
di Tullio Giraldi
Società editrice il Mulino
Che cos’è la mindfulness; una domanda per rispondere alla quale è opportuno esaminare dove ed in quale modo essa ha avuto origine. Sarà anche opportuno considerare i modi in cui si essa è differenziata durante la diffusione cui è andata incontro quando dalla cultura Orientale di origine si è sviluppata in quella occidentale. Mindfulness è il termine inglese che letteralmente significa “pienezza della mente”, impiegato sin dall’iniziale accesso del mondo occidentale alle scritture Buddhiste per definire la sati, il termine nella lingua pali impiegato nella trascrizione dei sermoni del Buddha nei testi del buddismo tradizionale. Considerare la sati porta al cuore del Buddhismo stesso, ed al momento in cui Siddharta Gautama, il Buddha storico, dopo una profonda e lunga meditazione sotto l’albero della Bodhi, ottenne il risveglio, e tenne il primo sermone ai suoi discepoli ed allievi, intitolato La messa in moto della ruota del Dharma. In questo sermone, egli illustra le Quattro Nobili Verità; la sofferenza propria dell’esistenza, le sue cause, la possibilità di evitarla, ed il modo per realizzare ciò attraverso la Via di Mezzo, il Nobile Ottuplice Sentiero. I contenuti del Nobile Ottuplice Sentiero sono definiti in un contesto strettamente etico, e riguardano tre ambiti. Il primo è quello della saggezza, ed è costituito dalla giusta visione e dalla giusta intenzione; il secondo è quello della moralità, ed è costituito dalla giusta parola, dalla giusta sussistenza e dalla giusta azione; il terzo è quello della meditazione, ed è costituito dal giusto sforzo, dalla giusta presenza mentale e dalla giusta concentrazione. Ed è proprio la giusta presenza mentale, la sati dei canoni pali Buddhisti, che è stata tradotta sin dall’inizio con il termine inglese di mindfulness, da quel momento universalmente impiegato per riferirsi alla giusta presenza mentale della meditazione Buddhista, e che andrà incontro all’adozione ed alla successiva diffusione anche nelle lingue diverse dall’Inglese. Negli sviluppi recenti in Occidente, il termine di mindfulness è stato impiegato per riferirsi in maniera indifferenziata sia alla giusta presenza mentale del Nobile Ottuplice Sentiero, che per riferirsi in generale alla meditazione. In questo processo, la meditazione propria della pratica del Buddhismo viene a trovarsi fuori della complessa natura e pratica del Buddhismo stesso, e viene anche deprivata dei valori morali che caratterizzano il Nobile Ottuplice Sentiero nel suo insieme e la sati quale giusta presenza mentale da cui la moderna mindfulness “Occidentale” ha preso origine. Sono stati allo stesso tempo anche ignorati il giusto sforzo, ed ancor più la giusta concentrazione, samadhi, tanto rilevante da essere il centro della pratica del Buddhismo Soto Zen nella forma ulteriormente approfondita del Shikantaza.
Mindfulness e meditazione vengono proposti in Occidente da a fine anni 70 quale modalità per affrontare lo stress da Jon Kabat Zinn, un ricercatore statunitense che ideò il programma da lui definito Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR), istituendo anche il Center for Mindfulness in Medicine nell’Università del Massachussets.
La sua idea iniziale è stata testualmente da lui definita quella di “introdurre la meditazione Buddhista senza il Buddismo nella medicina ufficiale attraverso la mindfulness”. Ciò era accompagnato dalla definizione di mindfulness quale “consapevolezza del prestare attenzione in maniera deliberata al presente, senza giudicare lo svilupparsi dell’esperienza di momento in momento: ottenuta attraverso la pratica della meditazione quale veicolo per il superamento della sofferenza”.
È iniziato così il percorso che ha portato alla straordinaria attuale diffusione della mindfulness nella forma di 8 incontri nell’arco di 8 settimane, nel corso dei quali i partecipanti vengono istruiti alla meditazione guidata, che viene eseguita con la guida della stessa voce, che registrata viene impiegata anche nella meditazione prescritta anche a casa. In tal modo, brevi periodi di meditazione guidata sono stati progressivamente integrati, anche quali “compiti domestici”, in un quadro di Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), sino a divenire praticamente non più riconoscibile negli sviluppi attuali della Mindfulness Based Cognitive Terapy (CBMT).
