“Menopeggio. La democrazia costituzionale nel XXI secolo” di Tania Groppi

Prof.ssa Tania Groppi, Lei è autrice del libro Menopeggio. La democrazia costituzionale nel XXI secolo edito dal Mulino: la democrazia costituzionale è in crisi?
Menopeggio. La democrazia costituzionale nel XXI secolo, Tania GroppiLa parola crisi, sulla base dell’etimologia, dal sostantivo greco κρίσις e dal verbo κρίνω, ci porta all’area semantica del separare e del distinguere, ovvero all’idea di un punto di svolta. Pertanto, essa non è inevitabilmente densa di valenze negative, benché non scevra da quei timori e preoccupazioni che accompagnano ogni cambiamento, come accade quando si lascia il noto per l’ignoto. Direi che, in questa accezione, la democrazia costituzionale, per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi settant’anni, è senza dubbio “in crisi”: cioè sottoposta a trasformazioni epocali, che sono la conseguenza della cosiddetta “terza rivoluzione industriale”, per dirla con Jeremy Rifkin, cioè quella informatica, anch’essa innegabilmente epocale. La democrazia costituzionale (o liberal democracy nella terminologia anglosassone) ha rappresentato una forma di organizzazione delle società umane, in particolare dei rapporti di potere, cioè dei rapporti, all’interno dei gruppi umani, tra governanti e governati, che si è sviluppata negli ultimi due secoli per poi trovare una sua forma compiuta dopo la Seconda guerra mondiale. Essa presupponeva un contesto, di tipo economico, sociale, culturale, tecnologico e direi persino antropologico che l’accelerazione dei cambiamenti degli ultimi decenni, con la loro incidenza sulle comunicazioni, sui saperi, sul lavoro ha mutato profondamente. Pensiamo semplicemente alla trasmissione della conoscenza: internet consente a chiunque nel mondo, con un piccolo apparecchio da poche decine di dollari, o di euro, noto come ‘smartphone’, attraverso un collegamento invisibile a una rete invisibile, che chiamiamo ‘wireless’, che costa ancora meno, di cercare informazioni su ogni accadimento e su ogni essere umano, presente e passato. Sembrerebbe il quadro ideale per la partecipazione democratica, basata sul libero accesso alle informazioni: ma chi immette i contenuti nella rete? Chi gestisce i motori di ricerca? Ecco qui il tema dell’intelligenza artificiale, degli algoritmi e in definitiva di nuovi monopolisti (o oligopolisti) dei saperi, che rendono quella che a prima vista sembra una grande democratizzazione una pura illusione, che cela invece il rischio di manipolazione delle coscienze. Si tratta di uno solo tra i tanti esempi che potremmo fare, che ci mostra però come lo scenario si sia trasformato e occorrano risposte istituzionali se si vogliono preservare i principi guida della democrazia costituzionale, che a mio avviso erano, sono e restano la dignità della persona umana e la pace.

Il titolo del libro suona particolarmente evocativo: la democrazia costituzionale del Secondo dopoguerra è realmente la meno peggio forma di reggimento di cui l’umanità abbia fatto esperienza?
Chiaramente, come costituzionalista che è cresciuta e sta operando all’interno della democrazia costituzionale, anch’io corro il rischio di essere ‘catturata’ dal mio oggetto: nel senso di ritenere il mio il migliore dei mondi possibili. È un fenomeno frequente, ben noto non solo agli storici del pensiero, ma anche agli psicologi.

