“Moderno Antimoderno” di Cesare De Michelis, a cura di Giuseppe Lupo

Prof. Giuseppe Lupo, Lei ha curato l’edizione del libro Moderno Antimoderno. Studi novecenteschi di Cesare De Michelis, edito da Marsilio: in che modo la sostanziale doppiezza del Novecento, evocata dal titolo, si rispecchia per il prof. De Michelis nei testi della letteratura del secolo breve?
Moderno Antimoderno, Cesare De Michelis, Giuseppe LupoCesare De Michelis, in questo suo originale saggio, ha voluto affrontare un tema fondamentale: le contraddizioni che la modernità si porta dietro, il volto ambiguo che essa manifesta nel momento in cui annuncia i propri traguardi ma poi tradisce le aspettative perché molto spesso ciò che aveva preannunciato si rivela un fallimento. È questo il vero punto strategico del discorso di De Michelis ed è il senso del titolo del libro, che poi diventa il binario lungo il quale si muove l’intera indagine. Molto spesso abbiamo pensato che le degenerazioni della modernità fossero la manifestazione di errori, come se la modernità non potesse contenere presupposti sbagliati e che dunque, di fronte agli orrori del secolo scorso, non ci fosse altra spiegazione se non quella di una deviazione dagli obiettivi. Moderno Antimoderno invece ha il coraggio di affermare un tema che generalmente si evita di trattare, soprattutto negli ambienti dei contemporaneisti, che studiano la letteratura del Novecento e in un certo modo ne rimangono affascinati fino al punto da non saper più distinguere i benefici dai rischi che nella nozione di moderno sono contenuti. De Michelis batta su un tasto: è il moderno che contiene nel proprio DNA gli elementi di pericolo e nel secolo che ha visto affermarsi l’epopea del progresso, là dove tutti speravano che il futuro coincidesse con le «magnifiche sorti e progressive», si sarebbero verificati genocidi, stermini, guerre, violenze, dittature. La letteratura del secolo scorso ha subito e testimoniato queste oscillazioni, facendo seguire all’entusiasmo incondizionato per il nuovo una sort di disincanto e di disillusione nei confronti del nuovo.

In che modo, secondo De Michelis, il romanzo si qualifica come genere della modernità?
Noi italiani non abbiamo una tradizione di romanzieri, ma di poeti. Questo ci indica la storia della letteratura cominciata nel Medioevo. Il romanzo, come genere, nasce altrove rispetto all’Italia e soprattutto in un contesto economico-religioso che determina le condizioni ideali: la borghesia mercantile e protestante. Essendo un genere letterario fortemente unito all’etica borghese, contiene gli elementi per interpretare la modernità che si lega alla visione borghese della società. Naturalmente questo non significa che i romanzi debbano rappresentare soltanto una determinata classe sociale. Anzi, al contrario, il romanzo si propone come strumento per indagare i fenomeni individuali e collettivi dell’intera società, per interrogare il passato in chiave critica, per essere l’immagine di una condizione umana, per mettere in scena il contrasto tra la percezione di un tempo dilatato (l’epica) e la descrizione di una quotidianità (la cronaca). Tutto ciò favorisce il discorso di De Michelis a proposito del romanzo come genere della modernità, perché soltanto a esso vengono attribuite queste facoltà. Non è un caso se all’interno di un genere così eterogeneo siano contenuti tanto i racconti sulla civiltà contadina, quanto i racconti sulla civiltà industriale, che rappresenta il passaggio successivo. Esiste cioè una sorta di sovrapposizione tra romanzo e modernità, perché l’uno è specchio dell’altro, e ne subisce le oscillazioni, ne registra i mutamenti.

Come si sviluppa, da parte di De Michelis, la critica al conformismo degli intellettuali?
Il tema del come essere intellettuale nel Novecento rappresenta l’altro, grande discorso condotto in parallelo in questo libro rispetto a quello centrale della modernità. È quasi come se De Michelis tracciasse un triangolo i cui vertici sono rappresentati da tre elementi: modernità/antimodernità, funzione degli intellettuali e agire politico della letteratura. L’intellettuale, secondo De Michelis, è un personaggio che attraversa il Novecento, anzi ne è il protagonista in quanto si fa carico, in un primo momento, del ruolo di vate, guida, maestro, dall’alto del suo piedistallo su cui è salito grazie alla conoscenza. Poi l’irrompere della modernità avrebbe costretto il “chierico” a scendere nell’agone, a cimentarsi con la Storia, ma questo esercizio (che agli occhi di Julien Benda sarebbe parso un vero e proprio tradimento) avrebbe modificato per sempre il ruolo dell’intellettuale facendolo invischiare nelle questioni politiche. È qui – al rapporto tra cultura e politica – che intende arrivare De Michelis perché si tratta non di un incarico estemporaneo ma di un feroce corpo a corpo con la materia che regge le azioni umane. Per l’uomo di cultura questo impegno costituisce l’esercizio più difficile perché è sempre in bilico tra principi ideali e rischio di compromissione, tra monologo solipsistico e dialogo con la comunità. L’esperienza indica che (non così frequentemente rispetto a come ci si sarebbe aspettati) gli intellettuali hanno combattuto invano la loro battaglia etica e civile, avendo dovuto subire il peso della politica. Vale un riferimento per tutti: la polemica tra Vittorini e Togliatti, sorta nel 1947 intorno alla rivista «Politecnico». Nella stragrande maggioranza dei casi, purtroppo, gli intellettuali hanno scelto la via più facile: quella dell’allineamento, dell’obbedienza, ottenendo in questo modo anche il proprio tornaconto. Le pagine che De Michelis dedica a questo problema – che non è nuovo rispetto al Novecento ma che nel Novecento si credeva potesse essere impostato su altre regole – costituiscono una vera lezione morale. De Michelis sa che dietro a ogni pagina scritta, a ogni esercizio creativo, si nasconde la testimonianza di un impegno politico. Nel bene e nel male, non sempre gli intellettuali se ne sono ricordati.

