“«Men in arms». Insorgenza e contro-insorgenza nel mondo moderno” a cura di Alessandro Bonvini

Dott. Alessandro Bonvini, Lei ha curato l’edizione del libro «Men in arms». Insorgenza e contro-insorgenza nel mondo moderno, edito dal Mulino: quali forme hanno assunto guerriglia e contro-guerriglia in età tardo-moderna?
«Men in arms». Insorgenza e contro-insorgenza nel mondo moderno, Alessandro BonviniA partire dalla crisi globale di metà Settecento, guerriglia e contro-guerriglia hanno assunto forme molteplici a seconda dei teatri geografici, sociali e politici di riferimento. In America Latina, ad esempio, durante le guerre di indipendenza, la natura dei due fenomeni ha rispecchiato il carattere civile del conflitto, nonché la pre-esistenza di forme privatistiche di potere militare che si sono adattate, di volta in volta, alle logiche operative dei comandi, spesso anche cambiando di schieramento. In Corsica, invece, e in parte nella Grecia ottomana, a riflettersi nella lotta rivoluzionaria sono state le pratiche di una lunga tradizione di banditismo anti-statuale, assai radicata nei settori rurali e pastorali delle rispettive società. Similmente, in Europa centro-orientale, la presenza diffusa di combattenti non regolari è servita da serbatoio per ingrossare, specialmente nelle fasi a più alta conflittualità, le file di milizie locali ed eserciti nazionali. In Italia meridionale, ancora, la reazione all’occupazione napoleonica ha compattato precedenti appartenenze sociali e affiliazioni territoriali, con la conseguente adozione di misure repressive particolarmente violente. In Africa e in Asia, infine, la violenza irregolare si è misurata con l’incidenza di fattori etnico-religiosi, assumendo così i contorni del vero e proprio scontro di civiltà. A derivarne è una tipologia assolutamente multiforme, connotata da criteri di adattabilità al contesto, elasticità organizzativa e versatilità operativa: tutti fattori che hanno marcato la lunghissima storia globale della guerriglia e della contro-guerriglia.

In quale contesto sociale e politico maturarono i fenomeni di insorgenza e contro-insorgenza politica che costellarono la storia del XIX secolo?
A livello mondiale, il XIX secolo fu un periodo di relativa stabilità. A eccezione della guerra di Crimea e della guerra della Triple Alianza, in America meridionale, la fase compresa tra il Congresso di Vienna e l’inizio della Belle Époque non fu caratterizzata da rilevanti conflitti internazionali. È in questa prospettiva che, nel 1944, lo storico ed economista ungherese Karl Polanyi ha applicato la categoria di “pace dei cento anni’. Ciononostante, il lungo Ottocento è stato marcato da una notevole diffusione di violenza politica. Prima l’età delle rivoluzioni, poi l’ascesa dei moderni stati-nazione e, infine, l’era dei conflitti coloniali produssero una moltiplicazione dei fenomeni di lotta e conquista per la sovranità o resistenza al potere. Insorgenza e contro-insorgenza si sarebbero così diffuse a tutte le latitudini e longitudini del pianeta. Naturalmente, tali processi non furono esclusivi dell’epoca moderna. Repubbliche marittime, stati feudali e formazioni imperiali di antico regime hanno avuto una lunga storia di impiego e delega della violenza ad attori irregolari. Però, a partire dalla metà del Settecento, furono la messa in discussione dell’autorità tradizionale, così come la ri-articolazione dei criteri di monopolio della forza pubblica, ad accentuare la rilevanza, il protagonismo e l’influenza dei cosiddetti “men in arms” nelle società moderne e contemporanee.

Chi ne furono i principali attori?
Bandoleros, briganti, cossacks, gauchos, haiduks, partigiani e milizie. L’articolata nomenclatura della categoria di “combattente irregolare” restituisce tutta la complessità del fenomeno. E figure come quelle del tirolese Andreas Hofer, il popolano spagnolo Juan Martín Díez, detto El Empecinado, il bandito confederato William Anderson, l’emiro musulmano Abd el-Kader o il repubblicano dominicano Máximo Gómez sono solo alcune dell’ampia genealogia degli uomini in armi non regolari che popolarono il lungo Ottocento. Senza dubbio, i singoli teatri d’azione, con il proprio portato di consuetudini sociali, prassi politiche e tradizioni storiche impressero forme e caratteristiche distintive a un fenomeno già di per sé strettamente legato alla diade popolo-territorio. Tuttavia, è possibile delineare una classificazione generale, utile soprattutto in chiave comparativa a decifrare i profili dei grandi capi dell’insorgenza tardo-moderna. Quasi sempre si è trattato di figure carismatiche, in grado di esercitare leadership e capacità di comando, abili a negoziare sia in tempo di guerra che in tempo di pace, e con un forte senso di appartenenza rispetto alla società di provenienza. Spesso hanno esibito indiscusse doti di mobilitazione popolare, nonché una certa preparazione nel reperire, gestire e investire risorse economiche e finanziarie. Né tantomeno hanno disdegnato il ricorso a narrazioni religiose e simboliche dall’alto valoro performativo, necessarie a cementare l’identità degli stessi gruppi insorgenti. Non meno rilevante, infine, è la possibilità di adattare questo set di caratteristiche e peculiarità anche a influenti capi della contro-insorgenza, quali Louis Eugène Cavaignac o Emilio Pallavicini di Priola. Generali e ufficiali che, nello svolgere attività di repressione ordinaria e straordinaria, hanno elaborato vere e proprie dottrine militari, decisive anche nel condizionare le modalità dei conflitti in corso e ispirare l’architettura delle nuove istituzioni.