Tuttavia, vorrei dire in qualche modo a mia difesa che nella mia valutazione ho cercato di appoggiarmi sul lavoro degli storici delle istituzioni e su dati tangibili, elaborati da statistici, economisti, sociologi. Tre nomi tra tutti, alle cui opere rinvio: Kathryn Sikkink, Steven Pinker, Tony Judt. Una serie assai ampia di indicatori che ci mostra che, almeno in alcune parti del mondo, non sono mai stati raggiunti, in epoche precedenti, simili livelli di pace e di prosperità. Voglio sottolineare con forza le parole “in alcune parti del mondo”: cioè esattamente in quelle nelle quali la democrazia costituzionale si è radicata, che coincidono grosso modo con il mondo occidentale, che comprende l’Europa, il Nord America, l’Australia, benché ci siano anche tentativi in atto in altre aree, dal Giappone all’America latina, dal Sudafrica all’India. Questi indicatori ci mostrano che la democrazia costituzionale (non a caso chiamata anche democrazia pluralista), con la sua ampia dose di tolleranza, inclusione, redistribuzione, è riuscita a garantire a un numero elevato di individui un’esistenza dignitosa e pacifica. Per dirlo con le parole della Costituzione italiana, che proprio alla democrazia costituzionale appartiene, questa forma di organizzazione è riuscita a consentire “il pieno sviluppo della persona umana” a tanti individui, che sono stati liberi di seguire i propri percorsi di vita, senza doversi piegare alle esigenze dei gruppi di appartenenza o comunque di altri soggetti. Questo credo sia il portato più rilevante della democrazia costituzionale: la liberazione degli individui e delle loro energie, in contesti di benessere diffuso e di riduzione del tasso di violenza. Se posso aggiungere ancora una cosa, la democrazia costituzionale presenta diverse varianti e quella che mi pare più riuscita è quella europea. In confronto alla variante statunitense, essa si connota per una maggiore attenzione agli aspetti redistributivi, per un più intenso intervento del settore pubblico nell’economia e per il ruolo centrale riconosciuto al principio di solidarietà: si rifugge dalla concezione, così caratteristica del mondo anglosassone, del ‘diritto alla felicità’ quale sommo valore e della vita come una gara, dove si sale e si scende, per riconoscere invece i legami reciproci e la responsabilità che ogni individuo, proprio perché libero, ha verso gli altri.

Quali sono le cause profonde della crisi della democrazia costituzionale?
Come accennavo, le cause di questa crisi, intesa come punto di svolta, che richiede risposte, è la trasformazione del contesto nel quale le istituzioni della democrazia costituzionale si trovano immerse e in particolare la rivoluzione tecnologica. Volendo provare ad esaminarne alcune più da vicino, un primo aspetto da considerare è la globalizzazione economica: essa ha fatto venir meno lo spazio nel quale le decisioni politiche ed economiche erano assunte, cioè quello degli Stati. In altre parole, la democrazia costituzionale coincideva con lo Stato costituzionale: nel Secondo dopoguerra si è cercato di trasformare lo Stato, consentendo la convivenza pacifica del pluralismo, dopo le tragedie della prima metà del XX secolo, in cui i soggetti del pluralismo (non solo i lavoratori e i datori di lavoro, ma le diverse nazioni o etnie) si erano scannati a vicenda. Questo è accaduto grazie ad alcuni congegni istituzionali (come le costituzioni rigide accompagnate dalla giustizia costituzionale) e alle politiche sociali ed economiche redistributive e regolative. Ebbene, una volta che la globalizzazione ha sottratto agli Stati le grandezze economiche, spostando le decisioni economiche e finanziarie in luoghi remoti e assai oscuri come i mercati finanziari internazionali, e che la circolazione delle merci ha consentito a prodotti fabbricati laddove le tutele del lavoro sono nulle di sopraffare la produzione realizzata in presenza di maggiori tutele (e costo) del lavoro, è diventato impossibile per gli Stati usare le leve fiscali a scopi redistributivi: l’unica possibilità rimasta è stata quella di creare debito pubblico, ma questo alla fine li ha ulteriormente indeboliti, minandone la sovranità finanziaria e mettendoli nelle mani dei creditori internazionali. La globalizzazione è strettamente legata alla rivoluzione tecnologica, che l’ha enfatizzata e facilitata. Peraltro, la rivoluzione tecnologica ha avuto un impatto forte e diretto sul mercato del lavoro, facendo venir meno molte attività che erano state il perno dei sistemi produttivi successivi alla “seconda rivoluzione industriale”, quella ottocentesca, che a loro volta avevano prodotto le classi sociali, la classe operaia e la classe media impiegatizia, che avevano guidato la nascita dello Stato costituzionale, diventandone, attraverso i partiti politici di massa, i i protagonisti. E ha avuto un impatto diretto sulla democrazia stessa, creando nuovi poteri privati transnazionali avulsi da qualunque regolazione che hanno il monopolio non solo di importanti settori economici, ma di strumenti chiave di informazione e comunicazione (pensiamo ai cosiddetti ‘magnifici cinque’ del big tech: Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft).

