
In che modo il romanzo di Herman Melville è riemerso dalla semioscurità cui sembrava condannato per imporsi come classico?
Per dirlo con una formula sintetica, la “riscoperta” di Moby-Dick si deve in larga misura all’avvento di una sensibilità modernista nelle arti e nella letteratura dei primi decenni del secolo scorso. Quello che sino a quel punto era stato percepito come un procedere narrativo incerto e confuso, poteva essere riletto come sperimentalismo. E gli aspetti che sul piano morale avevano agitato alcuni dei recensori ottocenteschi dell’opera non erano più un ostacolo alla sua elevazione a classico letterario. Una generazione che abbracciava D.H. Lawrence e James Joyce, era ovviamente assai più disposta a mettere da canto preoccupazioni morali per dare invece risalto agli aspetti formali e innovativi dell’opera. Accanto a questi fattori si devono poi porre trasformazioni più generali di natura storica e geo-politica. All’indomani della Prima guerra mondiale gli Stati Uniti emergono sullo scacchiere mondiale come una grande potenza e questo ha inevitabili ripercussioni sul piano culturale. Vengono a cadere gli atavici complessi di inferiorità nei confronti delle letterature europee, e in primis nei confronti di quella inglese.
Qual è stata la genesi del romanzo e quale ricezione ha avuto sin dalla sua pubblicazione?
Il romanzo è stato scritto nello spazio di circa diciotto mesi. L’ipotesi più probabile è che in corso d’opera Melville abbia via via aggiornato e ampliato il suo progetto, anche se la dinamica esatta delle riscritture e dei ripensamenti è difficile da stabilire, in quanto il manoscritto originale non ci è pervenuto. Questo ha favorito la messa in campo di una serie di ipotesi diverse, basandosi sia su evidenze interne al testo, sia su fattori extra-testuali, in primis le lettere di cui siamo a conoscenza. Quanto alla ricezione dell’opera all’indomani della sua pubblicazione, non si può dire che sia stata monocorde. Accanto a stroncature divenute celebri per quella che a noi non può che apparire come una scandalosa cecità, ci furono recensioni positive e altre ancora che possiamo definire “miste”, ma che sollevavano problemi reali, soprattutto circa la struttura dell’opera – problemi che poi hanno continuato a essere discussi dalla critica melvilliana sino a oggi. Quel che è sicuro, però, è che le vendite furono molto deludenti. Il libro fu ignorato dalla gran parte dei lettori del tempo.
A quale genere letterario è riconducibile il romanzo di Herman Melville?
Moby-Dick è un romanzo, ma un romanzo assai diverso dai classici dell’Ottocento, per tutta una serie di eccentricità formali e strutturali. Ha un narratore in prima persona che però non può realisticamente essere testimone di tutto quanto viene narrato; poi contiene tracce importanti di quello che Sergio Zatti ha utilmente definito il “modo epico”, il che vuol dire che pur non essendo un’epica nel senso omerico del termine, può essere in parte classificata come un’epica “moderna” o, nella proposta di Franco Moretti, come un’ “opera mondo” con ambizioni esagerate – con l’ambizione di essere un’epica in tempi che non sono più in alcun modo omerici. Inoltre, il discorso narrativo fa ricorso a forme diverse: il resoconto autobiografico, quello saggistico, quello del racconto morale e allegorico, la narrativa di viaggio, la meditazione filosofica, e così via.
Come è fatto Moby-Dick?
Il romanzo è per l’appunto il risultato di un “assemblaggio” di queste diverse forme e tradizioni letterarie. E ovviamente, a seconda della prospettiva estetica che si assume, questo costrutto narrativo può essere percepito come caotico, come “meccanico”, oppure come romanticamente “organico”. Le ipotesi si escludono a vicenda, ma essere oggettivi su questa materia è più complesso di quanto si possa pensare. I problemi formali vanno sempre coniugati con la prospettiva di lettori storicamente condizionati. E dunque, a seconda del punto di vista, il testo può poi essere più o meno utilmente segmentato in “blocchi” narrativi diversi.
