
Molto banalmente: il cinema, dai film muti si inizio secolo scorso alle mega produzioni legate ai supereroi della Marvel o della DC Comics, ha vissuto, e vive, sostanzialmente dei biglietti venduti alla cassa delle sale cinematografiche, i giornali da oltre un secolo si sono basati in gran parte dai ricavi da pubblicità e, solo in parte residua, dai soldi provenienti direttamente dai lettori, un programma televisivo in un broadcaster tradizionale ha valore per un investitore pubblicitario solo se rispetta quella linea di galleggiamento rappresentata da un certo numero di spettatori sotto la quale perde totalmente interesse per lui.
Ma oggi si sta ribaltando tutto, aziende come Netflix invece di ottimizzare i singoli spettacoli per massimizzare il numero di spettatori, sfruttano il loro immenso catalogo multimediale per ottimizzare i film guardati da ogni utente, questa sottile ma cruciale distinzione ha permesso a Netflix di rimanere concentrata su come coinvolgere meglio gli spettatori facendo di tutto per incrementare la metrica dei ‘film visti’ da un singolo utente. È un cambio di paradigma che ci quanto cambia anche il “valore” dato a un film nella vecchia industria cinematografica rispetto a quella nuova.
E questo vale per Netflix come, in altri settori dei media, vale per aziende come Spotify, Amazon, Google o Apple e le loro piattaforme dedicate ai video, musica, libri. Proprio in quel “coinvolgere meglio gli spettatori” è racchiuso un cambio di prospettiva radicale, il meccanismo che sta determinando il nuovo ordine mondiale dei media dominato dalle grandi piattaforme digitali perché il tempo che ogni utente spende dentro quelle piattaforme sta diventando la metrica principale con il quale si misura il valore di queste aziende.
Un cambio di prospettiva estremamente importante: è il nostro tempo quello messo gioco, ed è questo che, ce ne accorgiamo o meno, da semplici lettori di un giornale, di un libro o spettatori di un film o una serie TV, ci sta trasformando in “subscriber”, utenti/abbonati digitali di un servizio erogato 24 ore al giorno, profili impilati dentro “cluster” di consumo. Un cambiamento profondo sul quale abbiamo bisogno di riflettere e analizzare.
Quali modelli di business muovono i mutamenti in corso nei media?
Forse sorprenderà qualcuno, ma per molti versi al centro di questi mutamenti c’è un protagonista che, probabilmente, pochi tendono a considerare come uno strumento fondamentale per costruire imperi economici: parlo dell’archivio. Non l’archivio come possiamo pensarlo nel modo fisico, ma quello digitale che aziende come Netflix, Amazon, Google o Spotify hanno ripensato completamente, intuendo il suo enorme valore economico tanto da metterlo al centro del loro modello di business. Queste aziende hanno intuito che l’archivio era lo strumento ideale per sfruttare al meglio il vero potenziale di Internet: mentre molti la consideravano ancora come la versione digitale di un’edicola, di un negozio o di un cinema, le aziende tecnologiche, al contrario, hanno visto Internet al pari di un grande archivio di contenuti che possono generare un rapporto di lunga durata con le persone; non un posto in cui i clienti entrano ed escono una volta visto, letto, ascoltato o acquistato qualcosa ma, prima di tutto, il luogo dove tutti possono immergersi in un oceano profondissimo di “cose”.
Se guardiamo al valore dato dalle media company tradizionali – editori di giornali, network televisivi, produttori cinematografici – ai loro archivi e lo confrontiamo con la cura maniacale con la quale vengono ordinate e utilizzate le library digitali di proprietà delle aziende tecnologiche che stanno cambiando la geografia dell’industria dei media, vediamo chiaramente un approccio completamente diverso.
Da questo approccio si dipanano tutte le strategie economiche alla base di questi mutamenti: il fatto che sul mercato non venga posto una serie di prodotti da mettere in vendita singolarmente ma che l’intero catalogo sia visto come un unico prodotto da far “consumare” continuamente ai propri clienti è la leva principale di questi mutamenti.
Quale futuro, a Suo avviso, per i giornali?
L’industria dei giornali è quella che ha sofferto di più la disruption digitale, la stampa ha perso in maniera drammatica quote pubblicitarie, nel 1999 quotidiani e magazine pesavano assieme sul totale della spesa in advertising a livello globale per il 47% mentre nel 2022 si stima che raggiungeranno appena il 7%. Un disastro. Soprattutto se pensiamo che i ricavi pubblicitari sono l’asse portante di questa industria.
Spostandosi su digitale molti degli investimenti pubblicitari hanno favorito l’iper-targettizzazione e la profilazione utente di Google e Facebook mentre gli editori, per molte ragioni che cerco di descrivere nel mio libro, sono finiti col non avere la minima idea di chi fossero i loro lettori.
