“Miti e ideologia nella politica estera DC. Nazione, Europa e Comunità atlantica (1943-1954)” di Paolo Acanfora

Miti e ideologia nella politica estera DC. Nazione, Europa e Comunità atlantica (1943-1954), Paolo AcanforaMiti e ideologia nella politica estera DC: Nazione, Europa e Comunità atlantica (1943-1954)
di Paolo Acanfora
il Mulino

«Per lungo tempo tra le più radicate convinzioni nella storiografia sull’Italia repubblicana si è trovata la tesi di una politica estera marginale, contraddittoria quando non del tutto assente. L’assoluto primato assegnato al contesto interno avrebbe condizionato inesorabilmente le scelte dei principali attori politici, economici e sociali. Ogni valutazione sulla politica estera italiana dovrebbe, dunque, fare inevitabile riferimento alle ricadute sul piano nazionale, dominato da un elemento che ha costituito a lungo la peculiarità italiana: il confronto con il più forte partito comunista dell’intero occidente. Le dinamiche della guerra fredda sarebbero in questo senso meccanicamente riprodotte all’interno del contesto italiano e qualsiasi scelta internazionale dovrebbe essere letta innanzitutto, se non esclusivamente, nella sua valenza politica interna.

Il soggetto ovviamente più direttamente coinvolto in questo giudizio è la Democrazia cristiana. In quanto perno fondamentale del sistema politico italiano e dell’attività di governo, la Dc è stata ritenuta la principale responsabile di una tale concezione strumentale della politica estera. […]

Una simile lettura è stata spesso il prodotto di un pregiudizio diffuso sulla politica italiana. Molti studi negli ultimi anni hanno abbondantemente dimostrato la complessità del contesto italiano, delle sue relazioni con il panorama internazionale, delle peculiarità politiche ed ideologiche dei diversi attori che hanno contribuito a determinare la politica estera repubblicana, soprattutto in riferimento ai due fondamentali versanti europeo ed atlantico. […]

D’altra parte l’esistenza di una connessione tra scelte di politica estera e politica interna è un’ovvietà. Ciò è tanto più vero in un contesto internazionale quale quello della guerra fredda, dove le scelte compiute hanno avuto assai spesso ricadute in termini di appartenenza e definizione di nuove identità politiche.

L’oggetto di questo libro è esattamente l’analisi del modo in cui la Democrazia cristiana, nella sua componente di maggioranza guidata da De Gasperi e nelle sue progettualità alternative, ha elaborato (o ha provato ad elaborare) una nuova immagine dell’Italia nazione europea e nazione occidentale passando anche attraverso la tradizionale rappresentazione dell’Italia nazione latina. Per ognuna di queste rappresentazioni la classe dirigente democristiana ha indicato differenti costruzioni teoriche, diverse elaborazioni ideologiche e propagandistiche e diverse posizioni politiche.

L’intreccio tra europeismo e atlantismo ha avuto delle sue peculiarità sul piano delle costruzioni di identità politiche che fossero coerenti con il modo in cui, da parte democristiana, veniva declinata l’identità nazionale italiana. La nazione, la civiltà latina, quella europea e ancora quella occidentale ed atlantica costituiscono i temi fondamentali del presente lavoro. Tali elaborazioni hanno seguito e condizionato anche le concrete scelte politiche fatte in favore prima di un possibile aggregato di nazioni latine in funzione di ponte tra oriente ed occidente, poi di una partecipazione al blocco di nazioni occidentali guidate dagli Stati uniti d’America e, contemporaneamente, di adesione al processo di unificazione europea avviatosi nell’Europa occidentale.

Ripercorrendo le varie tappe di questi diversi ma fortemente connessi processi è possibile seguire anche le dinamiche dell’elaborazione ideologica, gli accenti posti ora sull’uno ora sull’altro elemento, l’evoluzione delle indicazioni propagandistiche, nonché le diversità di orientamento presenti nel partito. L’insistenza sull’identità latina della nazione italiana o sulla necessità di accentuare le proprie posizioni europeiste aveva significato, ad esempio, rimarcare le distanze con la linea politica della maggioranza degasperiana. All’interno dello stesso gruppo maggioritario del partito le evoluzioni erano state peraltro notevoli.