Kabat Zinn ha sin dall’inizio ha concentrato i suoi sforzi per dimostrare l’efficacia del suo programma di mindfulness per la riduzione dello stress (MBSR) nel mondo della medicina basata sulle prove di efficacia, delle scienze e psicoterapie cognitive, e della psichiatria biologica. Nel fare ciò è avvenuto il distacco dal mondo del Buddhismo e di quello degli approcci umanistici alle sofferenze esistenziali e mentali. Gli interventi basati sulla mindfulness sono così andati incontro a grande successo, con piena accettazione nel mondo della salute e della medicina, accettazione che non si è altrettanto verificata nel caso di altri approcci olistici ed umanistici quali ad esempio lo Yoga.
La mindfulness, nel poco più di trent’anni dalla sua ideazione, è andata incontro ad una varietà di applicazioni, gran parte delle quali diverse dalla riduzione dello stress inizialmente proposta. Sono stati eseguiti un notevole numero di studi riguardanti una estesa varietà di disturbi mentali, con particolare attenzione alla depressione ed alle sue ricadute. Al di fuori dalla salute mentale, i suoi impieghi riguardano più in generale anche il benessere ed il miglioramento delle prestazioni individuali; tra queste, spicca lo sviluppo nell’esercito degli Stati Uniti del programma Mindfulness-Based Mind Fitness Training per i militari e cobattenti. Tutto ciò corrisponde alla pubblicazione di un cospicuo numero di articoli nelle riviste scientifiche e nella stampa generale; allo stesso tempo gli interventi basati sulla mindfulness sono divenuti un nuovo mercato che grazie alla sua diffusione ha superato nei soli Stati Uniti il valore impressionante di oltre 1 bilione di dollari all’anno.
La popolarità e la varietà di impieghi cui la mindfulness è andata progressivamente incontro specie nel mondo della medicina, ed il grande numero di professionisti che la impiegano generando l’enorme nuovo mercato delle sue applicazioni, rende opportuno soffermarsi sulla sua efficacia.
Il criterio oggi considerato universalmente necessario è quello dell’effettuazione di trials clinici con protocolli adeguatemene rigorosi, seguiti dalla pubblicazione su riviste scientifiche sotto il vaglio rigoroso di revisori esperti. Il grande numero di studi pubblicati, che consente oggi anche l’effettuazione di rassegne critiche e metanalisi, sembrerebbe rassicurare riguardo l’efficacia degli interventi basati sulla mindfulness.
Uno degli impieghi più estesi, e di maggiore significato, è quello riguardante la depressione, che merita opportuna l’attenzione.
La depressione è una condizione morbosa, nota dai tempi della medicina Ippocratica e Galenica, quale stato mentale caratterizzato da tristezza, disperazione, impotenza, mancanza di piacere accompagnato da sensi di colpa e talora ideazione suicidaria, senza relazione alcuna ad aventi di vita che possono all’origine del disturbo dell’umore. Questa condizione era seria e rara, definita melancolica in relazione alla teoria dello sbilanciamento degli umori ritenuto alla base delle malattie, ed in questo caso ad un eccesso di “bile nera” da cui il nome di melancolia (divenuto poi anche malinconia); altri termini impiegati sono depressione vitale o endogena, che indicano la mancata natura di reattività a cause esterne.
