“Moro” di Massimo Mastrogregori

Prof. Massimo Mastrogregori, Lei è autore di una recente biografia di Aldo Moro pubblicata da Salerno Editrice: qual è l’eredità politica attuale dello statista democristiano?
Aldo Moro Massimo MastrogregoriCominciamo con una domanda non facile… Chi osservi il nebbioso paesaggio politico attuale potrebbe dire che non sono pochi quelli che si richiamano, in un modo o nell’altro, all’eredità politica di Moro. Per esempio un grande partito, il PD, nato dal confluire di due tradizioni, quella popolare democristiana e quella comunista, che egli provò a far dialogare, a far convivere. Ma anche lo stesso presidente della Repubblica non si ispira forse, dichiaratamente, alla lezione morotea? D’altra parte, interpreti originali di quel pensiero politico, come Marco Follini, sono completamente fuori dal gioco, e da anni; e lo stesso si deve dire, salvo qualche eccezione, degli ex socialisti: gli eredi di quel PSI che fu la stella polare della politica di alleanze dello statista pugliese. Direi che l’eredità politica di Moro è un po’ dispersa, frammentata: rivendicata ovunque, e in nessun luogo preciso. Quindi attualmente introvabile, nonostante le varie rivendicazioni: probabilmente liquidata dalle discontinuità che separano il nostro tempo da quello della Prima Repubblica (anche se non è detto che le cose debbano per forza restare sempre così).

Nel Suo testo, Lei dedica particolare attenzione alla formazione di Aldo Moro.
In senso stretto, la formazione politica e intellettuale di Moro avviene in ambito cattolico durante il regime fascista: giovanissimo professore di diritto penale, colonnello del laicato cattolico, responsabile degli studenti della FUCI. Ma esiste anche una formazione diversa, di più lunga durata. Da giovane, egli appartiene a un mondo che in buona parte s’inabissa col crollo dello Stato dopo l’8 settembre 1943. Ed è costretto a un riorientamento ideologico radicale nel nuovo tempo della “restaurazione democratica”, come la definì Nicola Chiaromonte. Trentenne, la cosa gli riuscì bene: sapeva osservare gli eventi del suo tempo, aderiva con intelligenza agli avvenimenti, come usava ripetere. Usò alla perfezione il suo background di militante cristiano, abbandonando, o quasi, il bagaglio ottocentesco, statale-nazionale (nel senso della politica di potenza). E divenne un pensatore profondo della vita democratica italiana: continuò a riflettere sulle non lineari forme e formule di essa, anche mentre la dirigeva, da segretario della Dc e poi da presidente del consiglio, e oltre. Si trovò infine, dal fatidico 1968 in poi, a dover affrontare, a cinquant’anni, una seconda trasformazione radicale della sfera pubblica: la negazione dell’autorità, non solo politica, e insieme l’esplosione delle diverse, contrastanti soggettività. La mediazione – arte in cui eccelleva – divenne sempre più ardua. E nel momento in cui fu preso dai brigatisti, il 16 marzo 1978, stava correggendo, in macchina, proprio un articolo sul significato del Sessantotto.

Qual era la visione morotea del futuro politico della Democrazia Cristiana e del nostro paese?
Poiché il rapporto pedagogico, che prevede la consapevole accettazione di un’autorità, sembrava scomparso anche dalla politica, e non solo nella scuola e all’università, Moro era convinto che l’influenza dei partiti sulle persone fosse destinata a diminuire: forse a scomparire del tutto. Ciò metteva in pericolo la presa stessa dello Stato sulla società. E questo valeva in particolare per il partito della Democrazia cristiana, sotto specifico attacco per il malgoverno trentennale divenuto proverbiale: ricorderete la famosa scena di Ecce Bombo di Nanni Moretti, quella dell’esame di maturità. Quindi il futuro politico dell’Italia e della Dc – le due cose andavano insieme, nel suo pensiero – sarebbe stato involutivo, se non si fosse prodotto un profondo cambiamento da effettuare nella politica, e quindi proprio nei partiti. Non è ancora chiaro quanto egli stesso ritenesse davvero attuabile quel cambiamento: ma la direzione che indicava era questa, anche se abbastanza indeterminata quanto ai contenuti particolari del cambiamento desiderato e richiesto. Non si trattava comunque solo di una moralizzazione dell’agire politico. Egli avrebbe sicuramente reagito di fronte alla campagna sulla questione morale di Berlinguer, rilanciata da Scalfari: decisamente troppo unilaterale, riduttiva. Si trattava, piuttosto, di favorire una diversa, e maggiore, partecipazione delle persone alla vita pubblica. Un salto di qualità. Inutile aggiungere che da questo punto di vista le cose non sono poi migliorate quanto egli sperava, anzi.

