“Medioevo inquisitoriale” di Marina Benedetti

Prof.ssa Marina Benedetti, Lei è autrice del libro Medioevo inquisitoriale, edito da Salerno: quale fu l’origine dell’inquisizione medievale?
Medioevo inquisitoriale, Marina BenedettiL’inizio fu policentrico e, potrebbe stupire, ma alle origini dell’inquisizione medievale non c’è una organizzazione come oggi – erroneamente – immaginiamo: non c’è un “tribunale inquisitoriale” inteso come sede stabile e edificio normativo. Non è l’unico luogo comune consolidato e fuorviante sull’officium fidei, una delle definizioni con cui nel medioevo veniva descritto ciò che in maniera più estesa è “inquisizione dell’eretica pravità” (inquisitio haereticae pravitatis). L’eresia è – per definizione – malvagia o perversa (pravitas) e indagarla (inquisitio significa indagine o inchiesta) è un compito istituzionale (officium). È importante fare queste precisazioni perché anche la terminologia ci fa comprendere come “l’avvicinamento alla distanza”, cioè al passato, imponga di fare attenzione alle differenze, soprattutto rispetto al Santo Uffizio di età moderna che troppo spesso proietta la sua schiacciante immagine retroattiva. Per Dante l’“eretica pravità” era “eretica nequizia” (Pd VI 69): una espressione in volgare, ma in ogni caso lontana dal nostro orizzonte linguistico, così come “eretica pravità”. A ciò si aggiunga che non è possibile fissare una data di inizio. Sembra un paradosso. Non è l’unico. Inizio policentrico significa che non conosciamo un luogo e quindi un momento di avvio riconosciuto e tramandato, nemmeno da frate Bernard Gui, il più noto inquisitore medievale, ciò vuol dire che fissare un avvio è una nostra esigenza: le fonti superstiti non rispondono a domande impertinenti. A ciò dobbiamo aggiungere che gli inquisitori medievali mai hanno usato il termine inquisizione: lo usiamo in modo convenzionale, per antonomasia .

Ciò mostra quanto gli stereotipi ci allontanino da un approccio corretto con il passato: non solo a livello storiografico e divulgativo, ma anche documentario. Da questa consapevolezza emerge la necessità di porre domande appropriate. Innanzitutto, è opportuno rivolgersi ai documenti superstiti e ‘ascoltarli’ – anzi “ascoltarli con gli occhi” – con una lettura attenta alle rilevanze e ai problemi posti dai documenti (prima che ai documenti), per cogliere le molteplici voci al di là delle parole coartate dagli inquisitori.

Quale importanza riveste l’uccisione dell’inquisitore Pietro da Verona?
È un vero e proprio cold case medievale. L’episodio che in Italia rappresenta una svolta repressiva – per la prima volta unitaria – ha luogo nel 1252 vicino a Milano ed è l’uccisione dell’inquisitore Pietro da Verona del quale non abbiamo alcun procedimento giudiziario personalmente condotto e, a ben vedere, nemmeno alcuna attestazione del termine inquisitore (mai è definito tale in vita). Non possediamo né il dossier giudiziario sulla sua morte, né quello agiografico su colui che diventerà san Pietro martire – un santo inquisitore – in meno di un anno dalla scomparsa. Le poche schegge documentarie sopravvissute hanno l’incidenza di fendenti informativi: squarciano una tela senza permettere di vedere in profondità ciò che è oltre. Rimane quindi un cold case la cui documentazione superstite mostra manipolazioni e cambiamenti che finora sono stati trascurati. L’immagine del santo con un ‘falcastro’ sulla fronte insanguinata è un riferimento visivo forte e unitario. In più, c’è l’arca sepolcrale – un monumento-documento – nel medioevo collocata nella chiesa di Sant’Eustorgio a Milano e realizzata con il contributo finanziario dei confratelli inquisitori – come risulta dai loro libri contabili – nella quale vengono riposti i resti dell’inquisitore santo. Le ferite del cranio mostrano la violenza efferata dei colpi inferti: segno visivo di uno scontro e di un contesto altrettanto dilacerato. Si potrebbe dire che ci rimane un corpo-documento: anch’esso da ‘leggere’. In Lombardia e, più precisamente a Milano, gli inquisitori producono i primi manuali, tra i quali spicca la cosiddetta Summa de catharis dell’ex eretico, poi frate e inquisitore Raniero da Piacenza: un vero e proprio best seller medievale.