Questo scenario doveva andare incontro ai profondi cambiamenti causati dalla generale disponibilità degli psicofarmaci verificatasi alla fine degli anni 50 ed all’inizio degli anni 60. La depressione endogena ha dimostrato sin dalle prime sperimentazioni marcata risposta per il trattamento con i primi farmaci antidepressivi appartenenti al gruppo dei composti triciclici. La disponibilità dei nuovi interventi farmacoterapici, decisamente efficaci per il trattamento dei sintomi delle forme più gravi dei disturbi psichiatrici, ha fatto sì che la psichiatria si allineasse con le altre discipline mediche nello sviluppo di trattamenti basati sugli innovativi criteri dei trials clinici effettuati sulla base di rigorosi protocolli scientifici che hanno portato allo sviluppo della moderna medicina scientifica basata sulle prove. Questo approccio si basa sul cosiddetto gold standard, il trial clinico randomizzato controllato a doppio cieco. Per essere realizzato, è necessario che la condizione morbosa trattata sia accuratamente definita all’atto dell’inclusione dei partecipanti allo studio, e che gli effetti del trattamento siano accuratamente definiti mediante l’applicazione di rigorosi criteri di valutazione della risposta osservata. Ciò ha portato alla nascita della psichiatria biologica, che si è dovuto immediatamente confrontare con il problema della diagnosi. A partire dagli anni 60 la psichiatria americana ha quindi elaborato un sistema diagnostico, il Manuale Statistico Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM), di cui sono state successivamente elaborate ulteriori edizioni sino alla quinta (DSM 5) pubblicata nel 2013. I criteri diagnostici del DSM si sono progressivamente e del tutto allontanati da un contesto psicodinamico, e sono andati incontro per questo motivo accompagnato anche da una motivate estese critiche. Per quel che riguarda la depressione, è nata così la categoria diagnostica del disturbo depressivo maggiore, che è divenuto sinonimo di impiego generale per la depressione comunque intesa. Grazie all’estrema indefinitezza, ed all’incapacità di differenziare tra variazioni dell’umore di natura morbosa e quelle fisiologiche di adattamento ad eventi di vita stressanti, l’uso estensivo dei criteri diagnostici del DSM ha prodotto effetti diagnostici di estrema inclusività. La depressione divenuta disturbo depressivo maggiore ha assunto prevalenza ed incidenza tale da essere stata definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità una vera e propria epidemia su scala mondiale.
Accanto ai limiti della diagnosi secondo i criteri del DSM, sono apparsi anche i limiti di valutazione della severità della condizione iniziale, e della risposta ai trattamenti esaminati, che viene genericamente determinata nei termini di variazione del punteggio di scale psicometriche di comune impiego quali ad esempio quella di Hamilton.
In questo stesso scenario metodologico gli interventi basati sulla mindfulness sono stati esaminati, e mediante il quale i risultati presentati come positivi. Tutto ciò sta lla base dell’accoglimento della mindfulness nella medicina basata sulle prove e della psichiatria biologica, nonché in quello delle scienze cognitive e nelle psicoterapie ad orientamento cognitivo-comportamentale.
Negli anni in cui si è accumulato il grande numero di studi oggi disponibili, la mancata distinzione tra meditazione e mindfulness si è fatta progressivamente evidente, e ciò appare anche quando la mindfulness è stata incorporata nella Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT) divenendo la Mindfulness Based Cognitive Therapy (MBCT). È degno di nota il fatto che in questo processo la meditazione vera e propria, inizialmente presente in una certa misura e forma nella proposta iniziale del programma MBSR di Jon Kabat Zinn, si è progressivamente diluita sino a divenire praticamente impercettibile nel nuovo costrutto della mindfulness nel contesto delle scienze e psicoterapie ad orientamento cognitivo.
Lo sviluppo e le applicazioni della mindfulness per gli svariati altri impieghi nei più diversi contesti, meritano anche ulteriori considerazioni.
In senso metodologico, appaiono una serie di limitazioni che appartengono al mondo stesso della medicina basata sulle prove, tra i quali quelle più serie sono costituite dall’assenza di un gruppo di controllo trattato con placebo e l’assenza della singola o doppie cecità del protocollo, anche nei migliori studi disponibili che si basano su protocolli “controllati” e randomizzati.