Qual era la visione internazionale di Aldo Moro?
Segnato profondamente dalla vicenda della guerra 1940-1945, Moro cercò in tutti i modi di conservare la pace, all’Italia e nella vita delle altre nazioni. Non è che potesse agire più di tanto, trovandosi a rappresentare una media potenza regionale uscita sconfitta dal conflitto mondiale, come l’Italia. In accordo con la nostra diplomazia, cercò di assicurare la ripresa di rapporti internazionali e la soluzione delle controversie ai confini naturali (Austria, Jugoslavia), tentando anche qualche manovra di irradiazione della nostra influenza nel Mediterraneo, nell’est europeo e in Africa. Atlantico ed europeista convinto, si preoccupò di consolidare l’equilibrio bipolare nel tempo della guerra fredda e non di superarlo, come qualche volta si afferma che abbia fatto. Era convinto, invece, che se si fosse modificato bruscamente l’equilibrio politico in Italia, con uno scivolamento verso la neutralità e l’impero sovietico, ci sarebbe stata sicuramente una guerra. Naturalmente, c’erano diversi modi per consolidare quell’equilibrio tra i due blocchi. E non sempre egli ebbe successo nelle sue iniziative (in particolare con alcuni alleati europei). Ma, in gran parte, la sua posizione in ambito internazionale fu apprezzata in entrambi gli imperi del tempo, americano e sovietico (al di là di qualche posizione critica personale nei suoi confronti, come quella di Kissinger in alcuni precisi momenti).

Le nubi si addensano ancora sulle vicende legate al rapimento e all’assassinio di Aldo Moro: quali sono le più recenti e consolidate evidenze storiche sul fatto?
Siamo ancora, come ho scritto nel libro, nel tempo delle inchieste. Questo purtroppo non significa che la nostra conoscenza del sequestro e dell’assassinio di Moro stia aumentando a vista d’occhio. Grazie all’accumulo di dati e di analisi, comprendiamo forse meglio la complessità dell’intera vicenda, anche se qualcuno prova ancora a negare, stranamente, perfino che si tratti di una vicenda storicamente complessa. Ci stiamo rendendo conto che per capire quegli eventi, dobbiamo puntare sui contesti, oltre che sui dettagli. In che modo il sequestro Moro si colloca nella più ampia vicenda del terrorismo italiano? È un fatto di gravità, risonanza, efficacia enormemente superiori rispetto alle altre azioni armate, uno scarto non ripetuto rispetto agli attentati ordinari dei criminali politici. Quindi un episodio a sé. Ma non si possono dimenticare le 43 sigle delle altre bande armate e poi il mondo parallelo dell’eversione di destra, che opera sullo stesso, sconvolto terreno civile e politico. Come fu combattuta la guerra fredda in Italia? Bisognerà ancora lavorare molto sulle fonti e sui problemi per dare una risposta. Moro stesso, in diretta rispetto ai fatti, si interessò a fondo al problema del partito armato e del terrorismo, che furono anche fenomeni di massa. E scrisse che non era sicuro che ci fossero realmente due terrorismi, rosso e nero. E che solo un contrasto basato sul controspionaggio avrebbe potuto sconfiggere la “evidente strategia del segreto” propria dei ripetuti attacchi sul suolo italiano (notevole ossimoro moroteo). È quello che in parte la solidarietà nazionale, con il generale Dalla Chiesa, poté fare. Ma il grande fenomeno, anche mediatico, del rapimento e dell’assassinio del più importante uomo politico italiano, a quel punto e irrevocabilmente, era già avvenuto. E noi siamo ancora qui, quasi quarant’anni dopo, a cercare di capire gli inesauribili particolari e i grandi quadri di spiegazione.

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