Queste trasformazioni hanno contribuito a mettere in luce una serie di debolezze della democrazia costituzionale, a partire dal permanere di gravi diseguaglianze, sia interne agli Stati, che su scala mondiale. Nel senso che la protezione della dignità umana e le politiche redistributive hanno lasciato inscalfite innumerevoli situazioni di sofferenza e vulnerabilità, tra le quali spicca la povertà estrema, e finanche la fame, di milioni o miliardi di persone. Altro grave limite è l’incapacità della democrazia costituzionale di proiettarsi a livello sovranazionale. Nonostante la nascita dello Stato costituzionale nel Secondo dopoguerra sia andata di pari passo con la creazione di un sistema internazionale orientato al mantenimento della pace e alla tutela dei diritti, come mostra la fondazione delle Nazioni Unite nel 1945 e l’adozione della Dichiarazione universale nel 1948 (per cui lo Stato costituzionale si è fin dall’inizio configurato come “Stato costituzionale aperto”), tuttavia tale sistema non è riuscito ad assumere un vero e proprio carattere prescrittivo, ovvero vincolante per gli Stati. Qualche risultato in più è stato ottenuto a livello regionale (spicca in particolare l’Unione europea) ma si è ancora lontani da quel ripensamento della sovranità statale che invocava, ad esempio il Manifesto di Ventotene fin dal 1944. Proprio questa carenza è venuta clamorosamente in luce dopo il 1989, con la globalizzazione e le nuove tecnologie. Il costituzionalismo ha cercato anche stavolta di inseguire il potere, ma con risultati assai magri. In altri termini, la democrazia costituzionale continua a coincidere con lo Stato costituzionale e non riesce a trasferirsi su una scala territoriale più vasta. Di conseguenza, il costituzionalismo sta venendo meno alla sua missione, che lo caratterizza già dalla fine del Settecento e che era già al centro dello Stato liberale di diritto: limitare il potere garantendo i diritti. Infatti, il potere è migrato su una scala territoriale più vasta rispetto a quella statale… Guardie e ladri, potremmo sintetizzare.

Quali dinamiche segnano l’evoluzione attuale del «costituzionalismo globale»?
Nel libro, utilizzo l’espressione “costituzionalismo globale”, che di per sé ha diverse valenze, per designare la diffusione dello Stato costituzionale nel post-1989, quando il crollo del blocco sovietico ha fatto venire meno quello che era stato in precedenza il principale competitor, cioè lo Stato socialista. Per quasi tre decadi dopo la caduta del Muro di Berlino è sembrato che la democrazia costituzionale rappresentasse il modello a cui tendere in ogni angolo del mondo: in questo senso è stato affermato, un po’ precipitosamente, che si era giunti alla “fine della storia”. Abbiamo pertanto assistito a innumerevoli processi di democratizzazione, in ogni angolo del mondo, non solo nell’Europa centro orientale o in Stati nati dalla dissoluzione dell’ex Unione Sovietica, ma anche in America latina, Africa, Asia, nei quali l’obbiettivo era instaurare una democrazia costituzionale. Molteplici di queste transizioni sono state “internazionalmente guidate” o comunque condizionate dall’esterno, sia da organizzazioni internazionali che da Stati stranieri e alcune di queste sono state persino indotte con la forza, come nei famigerati casi di esportazione della democrazia con le armi da parte di alleanze di paesi occidentali guidate dagli Stati Uniti, ad esempio in Iraq ed Afghanistan, peraltro tentativi naufragati in un bagno di sangue. Potremmo dire che questa ondata di espansione si è spinta fino alle primavere arabe, delle quali l’unica esperienza che è riuscita a radicarsi resta quella tunisina, della quale parlo ampiamente nel volume, avendo avuto la sorte di partecipare a diverse fasi di questa transizione.