Le riflessioni di natura identitaria, fossero esse centrate sulla nazione italiana, sulla civiltà latina, sulla civiltà europea e sull’idea dell’Europa come nuova patria, sulla civiltà occidentale ed atlantica avevano come elemento dominante il riferimento all’appartenenza religiosa. La matrice identitaria fondamentale era il cristianesimo, la civiltà cristiana sedimentatasi nei secoli e divenuta un punto di riferimento ineludibile anche per coloro che non si dichiaravano, sul piano confessionale, cristiani. Per la classe dirigente democristiana, così come per il mondo cattolico di allora, ecclesiastico e laico, la dizione “cristiano” equivaleva a “cattolico”, anche se, soprattutto in taluni ambienti, non andrebbe troppo sottovalutato il significato più estensivo che tale uso implicitamente evocava. D’altra parte, com’è ovvio, tanto sul piano occidentale quanto su quello più strettamente europeo (si pensi al partito cristiano interconfessionale tedesco) non tutti i partners potevano considerarsi di appartenenza o tradizione cattolica.

Le riflessioni attorno al concetto di identità politica sono certamente centrali per comprendere le scelte di politica estera compiute da un partito di massa nella società di massa novecentesca. Riflessioni che nascevano non solo per giustificare ex post le scelte compiute ma anche per determinare e spingere verso quelle che si credevano necessarie o opportune, e che originavano da profonde convinzioni sulle caratteristiche, il ruolo e la missione della nazione italiana sulla scena internazionale. Ovviamente la categoria “identità politica” non è di semplice utilizzo. È lo stesso concetto di identità ad essere profondamente controverso e ad avere implicazioni complesse sia in termini antropologici che psicologici sia ancora filosofici che sociologici. Il copioso uso che si è fatto di questo concetto negli ultimi anni ha spinto a parlare di una vera e propria «ossessione identitaria» e dell’identità come una «parola avvelenata», un grande mito falsificatore che «fa passare per reale ciò che invece è una finzione o, al massimo, un’aspirazione». Sul piano dell’analisi storica ciò che interessa è, però, il modo in cui questa categoria è stata utilizzata, con quali tematiche si è intrecciata, con quali finalità e quale ruolo può aver giocato all’interno di una ideologia e di una proposta politica.

Da questo punto di vista, particolarmente significativa è la connessione con il mito politico. La valenza mitica delle riflessioni democristiane sull’identità nazionale, latina, europea e occidentale è evidente nelle ricostruzioni proposte in questo libro. Gli elementi identitari venivano spesso utilizzati per definire nuovi miti capaci di mobilitare il consenso delle masse, per suscitare entusiasmo e partecipazione. La classe dirigente democristiana, nelle sue diverse componenti e sensibilità, si appellava all’identità cattolica della nazione italiana per legittimare il proprio ruolo di guida nell’Italia postfascista, elaborando nuovi miti funzionali a tale progetto. Allo stesso modo, promuoveva il mito dell’Europa come nuova grande patria per mobilitare ed entusiasmare le nuove generazioni e combattere i miti comunisti e quelli risorgenti del neofascismo. Ciò avveniva anche per le riflessioni sull’identità latina e su quella occidentale, profondamente connesse (ognuna con le proprie peculiarità) con il mito di una missione civilizzatrice di cui l’Italia era investita.

Come per l’identità anche il mito politico appare una categoria dal non semplice utilizzo e ricca di implicazioni. Una difficoltà che si riflette, naturalmente, anche sul piano della definizione. Non essendo questo il luogo per condurre un’analisi di tale concetto è opportuno limitarsi a precisare che nell’uso qui proposto, il mito politico è inteso nel significato elaborato da Georges Sorel. […] Il mito soreliano non è, infatti, una descrizione che richiede una comprensione e una decifrazione sul piano cognitivo (ed in quanto tale esso è, per Sorel, incriticabile) ma un’idea-forza mobilitante capace di forti evocazioni sul piano emotivo, di suscitare coinvolgimento e sentimento di appartenenza e, soprattutto, in grado di sollecitare nelle masse e negli individui un approccio fideistico. In questa direzione, Remo Bodei ha correttamente sostenuto che «sorelianamente il mito è efficace solo in quanto funziona, produce degli effetti. Esso non è né vero, né falso».

