“Metafore e linguaggio figurato nel Medioevo e nell’opera di Dante” di Gaia Tomazzoli

Dott.ssa Gaia Tomazzoli, Lei è autrice del libro Metafore e linguaggio figurato nel Medioevo e nell’opera di Dante, pubblicato dalle Edizioni Ca’ Foscari: che rilevanza assume, nell’intera opera dantesca, il linguaggio figurato?
Metafore e linguaggio figurato nel Medioevo e nell’opera di Dante, Gaia TomazzoliIl linguaggio figurato è un problema centrale nella riflessione di Dante, fin dalle sue prime opere: nella Vita nova la celebre digressione di poetica del XXV capitolo mira proprio a disinnescare il potenziale dubbio di chi riconosce che la personificazione di Amore, descritto come un personaggio che cammina, parla e ride, costituisce qualcosa di falso dal punto di vista della verità. Quella di Dante sembra una preoccupazione eccessiva: la personificazione è un espediente retorico molto comune, soprattutto nella lirica d’amore, dove in effetti si discuteva parecchio proprio di questo argomento; ma rispetto ai suoi predecessori e contemporanei, mi sembra che nel pensiero di Dante emerga fin da subito una tensione tutta particolare, che lo porta da un lato a voler rivendicare la sua padronanza della lingua poetica e degli strumenti retorici, dall’altro a voler presentare il contenuto della propria scrittura come la fedele traduzione in parole di una verità di volta in volta biografica e/o teologica, o quanto meno poetica. Per questo lo stesso problema si ripresenta nel Convivio, quando Dante deve gestire le conseguenze delle sue poesie: le liriche sulla donna gentile composte dopo la morte di Beatrice, benché siano state molto apprezzate per la loro bellezza formale, potrebbero attirargli l’accusa di essere un amante incostante, ragion per cui il poeta decide di reindirizzare l’interpretazione del lettore grazie all’allegoria, ossia spiegando che il vero significato delle canzoni, celato sotto il loro senso letterale, riguarda il suo virtuoso amore per la Filosofia. Per dare un solido fondamento a questa operazione, Dante riprende un discorso molto diffuso nel Medioevo, quello che distingue tra l’allegoria dei poeti e l’allegoria dei teologi, e presenta il Convivio come un’opera in cui non solo si apprendono le varie nozioni disseminate nella spiegazione del senso letterale e del senso allegorico delle sue canzoni, ma si approfondisce anche il meccanismo stesso della scrittura e dell’interpretazione allegorica. La distinzione tra le due allegorie scompare nell’epistola a Cangrande, dove Dante riprende un’elaborazione della teoria dei quattro sensi delle Scritture bibliche simile a quella del Convivio, e questa volta applicata senza ritrosia alla propria scrittura: commentando il significato della Commedia, il poeta precisa che nel poema c’è un senso letterale e un senso allegorico. Nel Paradiso Dante darà una risposta definitiva al problema del linguaggio figurato della Commedia e della sua verità: quelle che ci appaiono come straordinarie invenzioni figurative e narrative del poeta – ci dice Dante – sono invece fedeli resoconti di quello che il protagonista ha esperito nel suo viaggio. La realtà del regno celeste, infatti, gli è stata presentata attraverso figure perché Dante ha fatto questo viaggio ancora vivo e con il suo corpo, e per questo la sua conoscenza non poteva che partire dai sensi: le anime beate hanno dunque accettato di venire incontro alle sue imperfette capacità conoscitive, traducendo una realtà per lui inafferrabile in un segno sensibile. È così che Dante ha risolto la tensione che evocavo prima: presentando le proprie metafore non come un ornamento esterno o artificiale, e dunque come una scelta del poeta, ma come semplice riproduzione di un’esperienza reale che non può che essere essa stessa metaforica, data la natura dell’uomo.