Quali caratteristiche hanno i personaggi del romanzo?
Le tre figure principali sono, ovviamente, Ahab, Ishmael e la Balena Bianca, che se non è “personaggio” in senso stretto, è certamente un “attante” di primaria importanza. Ahab è palesemente ispirato agli eroi tragici del teatro elisabettiano, e in primis shakespeariano, e il suo incedere ha connotati epici. Ishmael è viceversa una coscienza in viaggio, una sorta di esemplare quester, di “cercatore” in un mondo abbandonato dal divino, per dirla con il Lukacs della Teoria del romanzo. Accanto a loro troviamo una ciurma composta di “selvaggi” e proletari del mare, e da tre ufficiali che incarnano modalità diverse di porsi di fronte ai misteri e ai dilemmi della vita. Si spazia dunque da registri tragici e quasi mitologici a bozzetti dal sapore dickensiano, anche se poi il realismo di Melville ha caratteristiche tutte sue, che spesso trascolorano in direzione simbolica.
Quali linguaggi e tematiche caratterizzano Moby-Dick?
Dei linguaggi credo di aver detto: sono diversi e molteplici, e spaziano dal filosofico allo scientifico, dal teologico al politico, dal tragico al comico. Seguono, in altre parole, la varietà delle forme di discorso impiegate da Melville. Quanto alle tematiche, sono anch’esse numerose. La ricerca del significato dell’essere e del mondo, la violenza con cui si risponde a ciò che non si riesce a comprendere, il desiderio di dominio e la frustrazione ripetuta di tale desiderio, la crisi della fede, la crisi delle forme narrative con cui dare conto dell’avventura umana, il mistero della creazione e della natura, la “natura della natura”, il senso e il destino della comunità, intesa sia a livello nazionale sia a livello globale: questi sono, sinteticamente, alcuni dei punti focali di una narrazione che può essere declinata in modi diversi, a partire da ansie e preoccupazioni differenti.
Quali diverse interpretazioni ne ha offerto la critica?
Sul finire degli anni ’50 un celebre critico americano osservò scherzosamente che la fiorente industria baleniera del New England era stata rimpiazzata da una “industria” critica che sfornava a getto continuo nuove interpretazioni di Moby-Dick. Questo è avvenuto (e l’industria melvilliana è continuata a crescere in modo esponenziale negli ultimi decenni) perché il romanzo ha una struttura modernamente allegorica: suggerisce cioè, una serie di possibili codici interpretativi per dare conto delle vicende narrate, senza però privilegiarne uno in particolare. Quelle che un critico italiano come Romano Luperini credo definirebbe come “allegorie vuote” o “semi-vuote”, sono suscettibili di essere “riempite” da critici e lettori a partire da una miriade di diverse angolature concettuali: politiche, filosofiche, teologiche, estetiche. Non è possibile riassumere l’enorme quantità di letture che sono state offerte del romanzo. Semplificando, mi sentirei però di dire che se da un lato ci si interroga sul significato della caccia di Ahab alla Balena Bianca, dall’altro la critica ha dedicato molti dei suoi sforzi a spiegare l’antagonismo implicito nella contrapposizione tra Ahab e Ishmael. I due non si parlano né tantomeno si scontrano mai nel romanzo, ma una tensione tra la visione del mondo dell’uno e dell’altro è palpabile, anche se poi per alcuni questa tensione è netta, inequivocabile e inconciliabile, mentre per altri i due personaggi sono meno lontani l’uno dall’altro di quanto spesso si creda.
Giorgio Mariani è professore ordinario di Lingue e letterature anglo-americane presso l’Università Sapienza di Roma. Si è occupato prevalentemente di letteratura americana dell’Ottocento, del rapporto tra guerra, violenza e letteratura, di letteratura indiano-americana contemporanea. Tra i suoi ultimi libri si ricordano Leggere Melville (Carocci, 2013) e Waging War on War; Peacefighting in American Literature (University of Illinois Press, 2015).