Quali erano i “libri degli inquisitori”?
In primo luogo, bisogna fare una precisazione. La documentazione prodotta dai giudici aveva una collocazione ‘eccentrica’ e una trasmissione multidirezionale. Non esisteva ciò che potrebbe essere un archivio centrale, ma una modalità diversificata di conservare e tramandare ciò che – oggi e nel passato – è frammentario e dislocato. Al ‘disordine’ degli inquisitori medievali che abitualmente tenevano le carte delle inchieste sui tavoli nelle proprie celle si aggiunge la distruzione degli archivi dell’inquisizione in età moderna che talvolta contenevano anche processi medievali. Una anomalia in tal senso sono i registri contenenti le inchieste del vescovo di Pamiers e vice-inquisitore Jacques Fournier: il passato repressivo diventa un elegante manufatto per un pubblico di élite, come dimostrano gli spazi – non consueti – destinati a miniature. Nel 1334 Jacques Fournier diventa Benedetto XII: il registro lo seguirà ad Avignone per poi essere collocato nella biblioteca dei papi. Una volta divenuto pontefice, cade l’esigenza di concludere le miniature: rimangono gli spazi bianchi a testimonianza di un progetto autopromozionale che cambia l’identità del codice manoscritto.

L’approdo nella biblioteca dei papi non è prassi consueta. Ciò che si è salvato ha per lo più seguito percorsi autonomi, spesso intercettati dagli interessi degli eruditi di età moderna che utilizzano, pubblicano, ma soprattutto contribuiscono alla conservazione dei manoscritti. Così è avvenuto, ad esempio, per i processi del 1300 contro i devoti e le devote di Guglielma rinvenuti nella bottega di un droghiere da un monaco certosino, Matteo Valerio, e consegnati alla neonata Biblioteca Ambrosiana di Milano agli inizi del XVII secolo; oppure per la grande dispersione dei processi – e della letteratura didattico-religiosa – dei Valdesi alpini della fine del XV secolo che assume dimensioni europee nel dibattito religioso del XVII secolo, coerentemente allogati ora a Cambridge, Dublino, Parigi, Grenoble e Ginevra. In tale dinamica circolazione di manoscritti, le copie o gli estratti possono avere una funzione diversa da ciò che ci attendiamo o presumiamo: due singoli interrogatori contro i predicatori itineranti valdesi Martino e Pietro, attualmente presso la Cambridge University Library, rappresentano una funzionale “mappa ereticale”. Si tratta di estratti da processi, ora perduti, che individuano i luoghi degli insediamenti dei Valdesi per proseguire le indagini poliziesche. Le numerose note a margine e le sottolineature nel testo confermano l’interesse pressoché esclusivo per una minuziosa topografia ereticale. Quando li ho visti per la prima volta alla Cambridge University Library mi sono resa conto che la “storia del documento” va ricostruita prima della “storia nel documento”. Per tale ragione, la mia indagine è in primo luogo una “avventura documentaria” per un approccio meno stereotipo alle fonti.

Se si analizzano le fonti superstiti con attenzione, si giunge a rovesciare un diffuso luogo comune per cui i processi sono normalmente considerati le principali “fonti della repressione”. Non è così. Per il XIII e XIV secolo, in contrasto con ciò che si potrebbe pensare, le maggiori sopravvivenze documentarie non sono giudiziarie, bensì contabili. In un ribaltamento della gerarchia delle rilevanze documentarie gli studi sulla contabilità degli inquisitori hanno innervato con una vertiginosa quantità di elementi nuovi le ricerche sull’operato degli inquisitori. Ciononostante, molto rimane ancora da scrivere se si percorrono i libri dei conti presso l’Archivio Apostolico Vaticano (ex Archivio Segreto Vaticano). Con le inchieste sull’operato finanziario dei titolari dell’officium fidei i controllori vengono controllati. E può capitare anche che gli inquisitori vengano inquisiti, come per esempio il frate Minore Mino di San Quirico che ci trasmette attraverso un inventario una ‘istantanea’ di alcuni specifici strumenti di lavoro – i manoscritti – attraverso i suoi libri contabili e attraverso un processo in cui è egli stesso imputato. Si tratta di una testimonianza davvero unica che ci porta dalla Lombardia alla Toscana, dalla giurisdizione dei frati Predicatori a quella dei frati Minori, anch’essi titolari dell’officium fidei sin dalle origini: i ‘fratelli’ di frate Francesco conducono indagini e processi e sono, a loro volta, esaminati per problemi finanziari. Per tale ragione bisogna percorrere itinerari “oltre i luoghi comuni”.

