Il “mito della caverna”

Struttura e contenuto del «mito della caverna»

Il celeberrimo «mito della caverna» si colloca proprio al centro della Repubblica (VII, 514 A ss.).

Il mito è stato via via visto come simboleggiante la metafisica platonica, la gnoseologia e la dialettica platonica, e anche l’etica e la mistica ascesa platonica. In realtà, esso simboleggia tutto questo e anche la politica platonica […]. È il mito che esprime tutto Platone, e con esso, pertanto, concludiamo l’esposizione e l’interpretazione del suo pensiero.

Immaginiamo degli uomini che vivano in una abitazione sotterranea, in una caverna che abbia l’ingresso aperto verso la luce per tutta la sua larghezza, con un ripido andito d’accesso; e immaginiamo che gli abitanti di questa caverna siano legati alle gambe e al collo in modo che non possano girarsi, e che quindi possano guardare unicamente verso il fondo della caverna.

Immaginiamo, poi, che appena fuori della caverna vi sia un muricciolo ad altezza d’uomo e che dietro questo (e quindi interamente coperti dal muricciolo) si muovano degli uomini che portano sulle spalle statue e oggetti lavorati in pietra, in legno e in altri materiali, raffiguranti tutti i generi di cose esistenti.

Immaginiamo, ancora, che dietro questi uomini arda un grande fuoco, e, in alto, il sole.

Infine, immaginiamo che la caverna abbia un’eco e che gli uomini che passano al di là del muro parlino fra loro di modo che dal fondo della caverna le loro voci rimbalzino, riproducendosi per effetto dell’eco.

Ebbene, se così fosse, quei prigionieri non potrebbero vedere altro che le ombre delle statuette che si proiettano sul fondo della caverna e udrebbero l’eco delle voci: ma essi crederebbero, non avendo mai visto altro, che quelle ombre fossero l’unica e vera realtà e crederebbero, anche, che le voci dell’eco fossero le voci stesse prodotte da quelle ombre.

Ora, supponiamo che uno di questi prigionieri riesca a sciogliersi con fatica dai ceppi; ebbene, costui con fatica riuscirebbe ad abituarsi alla nuova visione che gli apparirebbe; e, abituatosi, vedrebbe le statuette muoversi al di sopra del muro, e capirebbe che queste sono ben più vere di quelle cose che prima vedeva e che ora gli appaiono come ombre.

E supponiamo che qualcuno tragga il nostro prigioniero fuori dalla caverna e al di là del muro; ebbene, egli resterebbe prima abbagliato dalla gran luce, e poi, abituandosi, imparerebbe a vedere le cose stesse, prima nelle loro ombre e nei loro riflessi nell’acqua, e poi le vedrebbe in se medesime, e, infine, vedrebbe il sole, e capirebbe che solo queste sono le realtà vere e che il sole è la causa stessa di tutte le altre cose.

Riportiamo il testo per intero, perché è veramente basilare:

«Dopo questo, dissi, paragona a una condizione di questo genere la nostra natura rispetto alla nostra educazione spirituale e alla mancanza di educazione. Immagina di vedere degli uomini rinchiusi in una abitazione sotterranea in forma di caverna che abbia l’ingresso alto verso la luce con un’ampiezza che si estenda per tutta la caverna medesima; inoltre che si trovino qui fin da fanciulli con le gambe e con il collo in catene in maniera da dover star fermi e guardare solamente davanti a sé, incapaci di volgere intorno la testa a causa delle catene, e che, dietro di loro e più lontano, arda una luce di fuoco; e, infine, che fra il fuoco e i prigionieri ci sia, in alto, una strada, lungo la quale immagina di vedere costruito un muricciolo, come quella cortina che i giocatori pongono tra sé e gli spettatori, sopra la quale fanno vedere i loro spettacoli di burattini».

«Vedo», disse.

