“Musei e antropologia. Storia, esperienze, prospettive” di Vito Lattanzi

Dott. Vito Lattanzi, Lei è autore del libro Musei e antropologia. Storia, esperienze, prospettive edito da Carocci: quale evoluzione caratterizza la museografia contemporanea?
Musei e antropologia. Storia, esperienze, prospettive, Vito LattanziLa risposta è per molti versi condensata nella Raccomandazione sulla protezione e promozione dei musei e delle collezioni, della loro diversità e del loro ruolo nella società, approvata dalla Conferenza generale dell’UNESCO nel 2015, per la quale i musei, in quanto strumento di salvaguardia del patrimonio culturale materiale e immateriale, svolgono nella società contemporanea un ruolo fondamentale nella promozione dello sviluppo sostenibile e del dialogo interculturale, offrono opportunità per la ricerca e per l’educazione formale e informale, sono un importante stimolo per la creatività e contribuiscono allo sviluppo sociale e umano nel mondo. Nel corso del Novecento l’identità del museo moderno, fondata sulla vocazione alla conservazione della memoria per un pubblico ristretto di cultori e specialisti, è stata profondamente trasformata dall’affermarsi della società di massa. Oggi tutti riconosciamo nel museo un luogo di cononoscenza e di apprendimento, ma anche uno spazio dove riflettere sul patrimonio culturale e dove è lecito persino liberare pratiche di socialità condividendo esperienze e valori.

Questo nuovo ruolo del museo, tutto sommato coerente con l’utopia sociale della sua ragione illuminista, è oggi prepotentemente connesso ai temi dell’accessibilità totale (fisica, economica, cognitiva) e della partecipazione. I visitatori vengono spesso chiamati in causa in qualità di agenti di promozione e di sviluppo culturale e l’istituzione museale è in competizione con altre attività imprenditoriali indirizzate alla cultura e al tempo libero. In tutto il mondo, e l’Italia non fa eccezione, i musei sono spesso al primo posto tra le attrazioni cittadine. Mai come nella nostra epoca i beni culturali si erano trovati così al centro dei processi di produzione economica, delle politiche del turismo e delle strategie della comunicazione di massa.

Il grado di adeguamento di tutti i musei a questo spirito del tempo, certo varia in base agli investimenti pubblici e privati nel settore culturale e anche in ragione della tipologia di museo: nazionale o locale, d’arte o di storia, di scienze naturali o di etnografia. Ma oggi tutte le istituzioni sembrano impegnate a includere forme di rappresentazione aperte ai gusti del pubblico, che dimostra di gradire più il teatro che il tempio, più la lanterna magica che la galleria di opere e di reperti. Per questo non c’è da meravigliarsi se le mostre e i musei siano diventate un oggetto di riflessione specifico dell’antropologia o se discipline tradizionalmente legate ai musei, come l’architettura e la storia dell’arte, si siano aperte con sempre maggiore interesse all’etnografia.

Quale contributo può fornire l’antropologia a questa nuova museologia?
L’antropologia deve molto ai musei, dove ha mosso i suoi primi passi passando dal rispetto per gli oggetti al rispetto e allo studio delle culture che li hanno prodotti. Grazie a questa storica connessione, che ha legittimato l’esistenza di un’antropologia museale, lo scambio è stato continuo. Senza dubbio il principale contributo fornito alla museologia è stato il concetto antropologico di cultura: guardare cioè alla vita sociale e alla dimensione materiale e simbolica dello stare al mondo con una prospettiva attenta alla molteplicità e alla diversità delle forme storiche in cui l’umanità si manifesta. Da questa prospettiva è nato un diverso modo di concepire i beni culturali e la loro rappresentazione nel museo. La nozione di patrimonio elaborata dalla “nouvelle muséologie” negli anni Sessanta del Novecento è del tutto debitrice nei confronti di quel concetto, declinato al plurale e necessariamente articolato, processuale e dinamico. Gli stessi parametri di riconoscimento e di messa in valore del patrimonio si sono via via adattati a questo diverso approccio, che lega il significato delle collezioni alle culture che le hanno prodotte e alle logiche dell’interpretazione quale paradigma della conoscenza contemporanea. Dietro le cose ci sono le persone, recitava il sottotitolo di una mostra allestita un decennio fa al Museo “Luigi Pigorini” sulle raccolte etnografiche. Si tratta di un dato ormai condiviso anche nel settore museologico. Il metodo antropologico del relativismo culturale, applicato anche al museo, ha ricondotto lo sguardo del curatore al contesto contemporaneo, dove il significato delle opere per essere svelato deve tener conto del “colloquio” tra le diverse voci presenti nel campo della rappresentazione espositiva. Il punto è il seguente: gli oggetti museali appartengono a un determinato discorso sulla realtà delle cose; dunque vanno presentati come il mezzo per pensare la relazione esistente tra chi li valorizza e li espone, da un lato, e i contenuti dell’esposizione, dall’altro. La prospettiva antropologica, per sua natura riflessiva, partecipativa e polifonica, attenta ad ascoltare le voci e le loro relazioni con il mondo reale, dà forma e sostanza alle retoriche del racconto multimediale offerto dal museo, poiché consente di esaltare il ruolo stesso del pubblico come protagonista di un’esperienza e produttore di contenuti culturali.