Che relazione esiste tra santità ed eresia?
Questa è una proposta euristica particolarmente proficua su cui sarà opportuno continuare ad indagare. Alcuni processi duecenteschi lombardi presentano una peculiare – inattesa, ma evidente – correlazione tra santità ed eresia. Apparentemente ossimorico, questo dimorfismo è caratteristico di un certo numero di inchieste in cui la promozione della santità di un laico/una laica si scontra con la progettualità della Chiesa (e degli inquisitori). “Promozione della santità” e “repressione dell’eresia” sono aspetti complementari del governo della Chiesa: e le fonti superstiti lo mostrano con chiarezza. È il caso dei devoti e delle devote di Guglielma a Milano, di Armanno a Ferrara, ma anche dei processi contro il maestro d’abaco Amedeo Landi nella Milano quattrocentesca, una vicenda che solo una eccezionale scoperta documentaria ha permesso di ricostruire dopo un’accurata edizione critica dei documenti legati ai processi. Per non dire della assai nota vicenda di Giovanna d’Arco che, in controtendenza, si conclude con la sua canonizzazione. Eresia e santità non sono soltanto due polarità opposte: è un problema interessante e complesso.

Quale uso fece dell’accusa di eresia Giovanni XXII?
Per il XIV secolo, e per un particolare periodo del papato avignonese, è stata coniata la fortunata espressione “età dei processi”. Il pontefice che negli anni più recenti ha maggiormente attirato l’interesse degli studiosi per i suoi interventi – e per la ricchezza della documentazione sopravvissuta – è Giovanni XXII. Durante il suo pontificato l’eresia è ‘disobbedienza’: è opposizione ai disegni politici del papato e pertanto i processi sono politici. Lo scontro tra papa e ‘ribelli’ mostra sviluppi sorprendenti se chi sta ai vertici della Chiesa viene definito «eretico e patarino», addirittura da frati Minori (in questo caso di Todi). In generale e a livello teorico, dalla fine del XII secolo i processi inquisitoriali (vescovili) sono anche processi politici. Nel 1199, tra le iniziative che inaugurano il pontificato di Innocenzo III c’è la decretale Vergentis in senium che configura l’eresia come crimine di lesa maestà (crimen lesae maiestatis). Con Bonifacio VIII, un papa giurista, s’accentua la dimensione dell’eresia in quanto ‘disobbedienza’, ossia violazione disgregatrice dell’ordinamento. L’equiparazione giuridica dell’eretico al criminale politico apriva la possibilità per cui il crimen politico, ad esempio l’opposizione dei signori italiani, i cosiddetti ghibellini, alla supremazia pontificia sarebbe stato punito in quanto eresia.

