
Che rapporto esisteva fra vita vissuta e memoria durante le accelerazioni rivoluzionarie?
Il rapporto è molto interessante. I giovani che aspirano ad un “mondo nuovo” si muovono su basi friabili. Rifiutano il passato, che secondo loro è un tappeto d’errori. Nello stesso tempo, però, devono collocarsi nello spazio e nel tempo, non sono alieni venuti da Marte. Mazzini, faticosamente e per aggiustamenti progressivi, prova a configurare una “memoria generazionale” che sia funzionale all’azione ma che consenta anche ai suoi giovani adepti di sopravvivere, nel momento in cui l’azione fallisce. Per questo punta sulla contrapposizione giovani/vecchi (la Giovine Italia), ispirandosi al caso francese; alla quale aggiunge l’idea – che però declina quasi subito per eccesso di complicazione intellettuale – di un “partito religioso”, in grado, attraverso la “fede”, di dare stabilità a una cosa instabile e mutevole per definizione: la politica. I suoi seguaci, costretti come lui all’esilio, lo aiutano tuttavia a cercare una via narrativa più efficace: è quella del martirio per l’unità d’Italia, che mette insieme le vittime del 1820-21 con quelle del 1831-34, i moti costituzionali nel Mezzogiorno e in Piemonte con i primi moti nazionali. Mazzini non vorrebbe, a lui piacerebbe dire che prima della Giovine Italia c’era stato solo il fallimento e l’errore; sono i suoi giovani amici che, ritrovandosi in luoghi sconosciuti, dalla Svizzera all’Inghilterra, all’America del Sud, con altri italiani arrivati prima di loro, strutturano un ricordo comune, al quale lo stesso Mazzini si rassegna e che darà poi vita alle prime cronologie patriottiche, che dopo il 1848, in forma peculiare, il Piemonte sabaudo farà proprie, rendendole “vincenti”. A noi oggi esse paiono banali, ma all’epoca erano tutt’altro che scontate. Mi sono occupato, naturalmente, di documentare questi passaggi, che non sono fatti solo di parole, ma anche di oggetti: litografie, medaglie, memorie “portatili”. Non è facile ricostruire con precisione una storia clandestina, ovviamente testimoniata da frammenti: spero di esserci riuscito con efficacia. Lo storico ha il compito primario di dar conto dei contesti con dovizia di dettagli e di prove, se no è solo un narratore di storie, più o meno riuscite.
Come si articolò la costruzione di una visione nostalgica della lotta per l’indipendenza italiana?
I fallimenti producono nostalgia, inevitabilmente. Nostalgia per ciò che si è perduto, per i momenti in cui si sarebbero potute compiere scelte diverse. La nostalgia, per chi pensa alla memoria come a uno sprone all’azione, è naturalmente un sentimento pericoloso: c’è il rischio di abbandonarsi, di rinunciare alla lotta. Per questo il gioco psicologico è decisivo: Mazzini utilizza la nostalgia per rilanciare la militanza, e quindi renderla funzionale all’azione, come si diceva. Se prendiamo, a distanza di qualche decennio, un altro caso, quello di Carducci, che pure si situa nel filone democratico-risorgimentale, possiamo osservare, ancora in un contesto di forte mobilitazione (per l’allargamento del suffragio politico: siamo fra il 1878 e il 1882), una nostalgia che alimenta, invece, un sentimento di inadeguatezza irrecuperabile da parte degli epigoni rispetto ai precursori, ai “grandi eroi”. Con effetti imprevedibili, addirittura sbandati sul lato di quella che oggi chiameremmo l’“antipolitica”, nutrita, allora come oggi, da dosi abbondanti di moralismo. Io credo che il pensiero politico di Carducci, di solito reso un po’ schematicamente, come quello di Mazzini del resto, si possa leggere assai meglio utilizzando strumenti concettuali come l’antipolitica e l’antiparlamentarismo, forgiati – questo è interessante – non a “destra”, come ci si potrebbe aspettare, ma a “sinistra”, nel crogiuolo dell’esperienza garibaldina. L’attività di Carducci in quel periodo, e non solo le sue idee, sono mosse da questo ago magnetico, che il successivo bisogno di standardizzare un’appartenenza (Repubblicano? Progressista? Monarchico? Crispino?) ha poi obliterato fino ad oggi, rimuovendolo del tutto. Ma le fonti, a leggere con attenzione, sono assai esplicite.
