
Roma deve ormai piegarsi al suo volere e accettare che lui, e lui solo, sia l’unico legittimato a deciderne il destino. L’affermazione della sua potenza, però, si rivela ‑ nel momento stesso in cui viene manifestata ‑ la ragione primaria della diffidenza dei suoi confronti. Così, le stesse persone, che inizialmente l’avevano esaltato, si trovano sconcertate dalla manifestazione della sua autocrazia. In questo senso, gli eventi rappresentati nel melodramma dipendono sì dalla figura di Silla ma non sono direttamente conseguenza delle sue azioni. Chiarendo il concetto: è la stessa presenza, opprimente e terribile, del protagonista a rappresentare una sorta di ‘primo motore immobile’ che, inducendo il movimento negli altri personaggi, li fa agire in una sorta di riflesso (uguale e) contrario rispetto alle sue intenzioni.
Su altro piano si colloca, invece, Metella, la moglie di Silla. A lei è riservata una autonomia di azione e, soprattutto, di giudizio del tutto particolare. Il suo carattere, infatti, risulta definito con molta maggiore accuratezza di quello del altri, tanto che l’ amore per Silla non viene mai meno, anche di fronte alle atrocità (assolutamente prive però, nella rappresentazione drammaturgica, di esiti nefasti) minacciate dal dittatore. È lei, in sostanza, l’unico vero ‘contrappeso’ alla forza centripeta di Silla: la donna che continua ad amarlo nonostante tutto; colei che lo salva dal naufragio materiale di un’imbarcazione e dal fallimento figurato di un’esistenza; la compagna che lo presenta alla salvifica divinità del finale e che lo segue in un happy ending sia pure illogico e messo in scena solo per ossequio alla necessaria felice conclusione dell’opera seria.
Come si sviluppa la trama nei due libretti di Andrea Rossini e Giacomo Rossi?
Non è facile condensare in poche battute lo sviluppo, fin troppo articolato, della trama nei libretti di Andrea Rossini da un lato e di Giacomo Rossi dall’altro. Sono convinto, d’altra, che sia più utile provare ad individuare alcune linee di continuità e discontinuità fra le due versioni. Fra le prime, si possono segnalare la complessità degli intrecci amorosi che, come in gioco di specchi, intervengono fra i personaggi maschili e femminili del dramma, ai quali corrisponde, in senso negativo, il desiderio carnale di Silla che, invece, sembra privo di reale coinvolgimento emotivo. Vi è poi il tratto della persistenza del sentimento fra gli amanti, che si contrappone alla violenza distruttiva di Silla. Comune al libretto di Rossini e a quello di Rossi è, ad esempio, la scelta d’amore della coppia Pompeo ed Emilia che preferiscono morire insieme piuttosto che vivere lontano l’uno dall’altra.
Dove, invece, vedo una rilevante differenza è nella presenza, nel solo libretto di Rossini, della coppia comica di Breno e Carilda che agisce da contrappunto a tutte le altre. I loro travestimenti e il rapido scambio di battute salaci (spesso con evidenti doppi sensi) conferiscono all’azione scenica un tono farsesco e, per certi versi, assolutamente anacronistico rispetto al periodo (per quanto fantasioso e stereotipato) nel quale è ambientata la vicenda. Gli spettatori hanno, così, l’occasione di riconoscere nei dialoghi una contemporanea vena carnevalesca, che permette loro di spezzare la tensione drammatica, altrimenti fin troppo accentuata. Breno e Carilda, in sostanza, partecipano a modo loro (attraverso, cioè, il registro popolare, giustificato dalla condizione servile) alle vicende del dramma, spesso in una forma che traduce lo stato sentimentale dei personaggi seri in una ‘parallela’ maniera comica.
