
Percezioni identitarie e forme di autorappresentazione sono in qualche modo due lati della stessa medaglia. La percezione della propria identità si concretizza di volta in volta in forme diverse nei monumenti funerari, onorari o sacri, in base a come i soldati volevano presentarsi ai fruitori dei monumenti. L’origine infatti è espressa in modo preciso quando i soldati volevano identificarsi come membri di una comunità e taciuta in altre occasioni, quando questi si presentavano semplicemente come cittadini di Roma.
Che dimensioni assumeva la presenza di soldati di origine danubiana e balcanica nell’esercito romano?
I soldati danubiani e balcanici nell’esercito romano costituivano gran parte del contingente delle truppe stanziate sul limes danubiano, il confine che separava l’impero romano dal Barbaricum. Quello che è però sorprendente è come questi soldati diventino in poco tempo la parte preponderante degli effettivi delle truppe in servizio nella città di Roma. Bisogna immaginarsi che nel I secolo d.C. e fino almeno alla metà del II secolo d.C. quasi tutti i soldati di Roma venivano reclutati, salvo rarissime eccezioni, dall’Italia. Con Settimio Severo le cose cambiano radicalmente. Nel 193 d.C. Settimio Severo congeda la vecchia guardia pretoriana che aveva sostenuto Didio Giuliano dopo l’assassinio di Pertinace e sostituisce tutti i suoi membri con i soldati delle legioni pannoniche da lui comandate. Da questo momento in poi cambia completamente la modalità di reclutamento nelle coorti pretorie: i soldati non vengono più scelti tra i cittadini romani originari dei centri urbani di Italia e province, ma giungono a Roma dopo alcuni anni di servizio nelle legioni del Danubio. Se pensiamo che sotto Settimio Severo il numero dei soldati a Roma doveva aver raggiunto il suo culmine di circa 30.000 unità e che questi erano nella stragrande maggioranza di origine danubiana e balcanica, capiamo bene come questo abbia portato inevitabilmente e in pochissimo tempo alla formazione di comunità regionali o provinciali nella capitale dell’Impero.
Di quali processi socio-culturali si resero protagonisti i soldati danubiani nelle milizie urbane?
Come ho detto, nel giro di pochissimo tempo si formano a Roma delle comunità etniche regionali e provinciali. Dobbiamo immaginare migliaia di soldati che si trasferivano nella capitale con tutta la famiglia e che vi rimanevano per la durata del servizio, che andava dai 16 ai 20 anni. Chi arrivava all’honesta missio, il congedo, generalmente tornava nei centri di origine, come testimoniano iscrizioni e diplomi militari rinvenuti nelle province, tuttavia, non sono pochi i casi di veterani che decidono di stabilirsi a Roma. I soldati con mogli, figli, talvolta anche genitori, vivevano a stretto contatto gli uni con gli altri. Questo deve aver portato inevitabilmente alla creazione di un vero e proprio melting pot, in cui costumi, usi e culti di regioni diverse entravano in contatto con quelli della capitale e tra di loro. Queste comunità immigrate non vivevano segregate nei campi militari, che comunque si trovavano all’interno della città, ma, al contrario, si mischiavano alla popolazione di Roma, frequentando l’anfiteatro, i teatri e le terme. Parlavano le loro lingue, ma anche il latino, praticavano i propri culti, ma allo stesso tempo onoravano il Giove Capitolino di Roma e celebravano Esculapio e Igea in occasione dei Rosalia, ovvero il giorno in prescritto nella città di Roma. Mentre alcuni veterani sceglievano di continuare a vivere a Roma, diventando a tutti gli effetti cittadini della capitale, quelli che rientravano in patria portavano con sé nuove idee, modi di esprimersi e forme religiose che influenzano la vita nelle province.
Che rilevanza assumono l’identità religiosa e le forme di aggregazione con finalità cultuale nella vita sociale dei milites danubiani e balcanici a Roma?
La creazione di nuove identità religiose è forse il risultato più evidente dei processi socio-culturali di cui ho parlato prima. In archeologia bisogna anche avere un po’ di fortuna e sperare che i monumenti più significativi non siano andati perduti per sempre. In questo caso siamo molto fortunati, perché sono sopravvissuti fino a noi vari resti che costituiscono una testimonianza esclusiva per quanto riguarda i culti dei pretoriani.
Si tratta di iscrizioni e piccoli monumenti votivi e trovati in riuso in strutture tardoantiche a Piazza Manfredo Fanti, sull’Esquilino, non lontano dai castra praetoria, ovvero la caserma dei pretoriani, dove oggi si trova la Biblioteca Nazionale. Questi monumenti devono essere stati trasportati qui da un’area nei pressi dei castra dove nel III secolo si erano costituiti dei piccoli santuari di natura etnica. Qui, sotto la guida di sacerdotes, gruppi di pretoriani, per lo più Traci, originari della stessa regione, veneravano i propri dei autoctoni. Troviamo, ad esempio, piccoli ex voto per Heros, la divinità più popolare in Tracia, dedicati da singoli pretoriani in occasioni diverse come ad esempio la promozione a un rango più alto nell’esercito. Heros compare qui in diverse declinazioni e mescolato al culto di Asclepio e di Apollo. Un caso eclatante è quello di Asclepius Zimidrenus, venerato nel santuario di Batkun e onorato a Roma in vari monumenti collettivi posti da gruppi di soldati provenienti dai villaggi intorno a Philippopolis (oggi Plovdiv in Bulgaria). Vicino ai castra praetoria non doveva tuttavia sorgere un santuario frequentato solo da Traci. Nello stesso luogo sono state rinvenute infatti anche iscrizioni a Belinus, una divinità pannonica sincretizzata – ancora una volta – con Apollo, dedicate dagli abitanti della civitas Cotinorum in Pannonia.