«Immagina, allora, di vedere, lungo questo muricciolo, degli uomini che portano attrezzi di ogni genere che sporgono al di sopra del muro, e statue e altre figure di viventi fabbricate in pietra e in legno e in tutti i modi; e inoltre, come è naturale, che alcuni dei portatori parlino e che altri stiano in silenzio».

«Parli di cosa ben strana, disse, e di ben strani prigionieri».

«Sono simili a noi, dissi. Infatti, credi, innanzitutto, che vedano di sé e degli altri qualcos’altro, tranne che le ombre che il fuoco proietta sulla parete della caverna che sta di fronte a loro?».

«E come potrebbero, disse, se sono costretti a tenere la testa immobile per tutta la vita?».

«E degli oggetti portati? Non vedranno, pure, la sola ombra?».

«E come no?».

«Se, dunque, fossero in grado di discorrere tra di loro, non credi che riterrebbero come realtà appunto quelle che vedono?».

«Necessariamente».

«E se il carcere avesse anche un’eco proveniente dalla parete di fronte, ogni volta che uno dei passanti profferisse parola, credi che essi riterrebbero che ciò che profferisce parole sia altro se non l’ombra
che passa?».

«Per Zeus, no», disse.

«In ogni caso dunque, dissi, riterrebbero che il vero non possa essere altro se non le ombre di quelle cose artificiali».

«Per forza», disse.

«Considera ora, dissi, quale potrebbe essere la loro liberazione e la loro guarigione dalle catene e dall’insensatezza, e se non accadrebbero loro queste cose: qualora uno fosse sciolto, e subito costretto ad alzarsi e a girare il collo e a camminare e levare lo sguardo in su verso la luce, e, facendo tutto questo, provasse dolore, e per il bagliore fosse incapace di riconoscere quelle cose delle quali prima vedeva le ombre, che cosa credi che egli risponderebbe se uno gli dicesse che prima vedeva solo vane ombre, e che ora, invece, essendo più vicino alla realtà e rivolto a cose che hanno più essere, vede più rettamente, e, mostrandogli ciascuno degli oggetti che passano, lo costringesse a rispondere facendogli la domanda «Che cos’è?». Ebbene, non credi che egli si troverebbe in dubbio, che riterrebbe le cose che prima vedeva più vere di quelle che gli si mostrano ora?».

«Molto», disse.

«E se uno, poi, lo sforzasse a guardare la luce medesima, non gli farebbero male gli occhi, e non fuggirebbe, voltandosi indietro verso quelle cose che può guardare, e non riterrebbe queste cose veramente più chiare di quelle mostrategli?».

«È così», disse.

«E se di là, dissi, uno lo traesse a forza per la salita aspra ed erta, e non lo lasciasse prima di averlo portato alla luce del sole, forse non soffrirebbe e non proverebbe una forte irritazione per essere trascinato, e, dopo che sia giunto alla luce con gli occhi pieni di bagliore, non sarebbe capace di vedere nemmeno una delle cose che ora sono dette vere?».

«Certo, almeno non subito», disse.

«Dovrebbe invece, credo, farvi abitudine, per riuscire a vedere le cose che sono al di sopra. E, dapprima, potrà vedere più facilmente le ombre, e, dopo queste, le immagini degli uomini e delle altre cose riflesse nelle acque, e, da ultimo le cose stesse. Dopo queste cose, potrà vedere più facilmente quelle che sono nel cielo e il cielo stesso di notte, guardando la luce degli astri e della luna invece che di giorno il sole e la luce del sole».

«Come no?».

«Per ultimo, credo, potrebbe vedere il sole, e non le sue immagini nelle acque o in un luogo estraneo a esso, ma esso stesso di per sé nella sede che gli è propria, e considerarlo così come esso è».

«Necessariamente», disse.

«E, dopo questo, potrebbe trarre su di esso le conclusioni, ossia che è proprio lui che produce le stagioni e gli anni e che governa tutte le cose che sono nella regione visibile, e che, in certo modo, è causa anche di tutte quelle cose che lui e i suoi compagni prima vedevano».

«È evidente, disse, che, dopo le precedenti, giungerebbe proprio a queste conclusioni».