In che modo nei diversi piani, visionario, politico-strumentale, personale, cospirativo ed evocativo, memoria e nostalgia intersecarono la sfida nazionale?
Ho provato ad utilizzare una fonte del tutto originale: le rappresentazioni geopolitiche elaborate da Mazzini dal 1833 al 1871. Siamo abituati a pensare che l’Apostolo dell’Unità avesse conservato punti di vista inalterati, ma non è così: il contatto con la realtà esterna, in particolare col mondo britannico, cambiò moltissimo il suo modo di “vedere” l’Europa e, di conseguenza, anche le caratteristiche del suo progetto rivoluzionario. In un primo tempo, ad esempio, la sua cultura d’origine gli aveva impedito di “leggere” il mondo slavo, che sarebbe divenuto centrale nella sua visione continentale dagli anni Quaranta in poi. Ho poi comparato queste oscillazioni con le forme della comunicazione geopolitica disponibili sul mercato editoriale in quel periodo, e quindi con la costruzione degli stereotipi popolari con cui Mazzini si trovò a fare i conti, in particolare dal decennio Cinquanta. Ne esce, credo, uno spaccato interessante, dove medium e messaggio si rinnovano e si riprofilano di continuo. È chiaro che si tratta di operazioni di memoria: bisogna, in ogni caso, dare un senso ideologico pure alla geografia, disciplina sofisticata, non per analfabeti, ma utilissima nel momento in cui la scuola pubblica dà gli strumenti per comprenderla. Per compiere con successo questa operazione si pesca nel tempo, alla ricerca di un passato da riportare in vita, nostalgicamente: la grande Polonia del Quattrocento, la grande Grecia bizantina, e così via. Non lo fanno solo gl’italiani. Lo fanno davvero tutti. La posta in gioco, del resto, è alta: la stabilizzazione del consenso negli stati-nazione o la creazione di una forte motivazione ideologica etnocentrica in quelli che sono destinati a diventarlo. Mi sono poi spostato cronologicamente ancora una volta, e ho provato a verificare, questa volta in Italia, avendo come oggetto il patrimonio paesaggistico, un analogo percorso “costruttivo”: non solo sotto il profilo del racconto (in versi ad esempio: è il caso ancora di Carducci), ma della successiva, conseguente, difesa e tutela degli spazi circonfusi da questa aura. Da tutto ciò credo esca un’immagine del Risorgimento e dell’immediato post-Risorgimento molto diversa dalla tradizione, anche se mi concentro su figure “classiche” come Mazzini e Carducci, delle quali si presume di conoscere quasi tutto. Insomma, il nesso fondamentale per me è sempre pensiero-azione, e poi proseguo con la contestualizzazione rigorosa dei processi culturali e di quelli politici, e infine con la verifica puntuale delle fonti. Questa, del resto, è la lezione alla quale conviene attenersi, per non rischiare di cadere nella tautologia, nell’insignificanza della domanda di partenza o nell’autoreferenzialità del ricercatore. Per lo storico sarebbe un peccato mortale.
Roberto Balzani è Professore ordinario di Storia contemporanea, presso l’Università di Bologna. È stato Preside della Facoltà di Conservazione di Beni culturali (2008-2009). Fa parte del Comitato direttivo della rivista “Il Risorgimento” di Milano e del Comitato di direzione della “Rassegna Storica del Risorgimento” di Roma. Collabora al supplemento letterario del “Sole 24 Ore”. Dal 2015 dirige il Sistema Museale dell’Università di Bologna; dal 2017 è responsabile scientifico dell’Archivio Storico dell’Università di Bologna. Dal 2020 fa parte del Comitato Scientifico dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma.