
Nelle pagine di Se questo è un uomo, Primo Levi descrive i musulmani come una «massa anonima e senza volto», quella di «uomini in dissolvimento», che sono vivi ma che non sembrano più vivi del tutto, che in qualche modo sono già morti. Facendo questo Levi pone in atto un quesito smisurato e fino ad allora considerato impensabile: egli apre un varco tra la vita e la morte, andando a creare uno spazio comunicativo tra due universi prima ritenuti impermeabili uno all’altro. Fino ad Auschwitz si è sempre considerato che la vita e la morte fossero due condizioni finite: si è vivi o si è morti, ma non c’è una via di mezzo. Ebbene, secondo Levi il musulmano è proprio questo: è un essere vivente che si trova in un regno di mezzo tra la vita e la morte. Ciò crea una rottura senza precedenti nella nostra visione del mondo e degli uomini. In altre parole, Levi ci sta dicendo che ad Auschwitz è avvenuto qualcosa di così radicale nella sua intensità negativa da divellere i presupposti antropologici della concezione occidentale dell’essere umano. Agamben, che si è occupato del problema nel saggio, fondamentale, Quel che resta di Auschwitz, parla a questo proposito di un «terzo regno», il regno solcato dal male e dalla sofferenza estrema del Muselmann.
Ora, quale rilevanza assume, in Se questo è un uomo, questa figura? L’ipotesi da cui parte questo libro è che il musulmano altri non sia che il protagonista dell’opera di Levi. È un dato, in realtà, che potremmo intuire fin dal titolo. Se questo è un uomo pone una domanda indiretta, un’interrogativa indiretta, che può essere parafrasata come segue: questo è ancora un uomo? È possibile considerare costui come un uomo? Dove «costui» è l’uomo che abita Auschwitz, che abita il campo di sterminio. Ebbene, la risposta a questa domanda è in qualche modo il Muselmann, il che significa, paradossalmente, che la risposta a questa domanda è ancora una domanda, perché di quell’uomo radicale che abita Auschwitz noi non sappiamo quasi nulla. Chi è il musulmano? Può esso essere considerato come un essere umano? Se la risposta alla seconda domanda è necessariamente affermativa (giacché, come ricorda Agamben in Quel che resta di Auschwitz, negare l’umanità al Muselmann implica di mimare i nazisti, di ripeterne il gesto), il primo quesito rimane aperto, giacché poco, o nulla, sappiamo dei «sommersi». Ce ne parla Levi in Se questo è un uomo, ma parlarne è talmente difficile da costringerlo a percorrere sentieri sotterranei (sommersi, appunto). Questi sentieri sotterranei Levi li trova in due miti fondanti della civiltà occidentale: la Genesi e il mito di Ulisse. Ciò avviene, come avrò modo di spiegare in seguito, tramite la mise en abîme del primo capitolo della Genesi e del XXVI canto dell’Inferno dentro la testimonianza del lager.
Allora per rispondere alla domanda bisogna forse fare una premessa un po’ paradossale che è la seguente: Se questo è un uomo non ha uno ma due protagonisti. Il primo è il più esplicito e il più noto, l’io narrante, colui che in prima persona dice io, che è in qualche modo il Primo Levi del campo, il Primo Levi personaggio, per usare un termine tecnico, che narra della sua esperienza in qualità di testimone. Ma, ed è Levi stesso a dircelo, Levi non è il vero protagonista del campo né, di riflesso, della sua stessa testimonianza. Il vero protagonista del campo non è il testimone, bensì colui che non può parlare perché ha vissuto il campo fino in fondo, e costui è proprio il Muselmann, colui che si è spinto tanto in profondità nel male abissale che abita Auschwitz, che è Auschwitz, da non poter fare ritorno. Di primo acchito può sembrare un po’ sorprendente, ma egli èa tutti gli effetti il protagonista di Se questo è un uomo, così come di tutta l’opera di Primo Levi. Anzi, a ben guardare ci si può spingere ancora oltre: il Muselmann non è solo il protagonista di Se questo è un uomo e di tutta l’opera leviana, bensì dell’intero universo genocidiario, dove egli occupa uno spazio tanto decisivo quanto ancora inesplorato. Non è certo un caso, quindi – ed è ciò che vorrei mostrare con questo libro – che il musulmano si ritrovi nascosto in filigrana dei due capitoli decisivi della testimonianza, quelli che più di tutti giocano sul substrato culturale della nostra civiltà. Essi sono 1) Shemà, ossia la poesia in epigrafe a Se questo è un uomo, fondata sull’Antico Testamento, e in particolare sui libri della Genesi e del Deuteronomio e 2) Il canto di Ulisse, fondato sull’omonimo canto dantesco. Come accennato, ritornerò tra breve su questo punto.
Quale riflessione da parte di Primo Levi accompagna la descrizione di tale figura?