In che modo la museografia si è aperta alle forme digitali di comunicazione?
Rispetto ad altri media, il museo ha un potenziale comunicativo complesso. Il suo codice consiste in una tecnica di “scrittura” e in una logica compositiva – la museografia, appunto -, che ha una natura eminentemente multimediale e polifonica. Gli oggetti sono il punto di fuga di una rappresentazione espositiva e da soli non bastano ad assolvere le funzioni comunicative del museo. La compiutezza del discorso viene sempre affidata al sistema allestitivo, che colloca gli oggetti all’interno di uno spazio e di unità espositive fondate sulla coerenza di codici espressivi differenti: ci sono le vetrine, l’illuminazione, i testi scritti dei pannelli e delle didascalie, le immagini fotografiche e in movimento, le diverse soluzioni grafiche e scenografiche, i punti di ascolto e di contatto. Tutte queste unità mobilitano le capacità cognitive ed esperenziali del visitatore, che è chiamato a misurarsi con il progetto esibito nella rappresentazione espositiva. Proiettare il museo e le sue attività nell’universo della comunicazione globale sfruttando le potenzialità del digitale è dunque, per così dire, nell’ordine naturale delle cose. Tanto più se l’offerta di beni da consumare on line sposa le strategie del racconto liberato dalle opere. Durante l’emergenza sanitaria in atto, per esempio, i musei hanno dimostrato di sapere usare i social media e gli ambienti digitali, dando impulso a un nuovo modo di offrire al visitatore tramite la sua partecipazione attiva, quelle effettive esperienze di conoscenza e di pubblico godimento richieste dalla normativa istituzionale. Il salto di qualità richiesto alle istituzioni consiste nel calare nell’ambito di un ecosistema digitale la tradizionale esperienza di visione dal vivo. L’impegno andrà semmai indirizzato – ma sono stati già lanciati dal MiBACT, per esempio, programmi di digitalizzazione appropriati – verso la creazione di contenuti digitali differenziati per finalità e qualità, dai sistemi di connessione ad archivi e repertori ad originali forme di fruizione contactless delle opere, capaci di coinvolgere il pubblico in esperienze alleate di televisione e teatro.

Come si realizza il coinvolgimento dei visitatori in programmi collaborativi e co-creativi?
Nel volume illustro alcuni casi di progettazione partecipata, resi possibili dall’avere il Museo “Luigi Pigorini di Roma”, da un lato, condiviso con altri musei europei l’importanza di ridefinire la missione in senso postcoloniale, dunque coinvolgendo nello studio e nella presentazione delle collezioni le associazioni della diaspora extraeuropea; dall’altro, dall’aver scelto di promuovere l’accessibilità totale alle collezioni coinvolgendo diversi segmenti di pubblico nella co-produzione di percorsi di visita incentrati su originali narrazioni tematiche. L’aspetto più significativo di questo approccio collaborativo alla progettazione e poi alla rappresentazione culturale è senza dubbio la nascita di comunità di pratica che si riconoscono, al di là delle diverse esperienze, in una vocazione condivisa e in un’operatività finalizzata allo sviluppo di forme innovative di promozione culturale. Per raggiungere l’obiettivo occorre anzitutto dichiarare pubblicamente la propria missione. E questa deve derivare da un progetto culturale che interpreti e intercetti sentimenti locali e interessi della società produttiva. Nei decreti che nel 2014 hanno avviato la riforma del settore museale, il compito di promuovere la costituzione di reti territoriali che favoriscano la più ampia fruizione del patrimonio e lo sviluppo culturale è presentato come strategico per l’intero Sistema museale nazionale. E nella parte del Codice dei beni culturali e del paesaggio dedicata alla valorizzazione, si richiamano sia la necessità di connetterla allo sviluppo sostenibile e alle strategie di promozione del turismo sia l’esigenza di una sussidiarietà tra pubblico e privato come raccomandato dal Titolo V della Costituzione. Gli attori su cui investire per promuovere la valorizzazione del patrimonio non sono, del resto, solo i musei. Esiste una pluralità di soggetti appartenenti al cosiddetto terzo settore o all’imprenditoria giovanile territoriale che vanno coinvolti e integrati in strategie di sistema (un tessuto connettivo di relazioni reticolari che la Convenzione di Faro del 2005, di recente ratificata anche dall’Italia chiama “comunità di eredità”). Se questa è la cornice in cui si collocano le contemporanee politiche sui beni culturali, evidentemente ci si aspetta che il museo affianchi allo studio critico delle collezioni anche l’analisi del contesto territoriale in cui ci si muove. In tal modo il progetto culturale darà visibilità e tradurrà in pratiche produttive i contenuti della missione; inscriverà il museo nel suo ambiente sociale e ne definirà meglio vocazione, ruolo e identità.