In senso più lato, la mindfulness, nata dalla sarti, cioè da una sola minuta componente dei vasti e complessi insegnamenti buddisti, nel corso della sua integrazione nel mondo delle scienze cognitive ha perso ogni relazioni con le proprie origini, e segnatamente con la complessità degli insegnamenti del Buddhismo, e segnatamente con l’irrinunciabile contesto morale in cui essi sono collocati, e con la natura spirituale, umanistica e interpersonale che li caratterizza. Brevi periodi di meditazione limitatamente e superficialmente definiti sono stati impiegati nel protocollo degli studi sulla mindfulness, tipicamente condotti con gruppi di soggetti di limitata consistenza numerica, e nei quali i criteri di inclusione e di valutazione sono limitati al sostanziale impiego di scale psicometriche. Accanto a ciò, appaiono limiti concettuali di significato ancora più profondo. Gli approcci basati sulla mindfulness si basano sull’obiettivo del Buddhismo di fornire attraverso la sua pratica una modalità del superamento del dolore e della sofferenza propri dell’esistenza. La scelta della meditazione, o meglio della sati della meditazione Buddhista, si basa però solo su uno solo dei tre aspetti che la riguardano, trascurando il giusto sforzo e la giusta concentrazione (samadhi). Viene anche trascurato il fatto che nei paesi in cui il Buddhismo è la religione unica o prevalente, i fedeli non praticano la meditazione, che avviene solo all’interno dei monasteri da parte dei monaci residenti. Un ulteriore aspetto cruciale trascurato quando la mindfulness viene impiegata da sola o nella sua forma integrata con la psicoterapia cognitivo-comportamentale, è il suo impiego è finalizzato a rendere più funzionale l’ego (il sé) del paziente, trascurando la nozione fondamentale del Buddhismo che nega l’esistenza del sé, considerato insussistente e di natura illusoria.
A partire dall’inizio del secolo scorso, è avvenuta la progressiva diffusione del buddismo del mondo occidentale. Nella sua lunga storia plurimillenaria il Buddhismo, originariamente nato nel Nord dell’India, si è progressivamente diffuso in Cina, Tibet, in Giappone, nel Sud-Est Asiatico e nell’Isola di Ceylon, mantenendo intatto cuore della propria natura, differenziandosi allo stesso tempo nell’adattarsi alle caratteristiche culturali derivanti dal proprio radicamento locale. Appare quindi interessante osservare in quali modi buddismo si evolverà nella civiltà Occidentale nella quale ha cominciato ad integrarsi da un tempo estremamente breve in relazione alla sua lunga storia. In questo periodo, numerosi studiosi e praticanti Occidentali si sono sforzati di costruire ponti tra il mondo religioso, spirituale e filosofico del Buddhismo, con quello della dimensione umanistica della cultura occidentale, evitando i rischi di approcci manifestamente caratterizzati da un impianto riduzionistico e meccanicistico.
Questo libro rappresenta quindi uno sforzo di descrivere il modo in cui l’Occidente si è interessato al Buddhismo in relazione alla conoscenza scientifica della mente ed alla salute mentale, i modi in cui la mindfulness sia gemmata da questo contesto perdendo le sue connotazioni iniziali e radicandosi nel mondo delle scienze cognitive e delle psicoterapie ad orientamento cognitive e comportamentale, con un percorso basato su un’accurata ricerca delle migliori citazioni disponibili riguardo gli argomenti considerati.
In tal senso, gli sforzi sin qui fatti dall’autore per illustrare i contenuti del presente libro sulla mindfulness e psicoterapia, sono bene accompagnati dalle osservazioni fatte nella prefazione di Franco Del Corno, cui va la mia gratitudine per la sua lettura critica e per i suoi commenti.
Tullio Giraldi
Prefazione al volume, di Franco Del Corno
«Questo volume propone al lettore due distinti percorsi di riflessione, che l’Autore riesce tuttavia a far dialogare fra loro in maniera efficace e stimolante. Il primo descrive dettagliatamente che cos’è la mindfulness, con abbondanza di riferimenti storici sullo sviluppo originario del concetto e sulla sua pratica applicativa, nonché con un’attenzione speciale alla sua diffusione – per certi versi straordinaria – nella cultura dell’Occidente globalizzato, non solo fra i cultori del personal growth, ma anche fra gli psicoterapeuti di Scuole accreditate, che ne hanno fatto uno strumento di intervento nella cura dei disturbi mentali.
