
Come si articola l’economia dello streaming?
Nell’economia dello streaming ci sono protagonisti vecchi e nuovi. I primi sono autori, artisti, etichette ed editori musicali. I secondi sono i DSP. Il ruolo di questi ultimi è evoluto da quello di meri distributori a piattaforme complesse e sofisticate, il cui utilizzo degli algoritmi impatta sulle linee di ricavo dei primi perché influenza il processo di music discovery a monte e la formazione delle royalties da retrocedere a valle.
Come si crea una canzone di successo ai tempi dello streaming?
Non c’è una formula come quella della Coca Cola, ma una formula di fatto si è imposta negli ultimi cinque anni circa, perché lo streaming determina modalità di fruizione della musica peculiari. Mi riferisco al fatto che i pezzi sono sempre più brevi, che è necessario arrivare al ritornello o al gancio molto presto e che i feat. e i co-billing sono ormai un costume diffuso. Potremmo dire che tutto è conseguenza della “skip culture” che caratterizza l’uso della musica in piattaforma.
Che ruolo svolgono, nel contesto attuale, etichette ed editore musicale?
Cruciale, ma in evoluzione. Entrambi sono chiamati a un ruolo di talent scout e di costruttori delle carriere artistiche. Ma gli artisti sono oggi secondari rispetto alla centralità delle canzoni, quindi costruire carriere quando sui servizi di streaming approdano 100.000 nuovi brani al giorno è problematico. Sussistono i loro ruoli di finanziatori e di marketer, ma le etichette stanno cercando di capire quale sarà il loro prossimo modello di business dello streaming (si veda qui) e gli editori, con l’ingresso della finanza nella musica e la corsa all’acquisizione di cataloghi pregiati, sono anche orientati al song management e alla sempre più centrale valorizzazione della sincronizzazione sulle piattaforme di streaming.
Esistono crepe nel modello dello streaming?
Diverse. Quello che ha funzionato nell’ultima dozzina d’anni potrebbe non funzionare più a tendere. Le licenze pensate per i DSP tradizionali non sono adatte a una piattaforma essenziale come è diventata TikTok, ad esempio. La ripartizione delle royalties per quote di mercato (“pro-rata”) continua ad attrarre critiche feroci e invocazioni al ricorso di una metodologia più equa come lo “User Centric Payment System” (UCPS). La difficoltà di scoprire e affermare nuova musica, infine, è un problema crescente che, paradossalmente, è figlia proprio del fatto che si sono aggiunte decine milioni di nuovi artisti indipendenti sulla scena (il che è ottimo) che però rendono l’offerta sovrabbondante e l’emersione una sfida che vincono in pochi; qui il ruolo dell’algoritmo è al centro di varie controversie.
Quali prospettive, a Suo avviso, per il music business?
Interessanti, attraenti, complesse. La musica – lo dicono i fatti – è sempre stata un apripista nell’economia digitale, affrontando per prima i problemi che poi si sarebbero posti settori contigui ma diversi come l’editoria o la TV o il cinema. Dall’attrito tra la proverbiale resistenza che l’industria della musica registrata oppone da sempre alla tecnologia e la spinta tecnologica delle start up che sono tradizionalmente attratte dalla musica come terreno di sviluppo delle loro innovazioni nasce di solito qualcosa di speciale. Mai semplice, ma speciale.
Giampiero Di Carlo è fondatore e amministratore delegato di Rockol, principale testata musicale italiana. Consulente strategico e docente al Master di Comunicazione Musicale dell’Università Cattolica di Milano, è autore di Internet Marketing e Il commercio elettronico, entrambi pubblicati da Etas