Direi una riflessione fondamentale e mai davvero indagata, che si nasconde nell’affermazione seguente: non sono i superstiti i veri protagonisti del campo bensì i musulmani, coloro che non sono ritornati, cha hanno seguito fino in fondo il percorso di disintegrazione dell’umano per cui il campo era preposto. Essi sono «il nerbo del campo», e ne detengono l’inenarrabile verità. In altri termini, per dirlo in maniera più esplicita, chi ha vissuto il male di Auschwitz, chi è penetrato più in fondo nel cuore del male cha abitava il campo, non è tornato per raccontarlo. E costoro sono i müselmanner, i sommersi. Chi sono i musulmani? I musulmani sono uomini e donne (ricordiamo che i musulmani non sono solo uomini ma anche donne, anche se si tende a pararne prevalentemente al maschile), che hanno così tanto subito il male di Auschwitz da non poter più parlare e nella stragrande maggioranza dei casi non sono ritornati. Ebbene, quest’affermazione è gigantesca: l’idea che chi ha testimoniato Auschwitz in fondo abbia testimoniato per conto di terzi. In questo senso si può citare un’altra grande testimone italiana della Shoah che è Liliana Millu che Nel Fumo di Birkenau sceglie non a caso di non raccontare il campo in prima persona bensì di farlo attraverso una raccolta di racconti, ognuno dei quali ha al centro una protagonista diversa, una protagonista che non ritorna. Questa è una scelta esplicita di dare voce ai senza voce.
Ora, è interessante rilevare che in fondo, se prendiamo per buona l’ipotesi che è al centro di questo libro, ossia che l’autentico protagonista di Se questo è un uomo è non tanto Levi in sé quanto il musulmano, allora vediamo che Levi in fondo opera esattamente come Liana Millu, ossia narra in terza persona. In prima persona la sua esperienza nel campo, in terza persona tenta di descrivere il musulmano, l’esperienza del musulmano. È interessante notare come egli lo faccia a partire da due miti fondativi della civiltà occidentale come l’Antico Testamento e il mito di Ulisse. Questi due miti vengono inseriti in Se questo è un uomo tramite il procedimento tecnico-retorico della mise en abîme e dialogano in questo senso con la realtà effettuale di Auschwitz, con il male radicale di Auschwitz, finendo col subire una modificazione radicale.
L’ipotesi su cui si basa il Suo volume è che il vero protagonista nascosto dell’opera leviana sia proprio il Muselmann: in che modo esso determina il sovvertimento di due miti fondanti della civiltà occidentale, la narrazione della Genesi e il mito di Ulisse nella versione dantesca?
Il Muselmann, in Se questo è un uomo, va ad abitare i due miti in questione, finendo col sostituirsi ad essi. In altre parole: a contatto con l’abisso storico e letterario del campo di sterminio, i miti fondativi della civiltà occidentale tracimano. Di essi rimane soltanto il loro contraltare negativo, che è appunto il musulmano, l’uomo «sulla cui fronte non si legge traccia di pensiero». Non è casuale, in questo senso, che Levi scelga di rifarsi proprio a due miti che al proprio centro hanno la narrazione dell’umano per antonomasia: la creazione del primo uomo e della prima donna nel caso della Genesi e, per quel che concerne l’Ulisse dantesco, la celeberrima orazion picciola. Il Muselmann va ad abitare questi miti, sovvertendoli integralmente. Prendiamo come esempio il caso di Shemà,la poesia in epigrafe a Se questo è un uomo dove si trova il primo capitolo della narrazione sommersa del Muselmann: dietro all’uomo e alla donna posti al centro del testo si trovano le figure di Adamo ed Eva che, tuttavia, sono violetemente sovvertite rispetto al modello biblico. Se la coppia originaria era creata «a immagine e somiglianza di Dio», la coppia al centro di Shemà è derivata non da un processo di creazione bensì di distruzione. Se all’Adamo biblico veniva affidata la nozione, faticosa ma nobilitante, del lavoro, l’uomo protagonista di Auschwitz «lavora nel fango, lotta per mezzo pane, muore per un sì o per un no», finendo con l’assumere i contorni di un vero e proprio anti-Adamo, alter ego negativo del suo predecessore biblico. Lo stesso discorso si applica alla donna descritta in Shemà che, come il suo compagno, cammina sulla falsariga della sua biblica antenata. Ma se l’Eva biblica era chiamata alla procreazione (atto doloroso ma altamente nobilitante, un po’ come il lavoro della terra per il suo compagno) la donna al centro di Shemà ha il ventre freddo e sterile «come una rana d’inverno». Essa è un’anti-Eva, contraltare negativo del modello biblico. Insieme, questo anti-Adamo e questa anti-Eva formano l’anti-coppia originaria di Shemà, quella che non narra più dell’uomo bensì della massa anonima dei «non uomini», i Muselmänner. Nel caso di Ulisse vale lo stesso discorso, e lo stesso procedimento, ma questa volta la narrazione sommersa del musulmano agisce non tanto sul piano della descrizione fisica e psicologica dei sommersi, quanto sul discorso culturale che essi veicolano: il naufragio del Muselmann-Ulisse non è più soltanto un naufragio individuale, quello di un uomo che si è spinto al di là dei propri limiti, bensì un naufragio collettivo: quello di una civiltà fondata sul mito umanistico della cultura foriera di virtù. È quel mito, è l’umanesimo nella sua integralità che tracima, ad Auschwitz. Di quel crollo il Muselmann è l’emblema più estremo, il più intollerabile.
Sibilla Destefani ha conseguito il titolo di dottore in Letteratura italiana all’Università di Zurigo, dove ha insegnato per molti anni. È autrice del volume L’anticiviltà. Il crollo dell’Occidente nelle narrazioni della Shoah (Mimesis, 2017)