“Monete romane” di Adriano Savio

Monete romane, Adriano SavioMonete romane
di Adriano Savio
Editoriale Jouvence

«La più antica monetazione di Roma era divisa nettamente in due serie, quella fusa di rame/bronzo, prodotta in centro Italia, e quella coniata in vari metalli, tra i quali dominava l’argento, affidata inizialmente a una zecca della Magna Grecia, probabilmente Neapolis. Il bronzo e l’argento ebbero aree di circolazione e scopi diversi: il primo sarebbe stato destinato a uso interno, il secondo ai rapporti con i Greci. Risulta perciò ovvio trattarli separatamente. Il rame/bronzo avrebbe fatto la sua comparsa a Roma nel corso del V secolo a.C., sotto forma di aes rude, pani di forma irregolare, ottenuti per fusione, che venivano accettati a peso e che non recavano alcuna impronta; che, in altre parole, non appartenevano ancora alla categoria della moneta, ma a quella del denaro.

Tale pratica caratterizzò un po’ tutto il centro dell’Italia, devoto al monometallismo eneo, per un periodo certamente non breve ed era improntata, pur se vagamente, dal sistema ponderale della libbra italica pesante (= 340 grammi circa); vagamente, perché l’aes rude laziale di solito era inferiore ai 300 grammi, mentre quello etrusco, che conteneva anche ferro, superava quasi sempre i 400 grammi. Questi pani informi vennero affiancati, sempre nel corso del V secolo, dai lingotti a ramo secco, detti così in quanto portavano una sorta di impressione con questa incerta forma, che garantiva la purezza della lega. I ramo-secco caratterizzarono più o meno tutta l’Italia centrale ma furono prodotti prevalentemente nell’attuale Emilia, in rame puro o altamente purificato; un gruppo più evoluto, di bronzo, con ramo secco o lisca di pesce fece poi la sua comparsa in Etruria e in Umbria e altrove, anche con disegni diversi.

I Romani utilizzarono queste forme di pagamento arcaiche fino agli inizi del III secolo; nel periodo precedente, solo in rari casi si erano avvalsi di oro a peso per far fronte a necessità esterne, come nel caso del tributo pagato a Brenno (Livio, V, 48, 8) o del cratere dedicato al tempio di Delfi (Livio, V, 25, 8; 28), e non utilizzarono mai moneta straniera. Non fu loro estraneo, ovviamente in un primo periodo, l’uso della premoneta naturale-bestiame, come è testimoniato, oltre che dal lessico (pecunia, connesso con pecus = gregge etc.) anche da alcune leggi che stabiliscono le multe in buoi e montoni con l’equivalenza in metallo, come la Aternia Tarpeia e la Menenia Sestia della metà del V secolo a.C.

Nei primi decenni del III secolo, il che non toglie che le più evolute forme di ramo secco e similari abbiano continuato a circolare fino a circa il 250 a.C., sarebbe comparso l’aes signatum, ovvero il lingotto bronzeo quadrilatero prepesato, pur se irregolarmente, intorno alle 5 libbre romane (circa 1500 grammi) e stampigliato con vari disegni, che variano dall’aquila, al pegaso, al ramo, allo scudo ovale, alla spada, all’ancora, al tridente, all’elefante, al toro, al caduceo, ai due rostri etc.

Secondo alcuni autori l’aes signatum, sicuramente romano sia per la zona di ritrovamento che per la presenza in qualche caso della leggenda ROMANOM (cioè “Romanorum”) sarebbe ancora stato accettato a peso e lo stampo, pur se statale, avrebbe garantito solo la purezza del metallo; l’assenza di effigi divine proverebbe questa sua strana condizione di non ancora moneta. Secondo altri, invece, avrebbe rappresentato la prima moneta di Stato romana in bronzo, almeno per quanto riguarda la serie fusa. […]

La produzione di questi lingotti, la cui tipologia militare ha fatto pensare che siano stati utilizzati per la divisione del bottino, si sarebbe esaurita intorno alla metà del secolo.

Va detto che le forme di denaro citate, condivise con gli altri popoli centro italici e con alcuni del dorsale adriatico, costituivano il mezzo più arretrato all’interno della penisola, che al nord era percorsa dalle imitazioni celtiche della dracma di Massalia, moneta greca in argento, al sud dai nominali magnogreci di tutto rispetto e in Etruria da un sistema complesso di monetazione in più metalli.

Ma si sa: sarebbe un errore valutare la civiltà di una società dalla presenza della moneta di Stato, a meno di non pensare che gli Aztechi, gli Incas o i Maya fossero dei barbari, che gli eroi di Omero vivessero in un “habitat” oscurantista e che Spina fosse abitata da incolti.

Certo è che la moneta di Stato è un’invenzione dei Greci del VII a.C., è un fatto greco; e che i Romani la adottarono solo (anche internamente) quando i loro contatti con il mondo ellenico divennero fitti a causa dei loro interventi militari in Magna Grecia, o, come preferisce Burnett, quando cominciarono a sentire il fascino di quella civiltà.