Quali riflessioni si svilupparono, in epoca medievale, sul tema del linguaggio figurato?
Quello che ho appena raccontato è un percorso in parte originale, o comunque una personale risposta di Dante a un problema che sembra sentire con particolare urgenza, ma questo discorso non nasce nel vuoto, anzi, affonda le sue radici in un’epoca che rifletteva moltissimo sul linguaggio figurato, e che lo faceva da molteplici punti di vista, con risultati anche profondamente diversi. Seguire cronologicamente le discussioni dantesche sul linguaggio figurato ci permette di misurare, tra le altre cose, l’evoluzione delle sue letture: le domande che Dante si pone e le risposte che si dà sono di volta in volta più complesse anche perché fanno riferimento a teorie via via più sofisticate. Nella Vita nova i termini in cui Dante solleva il problema della verità della prosopopea sembrano rimandare soprattutto alle norme grammaticali, che vedevano i tropi come un’improprietà da giustificare in nome della licenza accordata ai poeti; in un orizzonte simile si muovevano le artes poetriae, manuali di grammatica e retorica che miravano a formare l’aspirante poeta. Il De vulgari eloquentia si concentra invece su concetti come l’ornamento stilistico e la convenienza tra forma e contenuto, più vicini alla dottrina retorica, che istruiva ad andare oltre la semplice correttezza grammaticale per costruire un discorso elegante; diversi elementi del trattato latino, peraltro, sono spia di un profondo contatto con l’ars dictaminis, la disciplina della prosa epistolare latina che aveva assunto un ruolo egemonico nella retorica medievale, e con cui Dante aveva certamente familiarità, come dimostrano le sue lettere latine.

La teoria dell’allegoria discussa nel Convivio, nell’epistola a Cangrande e nella Monarchia ci porta ancora più in là nell’ideale percorso di un discente del XIII-XIV secolo, perché riprende diversi elementi dell’esegesi scritturale elaborati da Agostino e da altri importanti pensatori medievali, come Ugo di San Vittore o come Tommaso di Hales, un teologo che aveva elaborato un’influente distinzione tra il linguaggio biblico e quello della scienza umana; su come interpretare le Scritture si soffermavano poi anche le artes praedicandi, manuali che insegnavano ai predicatori sia le tecniche da impiegare per spiegare la Bibbia ai fedeli, sia la retorica esemplare da adottare per omelie e sermoni. La teoria della conoscenza che si ricostruisce dall’analisi di diversi passi della Commedia, infine, è il frutto di letture di filosofia e teologia che assegnano un posto di primo piano alla mitopoiesi platonica e all’epistemologia aristotelico-tomista.

La metafora si trovava dunque al centro di tutte queste diverse discipline, e le metteva in contatto tra di loro. Ricondurre le progressive acquisizioni del pensiero di Dante sul tema del linguaggio figurato a diversi retroterra, infatti, non significa immaginare un’evoluzione lineare o per compartimenti stagni: ciascuna di queste discipline interagiva strettamente con le altre, con continue sovrapposizioni, scivolamenti e rivendicazioni. Il sistema delle scienze medievali era stato profondamente rivoluzionato tra XII e XIII secolo con la nascita delle artes poetriae, dictaminis e praedicandi, che avevano aggiornato la grammatica e la retorica classica alla luce di gusti più moderni e più intrinsecamente cristiani, rendendo il testo sacro un vero e proprio modello di stile e la sua interpretazione il paradigma interpretativo principale; senza queste trasformazioni la scrittura di un «poema sacro», così vicino tanto ai classici quanto alla Bibbia, sarebbe impensabile.

Cosa rivela l’analisi linguistico-sincronica delle metafore della Commedia?
Oltre al discorso teorico che ho riassunto fin qui, e che viene ricostruito nella prima parte del mio libro, possiamo studiare il linguaggio figurato di Dante in un altro modo, ossia confrontandoci direttamente con il testo. Chiunque legga la Commedia rimane colpito dallo straordinario apparato di figure retoriche costruito da Dante, ma questa grandissima ricchezza metaforica è stata relativamente poco studiata; per questo la seconda parte del mio lavoro cerca di offrire un’analisi sistematica e approfondita delle metafore del poema, condotta secondo tre diverse prospettive. La prima è quella linguistica, su cui tutte le altre si fondano: il primo passo è stato infatti identificare tutte le metafore della Commedia, ragionando su ogni parola del poema per stabilire se il suo significato nel contesto del brano in cui la leggiamo sia diverso dal significato più generale di quel termine, e se tale differenza sia spiegabile alla luce di un’analogia; in tutti i casi in cui la risposta a queste due domande era positiva, ho considerato il termine metaforico. Nel primo capitolo ho dunque illustrato la procedura che ho impiegato per identificare tutte le metafore della Commedia, i supporti di cui mi sono avvalsa per realizzarla, e ho soprattutto discusso i diversi problemi che sorgono quando si devono valutare i significati generali e contestuali delle parole e decidere di conseguenza della metaforicità di un’espressione. Già a partire dall’identificazione delle metafore si possono poi fare diversi ragionamenti sul rapporto del termine metaforico con la lingua, e dunque sulle scelte del poeta, che possono essere dettate dalla ricerca di un’improprietà forte oppure, viceversa, dalla mancanza di un termine proprio o da esigenze metriche. L’ultima parte del capitolo illustra i risultati della classificazione morfologica e sintattica delle metafore, spiegando in che modo, per esempio, le metafore verbali si distinguano da quelle veicolate da un sostantivo o da un aggettivo, oppure mostrando che la maggior parte delle metafore si concentra in una singola parola, mentre più rare sono quelle estese.

