
Proprio a partire da un rapporto intimo si apre l’opera: Omar, un bambino di dieci anni, sta giocando con la madre e corre attaccato a lei, per paura di perderla. Non vivono più insieme da ormai cinque anni e non sappiamo per quale motivo. Ci è dato sapere solo che Omar vive con suo fratello Senadin all’orfanotrofio, dove, per via delle sparatorie, gli educatori ormai non riescono più ad andare e i bambini dormono tutti ammassati ai primi piani. La madre va a trovare il figlio una volta alla settimana, fino a che, dopo una granata, non tornerà per due mesi. Il bambino sta gran parte del tempo alla finestra ad aspettare che arrivi, anche se il fratello lo rimprovera, deve stare giù, rischia di farsi ammazzare. Omar non gioca con gli altri bambini, e, anche quando trovano cibo, mangia controvoglia: non desidera nient’altro che sua madre. Per lui è sempre stato così, anche quando non c’era la guerra e lui sentiva gli altri bambini raccontare delle loro vacanze al mare e in montagna: lui, ai tempi, stava bene dov’era, nel letto di casa sua dove dormivano tutti e quattro stretti, mamma, papà, lui e Sen. Adesso trascorreva le notti sul materasso a terra dell’orfanotrofio tra le braccia di suo fratello, e questo riusciva a calmarlo, a smettere di farlo piangere e vomitare.
Sarajevo, all’inizio, sembra sia solo di sfondo, una scenografia che si muove al di fuori del suo mondo composto solo dalla sua famiglia. Lui e sua madre, prima del bombardamento, giocavano con la lattina di Coca-Cola ed erano felici, nel loro microcosmo. “A sorvegliarli, finestre chiuse con tavole di legno al posto dei vetri, squarci aperti nei muri dei palazzi, colombi imperterriti sui davanzali e una lunga colata d’asfalto disertata dagli esseri umani. Qualcuno aveva piantato in un vaso spoglio una girandola: non c’era vento, non girava. Chissà se, soffiando col suo fiato di bambino smilzo, lui l’avrebbe fatta dondolare almeno un po.”
I bambini non riescono a rimanere nascosti, vogliono giocare, uscire con le proprie mamme, chi le ha. Immergendosi nei pensieri di Omar, si vede che il conflitto non è di sfondo, solo non è concettualizzata, non sa chi si sta sparando, e per quale motivo, però sa che c’è ed è sovrana. Sente su di sè il peso della morte e della cattiveria che lo circonda, la guerra è quella cosa che ha spezzato la sua famiglia. “I cecchini sparavano dalle montagne, Sarajevo era circondata, uno spazio da cui era impossibile uscire. Ha la forma di una culla, di una conchiglia, raccontava suo padre nelle sere di buon umore, una forma che ha sempre fatto sentire protetti i suoi abitanti, e a Omar pareva che gli brillassero gli occhi. Chissà dov’era, adesso, lui: mai avrebbe potuto immaginare che quella fosse la forma perfetta per ucciderli.”
Omar si sente annullato, spolpato di ogni sua proprietà, e, al piano di sopra, si lascia andare alle lacrime. Lì avviene il suo primo incontro con Nada, la bambina a cui manca un anulare. È la sorella di Ivo, il maggiorenne, e lei si fa vedere in cortile solo in sua presenza. Disegna sempre, e per lei, che ha lo stesso carattere del fratello, la guerra è rabbia: spacca oggetti, non piange mai. Però, è lei che è capace di prendere la mano di Omar, quando lui singhiozza, schiena contro il muro. Lei, senza la speranza che la sua famiglia si riunisca, cerca qualcuno con cui condividere il proprio dolore, qualcuno a cui stringere la mano quando arrivano i soldati. Così conosce sul pullman Danilo, uno di quei bambini che hanno ancora la famiglia. Quando, in seguito ad un bombardamento dell’orfanotrofio, viene dato il permesso agli educatori di portare i bambini in Italia, nasce il triangolo amoroso, a mio parere un rimando al celebre romanzo “Una questione privata” di Beppe Fenoglio, ambientato durante la Resistenza.
L’autrice riesce a delineare personaggi da un carattere vivo, che cresce con loro, e su cui si possono misurare le conseguenze dell’odio deflagrato nella loro terra. Vengono mostrati in profondità i loro sentimenti, con tutte le contraddizioni che comportano: arrivati in Italia, Senadin accoglie l’adozione della nuova madre, seppure con la sua era stato schiavo, e al contrario Omar non accetta di essere adottato, resta disperatamente alla ricerca di una madre che non c’è più. Questo senso di abbandono, del destino ingiusto che ci mette in vita per farci soffrire, scorre per ogni pagina, forse anche fino a sorpassare ogni cosa. La scelta di partire dall’infanzia da una parte offre il vantaggio di trattare un tema denso senza appesantirlo eccessivamente, dall’altra, lo sguardo sognante rischia di dare un effetto straniante al lettore. Può sembrare che ci sia una parte di dolore non detto, come se fosse troppo da indagare. Un esempio è quando stanno per salire sul pullman e Omar urla per cercare sua madre: “Continuò a chiamarla con insistenza. I genitori lo guardavano perplessi, o compassionevoli, e certi bambini, turbati forse dall’invocazione assillante alla quale nessuna madre dava risposta, scoppiarono in lacrime”.
Mi limitavo ad amare te è un romanzo intenso, scritto in maniera impeccabile, che prende come scelta decisiva il punto di vista dei bambini, i soli, gli abbandonati; si assume la grande ambizione di entrare nel cuore di un dolore antico, di cui sembra non si possa neanche parlare.
Vittoria Elena Fabbro