Era proprio nel senso soreliano che Alcide De Gasperi, già negli anni trenta, evocava il valore funzionale del mito nella politica novecentesca e sollecitava i cristiani ad agire in questa direzione […].

L’attenzione alla questione della mobilitazione e del consenso delle masse veniva affrontata in quegli anni da De Gasperi, e non poteva essere diversamente, dal punto di vista del rapporto tra le masse e la Chiesa. È tuttavia molto significativo che egli cercasse di spingersi apertamente sul piano sociale con strumenti adeguati che la religione certo poteva fornire. Egli riteneva infatti che «senza una mistica, fermento necessario di ogni movimento popolare e di ogni sistema politico, non si guadagnano le masse, non si trascinano le forze operaie». A tale convinzione doveva poi aggiungere in modo chiaro che «questa mistica deve riguardare l’uomo intero, cioè non solo la persona nei suoi rapporti con Dio, ma anche nei rapporti sociali». Rapportarsi alle masse significava doversi adeguare a quella che era giudicata una inesorabile propensione contemporanea, ossia all’utilizzo di «formule semplici, sentimentali, e talvolta anche irrazionali». Il futuro leader democristiano aveva dunque compreso quali dovessero essere le modalità di comunicazione ed i temi con cui poter mobilitare le masse, orientarle e coinvolgerle nell’azione politica diretta.

Fondamentale era trovare delle formule efficaci in grado di persuadere le masse e, aspetto assolutamente centrale, di educarle. Anche su questo tema gli accenti erano assai diversi all’interno del mondo cattolico. A pochi mesi dalla fine della seconda guerra mondiale sulla rivista degli intellettuali dell’Azione cattolica si poteva, ad esempio, leggere che gli esperimenti pedagogici totalitari potevano offrire spunti interessanti per l’educazione delle masse: «non vi è ragione di pensare», affermava Guido Lami, «che le stesse vie adottate dal nazismo non possano essere ripercorse in senso positivo e costruttivo». Al di là di queste considerazioni, che possono apparire sorprendenti ma che pure rivelano una mentalità diffusa nel cattolicesimo italiano di allora, l’aspetto pedagogico era certamente considerato centrale. Ciò significava assegnare grande valore all’attività propagandistica.

Anche qui, è utile precisare che la propaganda non può essere intesa come una deformazione strumentale della realtà o come una mera espressione partigiana e, dunque, per sua natura disinteressata alla verità, quando non apertamente menzognera. La propaganda va invece concepita come l’attività attraverso la quale si cerca di rendere accessibili ai diversi settori della società (con diversi linguaggi e mezzi) delle idee o, generalmente, dei contenuti cercando di orientare pedagogicamente quei settori. La propaganda è, dunque, la diffusione di idee e contenuti finalizzata all’indottrinamento delle masse e dell’opinione pubblica. Una caratteristica che è intrinseca alla società e alla politica di massa.

È con questa concezione della propaganda, del mito e dell’identità politica che è possibile comprendere come la Democrazia cristiana abbia elaborato e comunicato le proprie scelte politiche e si sia presentata come un soggetto dotato di una propria cultura politica, di una propria ideologia, di una propria visione del mondo, dell’uomo, del processo storico. […]

Senza dubbio l’esperienza del totalitarismo fascista ha rappresentato anche per il mondo cattolico italiano un passaggio di fondamentale importanza per la comprensione delle dinamiche della società di massa. Una considerazione che non vale solamente per la generazione che si formò negli anni del regime, e per la quale la cesura con il passato fu più netta, ma anche per le generazioni già mature che certamente non possono essere limitate al semplice ruolo di passive spettatrici.»

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