Tuttavia, negli anni più recenti, si è assistito ad alcuni fenomeni che hanno interrotto questo iniziale ed apparente cammino verso “magnifiche sorti e progressive”. Da un lato sono emersi nuovi potenti competitors, ovvero Stati non democratici che hanno mostrato di poter raggiungere importanti risultati nella garanzia dei diritti economici e sociali, con una certa soddisfazione dei loro cittadini. Si tratta soprattutto di alcuni regimi autoritari dell’Asia orientale, compreso quello cinese, che si sono posti esplicitamente come modelli alternativi alla democrazia costituzionale di stampo occidentale. Ne parlo nel prologo del libro: sono rimasta assai impressionata dalla domanda di un mio studente pachistano, che un giorno mi ha chiesto appunto perché per un paese come il suo sarebbe da preferire la democrazia costituzionale, rispetto a un modello come quello cinese che sembra capace di produrre benessere e prosperità.

Dall’altro, stiamo assistendo in molti paesi già democratici, sia di nuova democrazia che di democrazia stabilizzata (pensiamo agli Stati Uniti), a quella che viene definita “regressione democratica”, ovvero all’arretramento della democrazia costituzionale: una sorta di transizioni al contrario, nelle quali utilizzando gli strumenti giuridici previsti dall’ordinamento si svuota la democrazia costituzionale, essenzialmente attaccando il suo carattere pluralista in nome di una presunta unità del popolo (per questo si parla anche di “populismi”). Le maggioranze politiche democratiche, in altri termini, vantando la loro legittimazione popolare, tendono sempre più a sopraffare gli avversari e a liberarsi dai limiti dei quali la democrazia costituzionale le ha circondate. Altro che costituzionalismo globale! Direi che siamo invece di fronte a una potente ondata di riflusso, a un vero attacco contro la democrazia costituzionale, scatenato sia a livello statale che sul piano globale.

A distanza di oltre settant’anni dalla sua entrata in vigore, quanto è attuale la nostra Costituzione?
Grazie molte per questa domanda, perché coglie esattamente il cuore di quel che volevo dire in questo libro. La risposta è semplice: la Costituzione italiana è ancora pienamente attuale, nel senso che può dare un importante contributo, in termini di azione (ricordiamoci che l’etimologia di “attuale” è riconducibile al latino actus, da agere: fare, operare), in questa nuova epoca. Mi viene in mente un celebre intervento di Piero Calamandrei, il suo discorso per l’inaugurazione dell’anno accademico come Rettore dell’Università di Firenze, appena insediato nella città liberata, il 15 settembre 1944, dal titolo “L’Italia ha ancora qualcosa da dire”. Infatti, la Costituzione italiana è, come e forse più di altre costituzioni, il prodotto della temperie storica nella quale affonda le sue radici lo Stato costituzionale, un’epoca nella quale dopo le distruzioni e la barbarie si cercò di rifondare la convivenza umana. Oggi siamo chiamati a difendere gli acquis, le realizzazioni che questa Costituzione, in quanto parte di quel movimento più ampio che ho cercato di descrivere e che va sotto il nome di “democrazia costituzionale”, ha prodotto: non mi stancherò mai di ripetere che abbiamo molto da difendere! Abbiamo ricevuto un’eredità preziosa: un’eredità che è comprovata da innumerevoli dati e indicatori ma che, chissà, ciascuno di noi potrebbe leggere nella trama della propria storia familiare. Inoltre, aggiungerei, che siamo chiamati altresì ad attuare alcuni aspetti di questa Costituzione che erano ben chiari ai costituenti, nella forza visionaria e profetica che li ha connotati, ma che poi per varie ragioni non sono stati pienamente sviluppati. Penso in particolare all’articolo 11 della Costituzione italiana, che prefigura un ordinamento internazionale guidato dai principi di “pace e giustizia tra le Nazioni”, al quale gli Stati devono orientare la loro politica estera fino a limitare la propria sovranità.