Quali autori Cesare De Michelis ha seguito nel corso degli anni e ha sentito maggiormente vicini?
I nomi sono tanti, come testimonia una lettura dell’indice finale. Ci sono tuttavia alcuni nei confronti dei quali De Michelis dimostra una fedeltà di lettore. Uno di essi, per esempio, è Vittorini, su cui torna più volte, individuando in lui l’intellettuale in grado di porsi il problema del moderno, di analizzarne i fenomeni non per giudicarli, semplicemente per comprenderli. Vittorini rappresenta, credo, l’interlocutore di tante stagioni interpretative perché è uno scrittore che ha la coscienza del nuovo ma non è esente dal dubbio. Un altro nome che mi viene di fare è quello di Federigo Tozzi, il narratore della crisi che accompagna le trasformazioni del romanzo tra Ottocento e Novecento. E poi Giuseppe Berto, su cui De Michelis punta decisamente le sue attenzioni riconoscendo in lui una straordinaria capacità di camminare contromano rispetto alla consuetudine del conformismo, al mainstream letterario. Berto assomma diversi elementi che fanno di lui un interprete di un certo Novecento: è un inquieto, un lottatore, uno sradicato, vive di conflitti e di fragilità, pratica la scrittura come terapia, crede nella letteratura come salvezza, ma anche con la giusta dose di disincanto. Infine, c’è tutto il settore degli scrittori di una certa tradizione antropologica: Ferdinando Camon, Fulvio Tomizza, Claudio Magris, ciascuno diverso dagli altri, ma tutti accomunati da un sentimento di smarrimento, dal conflitto tra memoria e oblia, tutti all’apice di un processo di trasformazione in cui la letteratura serve a investigare e a testimoniare come si modifica il mondo e come gli uomini cambiano in relazione a esso. Da questo elenco non può mancare un aspetto che ha fatto parte della molteplice attività di De Michelis, soprattutto del De Michelis editore, ed è il ruolo di scopritore di talenti. Marsilio per lungo tempo è stata additata come la casa editrice in Italia più sensibile al compio di lanciare nell’agone del mercato giovani narratori. Basterebbe osservare l’indice di Moderno Antimoderno per accorgersi che l’elenco dei capitoli termina con il nome di Susanna Tamaro, di cui De Michelis è stato il primo editore.

Quale senso mantiene, in un’epoca come la nostra, per De Michelis la scrittura?
È una domanda tanto affascinante quanto impegnativa. È un discorso che spesso tornava a voce, durante i nostri incontri, e che, per quanto riguarda questo libro, scorre come un fiume sotterraneo. Cesare De Michelis ha sempre continuato a credere nella scrittura, non tanto come esercizio di bravura, con effetti da bella pagina, ma in funzione morale, come testimonianza di civiltà. A lui non interessava il risvolto estetico di un testo, piuttosto il suo valore progettuale, la sua capacità di continuare a significare nel tempo. Ha continuato a credere nella scrittura anche di fronte alla possibilità che essa potesse smarrirsi o naufragare. E io credo anche che per lui continuare a scrivere (continuare a pensare la realtà in termini letterari) sia una pratica che contiene i segni di una progettualità, sia cioè una sorta di paradigma con cui disegnare il futuro. Questo assicura, da una parte, un rapporto molto saldo con il mondo dei giovani, quasi sussista un richiamo tra desiderio di narrare e capacità di intrecciare vita e destino sulla pagina. Dall’altra parte, è il tentativo di sconfessare l’atteggiamento più spontaneo e naturale che possa venire in mente di fare in un periodo segnato dalla fine del moderno: quello di rivolgersi alle proprie spalle e contemplare il tempo passato. Cesare De Michelis, per quanto consapevole che buona parte della nostra esistenza viene spesa nei sentimenti della malinconia, con Moderno Antimoderno ha inteso indicare una strada, che è la conferma in tutto ciò in cui egli ha creduto. La troviamo nelle pagine finali del libro, quando affronta un autore come Daniele Del Giudice, là dove scrive: «C’è dell’eroismo in questa sfida della letteratura all’insensatezza del mondo, c’è del coraggio nella fiducia ostinata che lo scrittore ripone nella parola». Il senso che ha la scrittura nella nostra epoca, per Cesare De Michelis, sta tutta qua, nell’idea della sfida all’insensatezza, nella fiducia ostinata nella parola.

Cesare De Michelis (1943-2018), professore emerito di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova, ha diretto le riviste «Studi novecenteschi» e «Studi goldoniani». Dal 1965 nel consiglio di amministrazione della Marsilio, ne è stato presidente fino all’agosto 2018. Tra le sue ultime pubblicazioni: Editori vicini e lontani (2016), Scritture della bonaccia. Avvisaglie del futuro (2017) e, postumo, Quante Venezie… (2019).
Giuseppe Lupo insegna Letteratura italiana contemporanea presso l’Università Cattolica di Milano e Brescia. Per Marsilio, dopo l’esordio con
L’americano di Celenne (2000), ha pubblicato anche Ballo ad Agropinto (2004), La carovana Zanardelli (2008), L’ultima sposa di Palmira (2011), Viaggiatori di nuvole (2013), Atlante immaginario (2014), L’albero di stanze (2015), Gli anni del nostro incanto (2017), Breve storia del mio silenzio (2019).

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