Il secondo prende le mosse dalle ricerche sull’efficacia della mindfulness nel trattamento di diverse condizioni psicopatologiche, ma in realtà può anche essere considerato una sorta di vademecum metodologico che evidenzia i difetti fondamentali di gran parte delle ricerche sulle psicoterapie improntate all’approccio delle evidence-based practices, nonché le numerose aporie della moderna diagnostica psicopatologica.
Entrambi i percorsi sono accomunati da una chiave di lettura degli oggetti e degli eventi che è ben espressa dalla preposizione «senza», esplicitata a proposito della mindfulness, implicita ma onnipresente nei resoconti delle ricerche sull’efficacia.
La definizione della mindfulness come «meditazione buddhista senza il Buddhismo» è il filo rosso che unisce i capitoli che ne descrivono il progressivo diffondersi e – soprattutto – l’incorporazione nel campo sempre più in espansione delle neuroscienze e della psichiatria di orientamento biologico. Ma anche delle tecniche di riduzione dello stress e delle psicoterapie prevalentemente symptom-behavior oriented.
A questo proposito, è importante sottolineare che l’intento del volume non è la difesa a oltranza della purezza e dell’integrità della pratica buddhista della meditazione, bensì una valutazione di ciò che di quest’ultima si conserva oppure si perde nella sua versione riduzionistica rappresentata dalla mindfulness. Senza trascurare una doverosa avvertenza: la meditazione resta comunque una parte limitata dell’insegnamento e della pratica del Buddhismo. È allora importante chiedersi se la ricchezza della dimensione umanistica del Buddhismo è in qualche modo rispettata in un approccio che traduce pressoché immediatamente il dolore e le difficoltà dell’esistenza in disturbi mentali.
E qui ha inizio il secondo percorso di riflessione. Il contenuto di maggior interesse di questi corposi capitoli è rappresentato dalla indicazione di un’assenza: in questo caso, l’assenza di un solido fondamento epistemologico che guidi le verifiche di carattere empirico. Ecco di nuovo la preposizione «senza»: molta parte della diagnostica psicopatologica di questi anni e della teoria della tecnica delle diverse psicoterapie si dispiega senza un adeguato quadro di riferimento epistemologico.
È interessante notare che l’Autore non impiega mai il termine «epistemologia», ma tutto ciò che scrive a proposito dell’affidabilità dei risultati delle ricerche prese in esame rimanda a temi epistemologici centrali nelle discipline psicologiche. Ad esempio, la differenza fra efficacia sperimentale ed efficacia clinica, per non confondere i tipi psicopatologici «puri» dei Randomized Controlled Trials con la casistica «reale» dei pazienti della pratica professionale quotidiana; la necessità di non perdere l’attenzione alla dimensione relazionale, in cui deve muoversi ogni tentativo autentico di portare aiuto, per non reificare la sofferenza ed estraniarsi difensivamente da essa; l’obbligo della congruenza fra oggetto e metodo di indagine/di intervento, per evitare derive fantasiose e miracolistiche che propongono questa o quella panacea, a seconda della moda del momento.
Quanto di tutto questo permane nell’utilizzo della mindfulness che il marketing psicologico dei paesi occidentali ci propone costantemente? Dobbiamo rispondere a questa domanda se non vogliamo incorrere in un errore esiziale: rifiutare in toto le pratiche di meditazione perché il loro uso riduzionistico, poco sorvegliato oppure fastidiosamente new age ci induce al rigetto impulsivo.
La lettura di questo libro può senz’altro essere d’aiuto per evitare questo rischio e per iniziare a confrontarsi con interesse (se non lo si è già fatto) con ciò che la pratica buddhista della meditazione può dire a chi voglia conoscerne gli straordinari sviluppi lungo 25 secoli di storia.»
Franco Del Corno
Tullio Giraldi ha insegnato Farmacologia, Neuropsicofarmacologia e Psicologia clinica e dirige il Corso di alta formazione in meditazione e consapevolezza (mindfulness meditation) dell’Unità di Psicologia del Dipartimento di Scienza della Vita dell’Università di Trieste. È visiting professor nel Department of Social Science and Medicine del King’s College di Londra. Tra le sue pubblicazioni Farmaci e psicoterapia (2016)