Questo scorcio di vita quotidiana, anche se limitata all’ambito cultuale, è unico e importantissimo per comprendere le dinamiche sociali dei soldati a Roma. Conosciamo i soldati prevalentemente attraverso i monumenti funerari in cui sono ricordati da altri, eredi e familiari, ma in questo caso si può vedere direttamente come si comportavano quando erano ancora in vita, quali attività svolgevano e con chi passavano, per così dire, il tempo libero.
Nei monumenti di Piazza Fanti si percepisce in maniera evidente come gruppi di pretoriani in servizio a Roma nel III secolo andassero orgogliosi delle proprie radici culturali e delle proprie tradizioni religiose e di come le manifestassero, esprimendole in maniera aperta e pacifica gli uni accanto agli altri in un’area circoscritta.
Quali aspetti emergono dei rapporti interpersonali interni all’ambiente militare e da quelli che intercorrono tra soldati e civili?
Le iscrizioni dei soldati di Roma sono una fonte inesauribile di informazioni a questo proposito. Soprattutto quelle collettive, che contengono liste lunghissime di dedicanti, i cui nomi sono incolonnati uno sotto l’altro e sono corredati dalla città di provenienza. Questi documenti un po’ monotoni e ostici da leggere sono stati considerati molto poco nella ricerca storica ed epigrafica e sono stati spesso interpretati in modo erroneo come liste di congedati. In realtà si tratta sempre di dediche collettive in onore del Genio che proteggeva il corpo militare o del Genio dell’Imperatore. Parlo di queste dediche perché le provenienze conservate qui permettono di osservare come gruppi di soldati con la stessa origine servissero nelle stesse sotto-unità nello stesso periodo e tendessero a porre dediche insieme. Questo significa che al momento della translatio (ovvero del trasferimento dalle legioni alle truppe di Roma) gruppi di compatrioti venivano trasferiti insieme, forse per loro richiesta esplicita. Questi potevano essere amici e, non di rado, parenti.
Parenti si riconoscono ovviamente anche nelle dediche sepolcrali in cui i dedicanti dichiarano esplicitamente di essere fratelli, figli o cugini. Scavando un po’ più a fondo in quello che rimane non detto nelle iscrizioni sepolcrali, sempre molto sintetiche, si possono trovare ulteriori legami di parentela. Soldati che si nominano eredi a vicenda, pur non essendo in servizio nella stessa unità militare, erano sicuramente parenti o amici di lunga data. Questi, anche se stazionati in aree diverse della città o addirittura in città diverse (come nel caso dei soldati della legione II Parthica, che si trovava ad Albano Laziale), mantenevano tra di loro stretti rapporti interpersonali. Casi come questi sono molto comuni e testimoniano l’esistenza a Roma di catene migratorie.
Per quanto riguarda i rapporti con i civili, risulta evidente dalla nuova analisi della documentazione epigrafica che i soldati non vivevano completamente separati dagli abitanti di Roma, come si era pensato finora. Pretoriani ed equites singulares Augusti, la guardia a cavallo dell’Imperatore, oltre a frequentare bagni e luoghi di spettacolo della città, vivevano a Roma con le loro famiglie. Lo spazio all’interno delle caserme di Roma era a malapena sufficiente ad ospitare i soldati; i numerosi parenti dei soldati dovevano quindi necessariamente vivere nella città, fianco a fianco con gli altri civili. Anche una volta morti i soldati non venivano sepolti in cimiteri militari, ma in aree sepolcrali lungo le principali vie consolari, frequentate da tutti. L’unica eccezione è costituita dalla necropoli degli equites singulares Augusti, sulla via Casilina.
C’è un altro aspetto che è stato preso poco in considerazione nella ricerca storica: si tratta dei veterani che decidevano di rimanere a Roma dopo il servizio. Questi di certo erano una minoranza, ma sono una testimonianza chiara di come interi nuclei familiari fossero mossi da un forte desiderio di integrazione nella società di Roma. Questo è ben visibile nei loro sepolcri, spesso cappelle di famiglia identiche a quelle degli abitanti di Roma, in cui gli ex soldati si fanno anche rappresentare in abiti civili. Nei testi delle iscrizioni le informazioni relative all’appartenenza militare e alla provenienza dalle province sono ridotte al minimo. Non bisogna dimenticare poi che le testimonianze epigrafiche ci mostrano solo i veterani in una fase che possiamo definire di transizione tra la sfera militare e quella civile; tuttavia, dovevano esistere veterani completamente integrati nella società romana o figli di ex soldati nati a Roma, che non dichiarano la propria provenienza e la propria appartenenza alla sfera militare, che portano nomi perfettamente romani e che quindi si confondono anche e soprattutto ai nostri occhi con la popolazione di Roma.
Chiara Cenati ha studiato Lettere Classiche e Archeologia a Milano e a Roma e ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia Antica all’Università di Vienna, dove ora è impegnata come ricercatrice post-doc nell’ambito del progetto ERC MAPPOLA (Mapping out the poetic landscape(s) of the Roman Empire: https://mappola.eu/). Si occupa di storia militare e sociale, in particolare delle province danubiane e della città di Roma. Attualmente i suoi studi svolti si concentrano sulla produzione di iscrizioni in versi in contesti militari. Da anni è impegnata in progetti di epigrafia digitale come Epigraphic Database Roma (www.edr-edr.it) ed Epigraphy.info (https://epigraphy.info).