Quale futuro per i musei?
Per rispondere alle sfide del XXI secolo il museo deve rafforzare il suo ruolo di “istituzione culturale totale” e di atelier del futuro. Quindi deve rivendicare un posto di primo piano nella vita della città e del territorio. La pandemia da Covid-19 ha liberato le risorse digitali ma ha riportato tutte le istituzioni culturali al loro grado zero di significato. Come si suol dire, “niente sarà più come prima”. L’auspicabile ritorno alla normalità va dunque pensato come un passaggio, un transito, utile per elaborare anzitutto in termini positivi l’attuale conflitto tra l’angoscia della perdita di ruolo del museo e la vertigine del surrogato digitale. Se il paradigma partecipativo è stato ormai incorporato, bisognerà ora rimodularne le azioni e ripensarne l’applicazione al mutato contesto. Anzitutto occorrerà esaltare, con la sperimentazione digitale, la dimensione del museo quale spazio pubblico di produzione culturale, dove il racconto del patrimonio diviene ethos condiviso della centralità dell’umano. Nella gestione, la cui sostenibilità era già messa a dura prova dalla congiuntura economica, sarà invece necessario attrezzarsi e prepararsi a governare trasformazioni anche radicali: nei modi della ricerca come nella comunicazione e nelle connessioni tra istituzioni, nelle strategie di conservazione e digitalizzazione delle collezioni come nella ricerca di un equilibrio tra fruizione reale e virtuale. Se tali trasformazioni saranno accompagnate anche dall’immissione di nuove energie professionali, indispensabili data l’attuale carenza di personale, le straordinarie risorse del patrimonio conservato nei musei e della cultura digitale potranno essere mobilitate al meglio e orientate verso l’educazione e lo sviluppo della cultura, dimostrando che i musei sono uno snodo cruciale per la futura democrazia. Qualcuno al “non sarà mai più come prima” del dopo emergenza contrappone la retorica del rallentamento e della decrescita. Il mio auspicio è che prevalgano anzitutto i principi di responsabilità e di libertà: il primo può aiutare a superare l’idea che la crescita (di visitatori, di incassi) sia l’indicatore più importante del valore prodotto da una buona gestione dei musei e dunque può incoraggiare a concentrare di più l’attenzione sulla soddisfazione dei bisogni delle persone; il secondo principio, invece, deve incoraggiare i musei a indirizzare il processo di trasformazione organizzativa e digitale nella direzione di un rafforzamento del loro tradizionale ruolo di forum e di arena culturale.

Senza perdere di vista la ricerca come linfa vitale della salvaguardia, bisogna dunque continuare a investire sulle forme partecipative della progettazione e della governance, incrementando l’inclusione nel museo delle comunità territoriali e digitali (il pubblico di prossimità di cui tanto si parla). L’obiettivo è liberare le promettenti strategie di una ormai diffusa welfare community museale. Ci vorranno di sicuro provvedimenti eccezionali, ma si tratta di un percorso obbligato se si vuole prospettare alle nuove generazioni – per dirla con l’antropologo Arjun Appadurai – un futuro meno in bilico tra l’utopia e la disperazione.

Vito Lattanzi, antropologo, attualmente lavora presso la Direzione generale Musei del MiBACT. La sua esperienza professionale si è svolta prevalentemente al Museo «Luigi Pigorini» di Roma, dove ha diretto la Biblioteca, i Servizi educativi e le Collezioni mediterranee, dando vita a iniziative di mediazione interculturale e di museografia collaborativa. All’attività istituzionale ha affiancato il lavoro sul campo intraprendendo ricerche in ambito storico-religioso e demologico. Ha curato mostre e allestimenti anche a livello territoriale ed è autore di pubblicazioni di argomento sia antropologico che museologico.

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