Che impatto ha avuto la piccola guerra nella costruzione della statualità?
L’impatto della piccola guerra nei processi di costruzione statuale e nazionale è un tema assai dibattuto dalla recente storiografia. Per lungo tempo, infatti, sulla scia del paradigma del “primitive rebel”, i capi guerriglieri di età moderna sono stati interpretati alla stregua di banditi sociali o ribelli, le cui azioni erano plasmate da una visione di rivolta radicale, anche se arcaica, condotta in nome dei poveri, degli oppressi e dei diseredati. La revisione di questa tesi, invece, ha sottolineato i rapporti tra insorgenti ed élite, evidenziando come spesso le prime vittime della piccola guerra fossero proprio contadini, pastori e ceti rurali, invece che proprietari terrieri o borghesi. Oltre la classica narrativa di anarchia hobbesiana, quindi, gli studiosi hanno iniziato a interpretare le modalità attraverso cui gli attori armati non statali si sono impegnati, assieme ad altri gruppi sociali, nella costruzione dello stato e della nazione. Storicamente, infatti, dall’America all’Asia, gli stessi guerriglieri sono stati spesso compartecipi del consolidamento degli apparati istituzionali, dei meccanismi di turnover militare-politico e politico-militare e delle funzioni di controllo, difesa e salvaguardia dell’ordine pubblico, finendo per attivare dei veri e propri processi di politicizzazione o per essere cooptati dalle autorità sovrane in carica.

Che nessi esistevano tra guerra irregolare e governance?
Pur ricorrendo alla violenza, con vari livelli di intensità e professionalizzazione, i “men in arms” irregolari non hanno esercitato un uso esclusivo della coercizione nei confronti della popolazione civile o dell’autorità ufficiale. Per legittimare la propria agenda, al contrario, hanno fatto ricorso a narrazioni simboliche, morali e religiose, impegnandosi nell’attivismo sociale, governando direttamente parti del territorio oppure stabilendo un proprio stato parallelo all’interno dello stato legittimo e riconosciuto in cui agivano. Il loro apporto è stato spesso decisivo e, in alcuni casi, addirittura sorprendente. In un eccezionale studio sul banditismo e le mafie nel Giappone di fine secolo, ad esempio, Eiko Maruko Siniawer è tornata sul paradigma del ribelle primitivo. Mettendone in discussione l’approccio teorico, ha spiegato che, sin dal 1860, la violenza fu incorporata nelle pratiche della politica giapponese moderna che l’influenza dei gruppi armati non statali fu assai importante per lo sviluppo del capitalismo imprenditoriale e l’avvio delle avventure imperiali del Giappone in Asia orientale. Oltre a minare le forme tradizionali di risoluzione del conflitto ed erodere reti economiche consolidate, è possibile verificare, quasi paradossalmente, la spinta degli attori armati non regolari nel facilitare percorsi di mobilità sociale tra i membri delle classi inferiori. Tali trasformazioni hanno avuto importanti conseguenze sulla vita dei comuni civili, sulle dinamiche di penetrazione capitalistica e sulla modernizzazione di determinate istituzioni in molte parti del mondo. Un aspetto, tutt’altro che secondario e che testimonia gli effetti di lunga portata di un fenomeno, quale la violenza politica, ancora fondamentale per comprendere il tempo presente.

Alessandro Bonvini è assegnista presso la Scuola Superiore Meridionale, Napoli. È stato Max Weber Fellow presso l’European University Institute e borsista presso l’Istituto Italiano per gli Studi Storici. Ha pubblicato vari saggi di storia globale e storia politica del XIX secolo. È autore del libro: Risorgimento atlantico. I patrioti italiani e la lotta internazionale per le libertà (Roma-Bari, Laterza, 2022).

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