per non parlare del sovrano Vittorio Emanuele III e della diplomazia) non fosse certo orientato al piano massimo, preferendo proporlo solo per cercare di ottenere almeno il piano minimo (o il medio, in caso di assoluto successo bellico). Ma è altresì certo che questi progetti non vennero mai portati in discussione e l’eventuale opposizione tedesca (ché senz’altro anche il Reich avrebbe voluto dire la sua, con forza, sulla nuova geopolitica mediterranea e africana) non ebbe tempo e modo di maturare.
Infine il tema razziale: ho rintracciato soltanto pochi elementi per affrontare questo tema complesso, e le opinioni più diffuse a livello dirigenziale concordavano sulla ipotesi di estendere la legislazione razziale italiana, già in vigore nell’impero coloniale, anche negli altri eventuali possedimenti, rimandando la trattazione della più ampia e generale politica razziale a una più precisa valutazione sul campo, di particolari problemi locali ed etnici. Questo non vuol dire che sulle riviste (anche quelle scientifiche) il tema non venisse affrontato, ma la discussione si limitava alle proposte e alle ipotesi personali, che non impegnavano, naturalmente, se non gli scrittori stessi.
Quali giustificazioni ideologiche e dottrinarie vennero elaborate per il nuovo ordine geopolitico e territoriale italiano?
Il dibattito dottrinario assunse dimensioni gigantesche, che non appare facile compendiare in poche righe. Parteciparono a questi dibattiti molte delle personalità più importanti della intera accademia italiana, delle sue università e dei suoi maggiori istituti culturali, le più importanti riviste scientifiche e i periodici culturali del regime, in un fiorire di pubblicazioni che, a partire dal 1937, andò via via assumendo dimensioni sempre maggiori. Moltissimi e valenti studiosi italiani parteciparono al dibattito sul “grande Impero”, da economisti a giuristi, da sindacalisti a geografi, da storici a giornalisti, a conferma che il mito dell’espansione imperiale e della nuova missione di Roma nella civiltà mondiale aveva raccolto consensi in molti ambienti. Tali e tante furono le discussioni, che la stessa ideologia imperialista perse il senso della misura e molti scrittori andarono sovente oltre il senso della realtà, immergendosi in dimensioni che né la struttura militare del Paese, né le sue possibilità economiche, amministrative e, soprattutto, umane erano in grado di permettere e di garantire. In questo contesto, nel quale molti osservatori, scrittori e pubblicisti, avevano finito col tralasciare qualsiasi contatto con la vera dimensione reale, anche il tracollo militare italiano e la perdita delle colonie, non sarebbe servito a riportare a una logica più rigorosa la speculazione ideologica imperialista.
Giuseppe Pardini, professore di Storia contemporanea presso i corsi in Scienze Politiche dell’Università degli Studi del Molise (Campobasso), tra i suoi libri: Curzio Malaparte, biografia politica (1998), Roberto Farinacci ovvero della rivoluzione fascista (2007), Fascisti in democrazia (2009), Nazione, ordine e altri disegni. Vicende politiche della destra italiana, 1946-1960 (2011), Prove tecniche di rivoluzione. Luglio 1944, l’attentato a Togliatti (vincitore del Premio Acqui Storia 2019), Obbedienze disobbedienti. Per una storia delle massonerie nell’Italia del dopoguerra, 1943-1950 (2019). Membro dell’Accademia Pugliese delle Scienze di Bari e dell’Accademia Lucchese di Scienze, Lettere e Arti.