Quale futuro, a Suo avviso, per lo Stato costituzionale?
In conclusione, vorrei ribadire che considero lo Stato costituzionale un’eredità preziosa che abbiamo ricevuto e che siamo chiamati a custodire, adattandolo alla nuova epoca. Questo implica però la capacità di passare dallo Stato costituzionale alla democrazia costituzionale: ovvero di portare quei principi organizzativi che le costituzioni del Secondo dopoguerra, tra cui la nostra, hanno posto, sul piano regionale e globale. Pertanto, per noi in Europa, ciò implica un ulteriore avanzamento del processo di integrazione europea, una integrazione che dovrebbe fare suoi pienamente i principi, anche sociali, della democrazia costituzionale. Quel che fin qui non è pienamente accaduto, va detto. Su scala globale è necessario un salto di qualità ancora più marcato, dato che attualmente le organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite sono prive di effettivi poteri vincolanti. Mi pare che la terribile vicenda del COVID-19 che abbiamo vissuto in questi mesi ci mostri una volta ancora la sfasatura che esiste tra dato fattuale, ovvero fenomeni sempre più globali, e risposta giuridica, che resta di solito ancorata al livello statale. La pandemia (anche con il suo solo nome!) ci ha posto di fronte a una realtà che, finora, avevamo fatto in modo di non vedere: viviamo in quella che Ulrich Beck ha chiamato “la società globale del rischio”. Rischi finanziari, economici, connessi ai flussi migratori, al terrorismo globale, al riscaldamento climatico, alle epidemie. È emblematico che un piccolo evento che coinvolge pipistrelli e pangolini in una remota provincia cinese diventi la più grande catastrofe dal dopoguerra. Mentre questi fenomeni, questi fatti, accadono, il diritto stenta a dare risposte. Eppure gli scienziati lo dicono da tempo: al punto che gli studi di “Global Health” sono assai diffusi. Invece, nonostante gli sviluppi vertiginosi degli scambi di persone e cose degli ultimi trent’anni, la risposta giuridica è affidata a strumenti ‘vecchi’, o, se vogliamo essere più benevoli, antichi, cioè alle organizzazioni internazionali mondiali costruite nel Secondo dopoguerra, in particolare l’Organizzazione mondiale della sanità, che si muovono con tutti i limiti di questo tipo di istituzioni. Ovvero i loro atti non sono vincolanti nei confronti degli Stati, si collocano generalmente in quella zona grigia che i giuristi chiamano soft law. Insomma, benché con la globalizzazione il carattere (da sempre) ‘aterritoriale’ dei virus sia stato enfatizzato, la geografia del potere, che si basa (ancora) sui confini statali, è del tutto inadeguata a garantire il diritto alla salute di fronte a una pandemia, se non attraverso misure emergenziali di contenimento, che in sostanza consistono nella limitazione di altri diritti. Anche in questo campo siamo chiamati a fare un salto, cioè a spostare la scala territoriale delle risposte. In definitiva, se crediamo ancora nella democrazia costituzionale, per lo meno come la “menopeggio” tra le forme di organizzazione della convivenza umana delle quali disponiamo, è in questa direzione che siamo chiamati a lavorare. Senza voler essere catastrofista, temo che in caso contrario, sarà assai difficile che riusciamo, a nostra volta, a lasciare qualcosa di buono in eredità alle generazioni future.

Tania Groppi è professoressa ordinaria di Istituzioni di diritto pubblico nell’Università di Siena (dal 2001). Tra le sue pubblicazioni, oltre ai 200 articoli e a molteplici volumi di cui è autrice o curatrice, si ricordano: “Federalismo e costituzione. La revisione costituzionale negli stati decentrati” (Giuffré 2001); “Il federalismo” (Laterza 2004); “Canada” (Il Mulino 2006); “Le grandi decisioni della Corte costituzionale italiana” (ES, 2010); “Introduzione al diritto pubblico e alle sue fonti” (con Andrea Simoncini, Giappichelli, 2011, ultima edizione 2019); “Menopeggio. La democrazia costituzionale nel XXI secolo” (Il Mulino, 2020).

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