Negli anni fra il 289 e il 275 a.C., secondo la maggioranza degli studiosi contemporanei, invece, sarebbe stata creata la prima moneta sicuramente statale di bronzo fuso, cioè l’aes grave, secondo gli assertori di questa cronologia Roma, ormai vincitrice delle guerre sannitiche e padrona di tutta l’Italia centrale, si sarebbe sentita in dovere di dotarsi di una monetazione interna rispettabile. La data 289 proposta da Thomsen e da Zenhacker si accorderebbe inoltre con la notizia fornita da Pomponio (Digesto, I, 2, 2, 27-32) secondo cui in quell’anno sarebbe stato istituito il primo collegio dei tresviri monetales.

L’introduzione dell’aes grave, di peso inizialmente oscillante fra i 300 scrupoli (1 scrupolo = 1/24 di oncia) e i 288 della libbra romana (circa gr. 327) e con il contrassegno di valore, si presentò come una vera rivoluzione nell’Italia centrale, anche a causa della forma rotonda, mutuata dalla monetazione etrusca e/o da quella magnogreca.

Di contro l’aes grave rappresentava anche la continuità, perché manteneva invariato il riferimento pondo-metrico alla libbra romana già collaudata dall’aes signatum.

Nel suo monumentale lavoro sulla prima monetazione della repubblica il danese Rudy Thomsen metteva in luce anche il fatto che i Romani avevano potuto compiere questo passo fondamentale grazie al grande bottino derivato dalle guerre vittoriose e all’ottenuto controllo sulle miniere degli Etruschi.

L’aes grave era tarato sul peso della libbra (quindi anche aes librale), ovvero l’unità monetaria si adeguava a quella pondometrica secondo la regola.

Il sistema era costituito da sei nominali fondamentali e comprendeva, oltre l’asse, il semisse (la metà), il triente (il terzo), il quadrante (il quarto), il sestante (il sesto) e l’oncia, ovvero il suo dodicesimo; anche la mezza oncia fece qualche comparsa.

Gli assi delle prime serie recavano sia sul diritto che sul rovescio effigi di divinità, ulteriore riprova della loro emissione pubblica; si susseguirono le teste di Giano/Mercurio di Apollo/Apollo e di Apollo/ Dioscuro. Sui nominali minori comparvero, oltre ad altre divinità, soggetti vari come il delfino, la mano aperta, il caduceo, il pegaso etc. presi a prestito dalle monetazioni della Magna Grecia, dell’Etruria o anche originali (come ad esempio la mano aperta).

Non si trattava di serie uniformi sia per il peso che variava, forse a causa della diversa officina o per la differenza cronologica, sia perché il numero dei nominali non era stabile.

Le successive produzioni, che dovrebbero essere collocate fra il 270 a.C. e il 225 a.C. circa, videro una riduzione notevole del peso dell’asse (forse a causa della prima guerra punica) che si assestò intorno ai 240 scrupoli della libbra latina (circa gr. 272) dopo un periodo in cui oscillò fra i 252 e i 250.

Le serie con Roma al diritto e al rovescio, con la ruota a sei raggi come contorno dei rovesci, con Giano/Mercurio leggeri e altre minori appartengono a questo periodo, durante il quale, in qualche caso, vennero anche emessi dei multipli dell’asse, come il dupondio o il tressis (2 e 3 assi).

L’aes grave si sarebbe stabilizzato definitivamente al peso di 240 scrupoli intorno al 225 a.C. almeno secondo Crawford e Burnett, con l’inaugurazione della serie Giano/prua, destinata a resistere, come tipologia, per almeno un secolo.

Tutti questi nominali, che recavano sul diritto la testa di una divinità rispettivamente diversa e sul rovescio sempre la prua di una trireme, erano anche contrassegnati da una marca di valore. Una barra verticale per l’asse; un punto per l’oncia.

La serie dell’aes grave, come le forme precedenti di denaro, era prodotta con il metodo della fusione, così come spiegato nel capitolo precedente; l’alto peso dell’asse e dei suoi rari multipli (dupondio, tressis, quincussis, decussis) probabilmente stava alla base di questa scelta tecnica, che venne abbandonata verso la fine del III secolo a.C. quando le successive decurtazioni avevano ormai dato vita a monete più leggere.

Anche l’asse Giano/prua, infatti, crollò tramite successive decurtazioni fino a concretizzarsi nel corso della guerra annibalica nel peso del suo iniziale sesto (riduzione sestantale), cioè in una moneta di circa 54 grammi e finalmente, agli inizi della guerra sociale, in quello del suo ventiquattresimo (riduzione semionciale, lex Papiria del 91 a.C.).

Anche il suo rapporto di cambio ufficiale con la moneta d’argento nel frattempo introdotta, il denario, si modificò nel 141 a.C., passando da 1/10 a 1/16.

Le ultime monete della serie furono coniate in epoca sillana, pare su standard onciale; la fine della repubblica, dominata dalla moneta d’argento imperatoria […], relegò il bronzo in secondo piano. Con Cesare, nel 45 a.C., si ebbe in Italia una sporadica monetazione di oricalco, lega di rame e zinco, già impiegata dai Romani in Asia minore, e ritenuta di valore superiore al bronzo a causa della difficoltà di estrazione del secondo metallo e della sua relativa rarità.

Si sarebbe arrivati fino ad Augusto per avere una riforma globale della monetazione enea e un suo effettivo rilancio nella società.»

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