Il libretto di Rossi, pur senza l’interruzione di questi intermezzi, non acquista però linearità narrativa o coerenza strutturale. Spesso, soprattutto nel terzo atto, l’intervento di complesse e fantasmagoriche scenografie è fine a se stesso (anche a considerare il probabile riutilizzo di macchine sceniche, impiegate in opere precedenti). O meglio, serve ad indurre nel pubblico un senso di stupore, pagato con l’incongruenza e l’assoluta gratuità della successione degli eventi narrati. Ma certo – e questo va detto nella maniera più chiara possibile – non è certo la coerenza dello sviluppo logico o la precisione del disegno del carattere dei vari personaggi o le sfumature dell’analisi psicologica che si possono pretendere dal libretto di Rossi. Il suo merito più grande (ed in fondo, unico) è quello di essere considerato il mezzo espressivo, attraverso il quale prende corpo verbale l’eccezionale attitudine haendeliana alla costruzione melodica. L’aderenza o il distacco della musica dal testo è sempre giustificata dall’emozione provocata nell’ascoltatore, di modo che anche il senso di luminosa felicità o di ombrosa malinconia sono affidate alle note e la parola rappresenta semplicemente l’occasione per la traduzione in musica di quei sentimenti.
La rinuncia di Silla al potere, nel 79 a.C., costituisce un enigma storiografico: quale lettura ne offre il deus ex machina del melodramma?
In una parola (l’unica ammissibile nel contesto di quel melodramma): sovraumana. Soltanto un intervento divino, nell’assolutezza della sua efficacia, può interrompere l’altrettanto assoluta volontà umana di Silla. Non un’incertezza, non un ripensamento né, tantomeno, un senso di colpa per il male che si progetta di infliggere o un rimorso per quello già inflitto: l’animo di Silla è strettamente bidimensionale. Modellato cioè solo sul metro del proprio piacere, che trova nel potere la fonte della sua attuazione ed il fondamento ‘morale’ per il suo perseguimento. Proprio questo tratto di rigida univocità ne costituisce anche il limite maggiore, dal punto di vista della riuscita artistica del personaggio: minandone radicalmente la credibilità umana. Ma ‑ ed anche questo vorrei mettere in risalto ‑ la mancanza di spessore interiore è anche assolutamente funzionale allo sviluppo del dramma. Se, come si diceva, Silla è il ‘motore immobile’ dal quale si irradia l’azione scenica, non può pretendersi che agisca: neppure in maniera figurata; neppure per dimostrare un mutamento d’animo o una incrinatura nella voluntas nocendi. Il naufragio (episodio, anche questo, del tutto immotivato nell’economia della narrazione e magari inserito soltanto per dar modo di utilizzare taluni ‘effetti speciali’) rappresenta l’anticipazione materiale della, poco successiva, conversione spirituale: entrambi fattori esterni a Silla ed entrambe cause che, proprio per la loro natura sovraumana, sarebbero state le uniche in grado di arrestare il ‘moto’ del protagonista.
Al di là, però, dell’intervento salvifico del deus ex machina, l’episodio manifesta chiaramente la grande difficoltà ‑ drammaturgica e storica insieme ‑ di dover spiegare le ragioni di una scelta personale di Silla che, come meravigliava i suoi contemporanei, così non cessa di interrogare ancora gli studiosi di oggi: perché rinunciare al potere così repentinamente, quando all’orizzonte non sembravano profilarsi (almeno immediatamente) rischi di perderlo e quando poi così tanti sforzi e dolore aveva comportato la sua acquisizione?
D’altra parte, la prova della persistente irrisolutezza della domanda è testimoniata dall’estrema oscillazione nelle risposte fornite dalla moderna storiografia: dalla considerazione di Silla come un ‘monarca mancato’, alla sua identificazione come ‘l’ultimo dei repubblicani’. Da un limite ad un altro.
Allora, forse, l’espediente dell’intervento del deus ex machina recupera ‑ pur, ovviamente, nel contesto melodrammatico ‑ la sua piena legittimità: di spiegare quello che non si riesce a spiegare, attraverso una causa parimenti al di là della comprensione umana.
Massimiliano Vinci è professore associato di Diritto romano nell’Università di Roma Tor Vergata