In questo contesto, l’azione politico-giudiziaria di Giovanni XXII nella penisola italiana – contro i Visconti, gli Este, i signori della Marca Anconitana – è pervasiva e imponente. Una sintomatica anomalia è rappresentata dai cittadini e, soprattutto, dai frati Minori di Todi con i quali si configura un cortocircuito tutto interno all’Ordine: frati Minori sono gli inquisiti, gli inquisitori, l’antipapa (Niccolò V) e persino i notai. Emerge un ulteriore elemento di rottura con il passato: lo sbilanciamento verso inchieste contro l’eretica pravità invece che a promozione della santità. In altre parole: ci sono più eretici condannati che santi canonizzati. Non è l’unica novità al tempo di Giovanni XXII. Una ulteriore ‘anomalia’ nella politica ecclesiastica dell’“età dei processi”, oltre che segno del cambiamento nell’azione di governo della Chiesa, è l’annullamento di tali inchieste da parte dei pontefici successivi. È un dato nuovo, quasi inatteso, e potrebbe stupire. Non pochi processi medievali vedranno la sentenza iniziale rovesciata dalla revisione. Non è un fenomeno limitabile a quel peculiare contesto, perché riguarda anche i Valdesi dell’allora Delfinato (e attuale Piemonte) di fine XV secolo. Distinto è il caso relativo al maestro d’abaco Amedeo Landi a Milano le cui inchieste di andamento contrapposto non giungeranno mai ad una sentenza di colpevolezza, ma arriveranno ad intralciare il processo di canonizzazione di frate Bernardino da Siena.

Che rapporto vi fu tra frati Minori e inquisizione?
Con la Licet ex omnibus di Innocenzo IV l’Italia veniva divisa in due giurisdizioni inquisitoriali affidate ai frati Predicatori e ai frati Minori. Ciò deve far riflettere soprattutto sulla percezione dei frati Minori sfatando un ulteriore luogo comune ossia che i fratelli di Francesco da Assisi non partecipassero all’inquisizione dell’eretica pravità. Non è vero. Oltre al cortocircuito che si viene a creare a Todi nel XIV secolo, nel secolo successivo i frati dell’Osservanza minoritica sono protagonisti di una vicenda repressiva di lungo periodo che nel caso dei Valdesi alpini mostra un aspetto inatteso: il binomio crociata-inquisizione. Prima della repressione-crociata del 1488, i Valdesi sono interrogati dal commissario apostolico-inquisitore: per ottenere l’abiura precedentemente all’azione armata. Non eravamo abituati a pensare alle crociate in tal senso (e nemmeno ai frati Minori-inquisitori). Nel caso milanese che vede frate Bernardino da Siena, il più famoso predicatore dell’Osservanza minoritica francescana, scontrarsi con il maestro d’abaco Amedeo Landi, egli dal pulpito legge capi d’accusa che solo – successivamente – gli inquisitori useranno durante le inchieste. Un frate predica dal pulpito: e diventa un inquisitore.

Il titolo del volume – Medioevo inquisitoriale – vuole rendere conto di tale ricchezza – di manoscritti, protagonisti, paradossi – soprattutto intende essere provocatorio: per scuotere certezze stereotipe, se non veri e propri luoghi comuni. Si potrebbe aggiungere che «suona bene, è di effetto», come Ovidio Capitani scrisse a proposito del suo Medioevo ereticale: un titolo «alla rovescia» rispetto all’allora referenziale Medioevo cristiano di Raffaello Morghen. Soprattutto il libro intende concentrarsi non tanto sugli eretici – la cui fisionomia religiosa nel medioevo è trasmessa quasi esclusivamente attraverso il filtro teologico, dogmatico e giuridico dei giudici – bensì sugli inquisitori e sui loro documenti nella consapevolezza che il passato si indaga attraverso la lente – in questo caso deformante – di ciò che è sopravvissuto, senza dimenticare la suggestione di Gioacchino Volpe per il quale l’eresia è «moto di cultura» ovvero il rapporto con i testi sacri attiva «coscienze che si plasmano e reagiscono» in modo che «cervelli prima inerti si mettono in moto». Sono parole bellissime. Questa immagine culturalmente dinamica, un approccio allargato alle “avventure documentarie” e uno sguardo qualitativo sugli individui – uomini e donne – sono da anni la mia personale “avventura di ricerca”.

Marina Benedetti insegna Storia del cristianesimo presso l’Università degli Studi di Milano. Si occupa di eresie, soprattutto al femminile, di inquisizione, di trasmissione di manoscritti medievali. È autrice di Inquisitori lombardi del Duecento, Roma 2008, Condannate al silenzio. Le eretiche medievali, Milano 2017. Ha curato Storia del cristianesimo, II: L’età medievale (secoli VIII-XV), Roma 2020 (6a rist.) e, con Euan Cameron, A Companion to the Waldenses in the Middle Ages, di prossima pubblicazione.

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