Nel secondo capitolo la prospettiva è quella dell’analisi retorico-stilistica: si discute non più del rapporto del termine metaforico con l’alternativa letterale a cui è stato preferito, ma della sua funzione nel contesto del brano in cui è inserito e degli effetti che produce sul lettore. Si possono così fare alcune osservazioni sulla semantica delle metafore – esaminando i rapporti con le altre figure oppure soffermandosi sui campi semantici implicati nella traslazione – e sulla loro pragmatica, ossia sulle strategie che hanno verosimilmente spinto Dante a utilizzare quella determinata espressione. I dati quantitativi emersi dalla schedatura dimostrano che la maggior parte delle metafore della Commedia, e soprattutto di quelle più notevoli, è concentrata nei brani in cui il poeta o i suoi personaggi si lasciano andare a grandi invettive politiche o reprimende morali: in questi passaggi Dante eleva lo stile della sua poesia e attira l’attenzione del lettore su argomenti per lui particolarmente importanti, ma soprattutto si riallaccia da un lato a un retroterra teorico che assegnava all’ornamento stilistico il compito di veicolare la lode o il vituperio, dall’altro a una variegata tradizione letteraria, latina e volgare, in cui si utilizzava un linguaggio metaforico particolarmente fiorito per conferire maggior solennità e una più forte carica patetica al discorso politico e morale. Oltre a queste considerazioni più generali sulle strategie retoriche che determinano le scelte metaforiche di Dante, si possono poi individuare alcune caratteristiche specifiche dello stile di ciascuna cantica: nell’Inferno le metafore sono più brevi e stranianti, spesso violente o sarcastiche, mentre nel Purgatorio una delle loro funzioni principali è quella di rappresentare il peccato attraverso una reiterazione armoniosa e quasi liturgica di immagini che rendono la progressiva espiazione delle anime. Nel Paradiso, infine, molte metafore animali e vegetali si addensano in grandi affreschi che trasmettono la visione del poeta, qualificando in modo negativo o positivo i comportamenti umani grazie alla loro trasposizione su un piano naturale e universale.

Nel terzo capitolo, da ultimo, allargo il quadro alla struttura dell’intero poema, soffermandomi su come le metafore interagiscono con il contenuto dei singoli canti o di parti più ampie dell’opera, e poi mostrando come il ricorso a una stessa metafora permetta di collegare brani anche molto distanti tra di loro grazie alle risonanze prodotte dall’associazione tra campi semantici distinti. Nell’ultima parte, infine, si ragiona sull’evoluzione del linguaggio metaforico del poema, mostrando come le quasi 3000 metafore del poema siano disposte in un crescendo di intensità e complessità. I tre capitoli di questa seconda parte adottano dunque delle metodologie e delle prospettive contemporanee, che rispecchiano però gli approcci progressivamente più complessi messi in luce nell’esame delle riflessioni teoriche della prima parte; sono solo alcune delle tante possibili piste che si potevano seguire nell’analizzare un fenomeno tanto sfaccettato e interessante quanto la metafora, vero e proprio punto di incontro tra usi linguistici, strategie retoriche e sistemi di pensiero.

Gaia Tomazzoli è ricercatrice alla Sapienza. Dopo aver studiato a Roma, Cambridge e Venezia, dove si è addottorata nel 2018, ha ricoperto incarichi di insegnamento e ricerca a Parigi (Sorbonne Nouvelle) e a Pisa. Le sue ricerche si concentrano sulle metafore e sul linguaggio figurato nella letteratura medievale; sul pensiero politico di Petrarca; sulle digital humanities e le ontologie formali. Fa parte della redazione delle riviste «L’Alighieri», «Revue des études dantesques» e «TranScript».

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