«E allora, quando si ricordasse della precedente dimora, della sapienza che qui credeva di avere e dei suoi compagni di prigionia, non crederesti che sarebbe felice del cambiamento, e che proverebbe compassione per quelli?».

«Certamente».

«E se fra quelli c’erano onori ed encomi e premi per chi mostrasse la vista più acuta nell’osservare le cose che passavano, e ricordasse maggiormente quali di esse fossero solite passare per prime o per ultime o insieme, e quindi mostrasse grandissima capacità nell’indovinare che cosa stesse per arrivare, credi che costui potrebbe provare ancora desiderio di questo, o che invidierebbe coloro che sono onorati o che hanno potere presso quelli, o che accadrebbe, invece, quello che dice Omero, e che di molto preferirebbe «vivere sopra la terra a servizio di
un altro uomo senza ricchezze», e patire qualsiasi cosa, anziché ritornare ad avere quelle opinioni e vivere in quel modo?».

«È così, disse; io credo che egli soffrirebbe qualsiasi cosa, piuttosto che vivere in questo modo».

«E rifletti anche su questo, dissi, se costui, di nuovo ridisceso nella caverna, tornasse a sedere al posto che prima aveva, si troverebbe con gli occhi pieni di tenebre, giungendovi all’improvviso dal sole?».

«Evidentemente», disse.

«E se egli dovesse di nuovo tornare a conoscere quelle ombre, gareggiando con quelli che sono rimasti sempre prigionieri, fino a quando rimanesse con la vista offuscata e prima che i suoi occhi ritornassero allo stato normale, e questo tempo dell’adattamento non fosse affatto breve, non farebbe forse ridere, e non si direbbe di lui che, per essere salito sopra, ne è disceso con gli occhi guasti, e che non mette conto di cercare di salire su? E chi cercasse di scioglierli e di portarli su, se mai potessero afferrarlo nelle loro mani, non lo ucciderebbero?».

«Certamente», disse.

Che cosa simboleggia, con esattezza, questo «mito della caverna»? Cerchiamo di spiegarlo in modo dettagliato.

Significato metafisico del mito

Innanzitutto, simboleggia i vari gradi ontologici della realtà, ossia i piani dell’essere sensibile e soprasensibile, con le loro suddivisioni: le ombre della caverna sono le mere parvenze sensibili delle cose, mentre le statue e gli artefatti simboleggiano tutte le cose sensibili; il muro rappresenta lo spartiacque che divide le cose sensibili dalle soprasensibili. Al di là del muro, le cose vere e gli astri simboleggiano le realtà nel loro vero essere, ossia le Idee; il Sole, poi, simboleggia l’Idea del Bene.

E le ombre e le immagini riflesse delle cose vere, che per prime il prigioniero vede al di là del muro, che cosa esprimono?

Va rilevato che le ombre dirette e le immagini riflesse nell’acqua, fuori dalla caverna e al di là del muro, sono appunto ombre e immagini delle vere realtà prodotte dalla luce del sole, e, quindi, sono completamente differenti dalle ombre che i prigionieri vedono sul fondo della caverna, che sono, al contrario di queste, prodotte dalle statue e dagli oggetti artificiali e dalla luce del fuoco.

In altri termini, esse stanno veramente «a mezzo» fra le Idee e le cose che le riproducono, e pertanto esprimono molto bene gli «enti intermedi», che sono appunto ontologicamente «intermedi», come sappiamo. […]

Significato gnoseologico del mito

In secondo luogo, il mito simboleggia i piani della conoscenza nei suoi due differenti livelli e nei vari gradi di questi.

La visione delle ombre nella caverna simboleggia l’εἰκασία o «immaginazione», mentre la visione delle statue e degli artefatti simboleggia la πίστις o «credenza».

Il passaggio dalla visione delle statue alla visione dei corrispondenti oggetti veri – che avviene, dapprima, mediante i riflessi e le immagini delle medesime, e quindi degli enti matematici – simboleggia la διάνοια, ossia la «conoscenza mediana» o intermedia, che è strutturalmente legata alle scienze matematiche.

La visione più elevata che inizia con la percezione degli enti reali, e che, attraverso la visione delle stelle e degli astri e della luna durante la notte, giunge alla visione del sole e della piena luce del giorno, simboleggia il grande tragitto della dialettica nelle sue tappe essenziali, ossia nel suo procedere e nel suo giungere da Idea a Idea fino alle Idee supreme e, per «astrazione» da queste, all’Idea stessa del Bene, al Principio del Tutto.

Significato etico e religioso del mito

In terzo luogo, il mito della caverna simboleggia anche l’aspetto ascetico, mistico e teologico del Platonismo: la vita nella caverna simboleggia la vita nella dimensione dei sensi e del sensibile, mentre la vita nella pura luce simboleggia la vita nella dimensione dello spirito.

La liberazione dalle catene e la «conversione», ossia il girarsi con il viso e con tutto il corpo dalle ombre alla luce, simboleggia il volgersi dal sensibile all’intelligibile. Infine, la suprema visione del Sole e della luce in sé simboleggia la visione del Bene e quindi la conoscenza e la fruizione dell’Uno e della Misura suprema di tutte le cose e quindi del Divino in assoluto, con la conseguente decisione di ispirarsi a esso in tutte le attività della vita.

Si noti, in particolare, come Platone indichi la liberazione dalla visione delle ombre verso la luce come un «girare il collo» che fa il prigioniero della caverna (περιάγειν τὸν αὐχένα), proprio per poter levare lo sguardo verso la luce (πρὸς τὸ φῶς ἀναβλέπειν).

E questa immagine emblematica del «girare il collo e il capo dalla parte opposta» viene ripresa e sviluppata poco dopo e qualificata come «conversione» (περιαγωγή) dell’anima dal «divenire» all’«essere», come condizione necessaria per giungere a vedere l’essere nel suo massimo splendore, e quindi il Bene, che è il Principio di tutto. […]

Il significato politico in senso platonico del mito

Il mito della caverna esprime anche la concezione politica squisitamente platonica. Platone parla, infatti, altresì di un «ritorno» nella caverna di colui che si era liberato dalle catene, di un ritorno che ha come scopo la liberazione dalle catene di coloro in compagnia dei quali egli prima era stato schiavo.

E questo «ritorno» è indubbiamente il ritorno del filosofo-politico, il quale, se seguisse il suo intimo desiderio, resterebbe a contemplare il vero; e invece, superando il suo desiderio, scende per cercare di salvare anche gli altri (il vero politico, secondo Platone, non ama il comando e il potere, ma usa comando e potere come servizio alla Città, per attuare il Bene).

Ma, a chi ridiscende, che cosa potrà mai capitare?

Passando dalla luce all’ombra, non vedrà più, se non dopo essersi riabituato al buio; faticherà a riadattarsi ai vecchi usi dei contubernali, rischierà di non essere da loro capito e di essere preso per folle, e, suscitando profonde avversioni, potrà perfino rischiare di essere ucciso.

L’allusione è certamente a Socrate, ma il giudizio va indubbiamente molto al di là del caso di Socrate.

Platone intende dire questo: guai a squarciare le illusioni che fasciano gli uomini. Essi non tollerano le verità che rovesciano i loro comodi sistemi di vita basati sulle parvenze e sulla parte più fuggevole dell’essere, e temono quelle verità che fanno appello alla totalità dell’essere e all’eterno, e chi porta a loro un messaggio di verità ontologicamente rivoluzionario può essere messo a morte, come fosse un ciurmadore!

Così avvenne per Socrate, «l’unico vero politico» della Grecia, come lo chiama Platone, e così fu e sarà o potrà essere per chiunque si presenti «politico» in quella dimensione globale.»

tratto da Storia della filosofia greca e romana di Giovanni Reale, a cura di Vincenzo Cicero, Bompiani

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