Così con sempre meno soldi che arrivano dalla pubblicità oggi nei giornali sia stanno riscoprendo quelli provenienti direttamente dai lettori, la “cura” a questa situazione sembra essere la subscription economy, ovvero cercare di trasformare i lettori in fedeli abbonati, soprattutto nella versione digitale del giornale quella con margini di crescita maggiori. Una strategia che per qualcuno funziona molto bene, ad esempio al New York Times. Non è un caso che proprio al Times – l’editore tradizionale che in questi anni ha affrontato la più radicale trasformazione ribaltando completamente la sua architettura di ricavi puntando tutto sulla nuova economia degli abbonamenti digitali – stanno affermando di essere un’azienda che guarda a Netflix come modello, una frase che solo qualche anno fa sarebbe sembrata ridicola e che ci dice quanto la disruption di internet stia mettendo continuamente sottosopra queste industrie con ribaltamenti continui tra vecchi e nuovi protagonisti.
Il Times non è l’unico giornale a puntare sugli abbonamenti digitali, trasformandosi di fatto in una piattaforma digitale, lo stanno facendo con buoni risultati anche il Washington Post e un’altra manciata di grandi testate internazionali, ma bisogna dire che questo è un modello che difficilmente sarà replicabile con altrettanto successo per tutti gli altri.
Bisogna inoltre considerare seriamente che l’economia degli abbonamenti digitali se da una parte ha molti pregi per i giornali come ad esempio spostare l’attenzione verso i lettori e – almeno teoricamente – meno sui grandi investitori pubblicitari, oltre che innalzare, giocoforza, la qualità del giornalismo per convincere i lettori che ha valore investire sull’informazione di una testata, dall’altra, questa strategia, porta con sé anche delle importanti controindicazioni. La subscription economy così come concepita da Netflix, Amazon o Apple trasferita nel mondo dei giornali ne sposa anche il culto tipico della Silicon Valley per la crescita continua a qualsiasi prezzo, l’imperativo di occupare tutti gli spazi vitali di un mercato; questo rappresenta un rischio enorme in un settore così importante per la qualità del dibattito sociale come l’industria dell’informazione; pluralismo e accessibilità sono qualità troppo importanti che non ci possiamo permettere di perdere, ed è davvero difficile pensare che possano essere le sole leggi di mercato a preservarle.
Se non troviamo anche fuori del mercato elementi di maggiore equilibrio temo che il futuro dei giornali si giocherà tra una sostenibilità economica appannaggio di pochi grandi editori e – se va bene – il tentare in qualche modo di sopravvivere di tutti gli altri più piccoli, basta guardare alla desertificazione dei giornali locali negli Stati Uniti e le loro enormi difficoltà che stanno avendo qui da noi. Anche gli ultimi accordi economici tra Google e gli editori più grandi e potenti sembra, purtroppo, andare in questa direzione.
La TV generalista è destinata a scomparire?
C’è chi sostiene che il futuro della televisione assomiglierà molto alla vecchia televisione. Sono abbastanza d’accordo, anche se può sembrare contraddittorio perché parliamo di disruption digitale e di grandi rivoluzioni e questo fa pensare a un totale stravolgimento anche dei mezzi con il quale consumiamo film e serie TV.
In realtà la forza di Netflix sta nel riuscire ad occupare anche spazi tradizionali come il buon “vecchio” televisore che abbiamo in salotto o camera da letto; certo deve essere un smart TV connesso a internet, ma ormai questo tipo di apparecchi si stanno sempre più diffondendo e diventeranno lo standard tra pochi anni. A differenza del vecchio giornale di carta messo in seria crisi da smartphone e un ecosistema delle notizie rivoluzionato dai social media, nello scenario dello streaming video i supporti tradizionali e quelli nuovi convivono senza fratture.
D’altra parte la corsa ad attirare nuovi abbonati – in un mercato sempre più affollato come quello dello streaming video – sta obbligando Netflix, Disney+ o Amazon Prime Video ad allargare enormemente l’offerta di nuovi contenuti originali. Netflix ormai aggiunge tra i 40 e i 50 nuovi titoli originali da lei prodotti ogni mese, con questo ritmo è inevitabile che sia lei a dover diventare una nuova versione aggiornata della TV “generalista” non il contrario.
Credo che il passaggio di testimone da una TV tradizionale – con i suoi palinsesti rigidi legati a fasce orarie – a una on-demand sia inevitabile, ma le tempistiche sono ancora tutte da scoprire, non dimenticherei l’importanza degli eventi dal vivo, primo fra tutti lo sport, che ha un’importanza economica enorme per l’industria televisiva mondiale, recentemente oggetto di grandi investimenti anche da parte dei protagonisti della nuova TV come Amazon, che inevitabilmente farà assomigliare anche i giganti dello streaming a una TV più tradizionale.
Come funziona la subscription economy?
Bisogna precisare che la subscription economy è qualcosa di molto più complesso del semplice aggiornamento, nell’era digitale, degli abbonamenti come li abbiamo sempre conosciuti. È oggi profondamente e indissolubilmente connessa con altri due elementi: un archivio digitale sterminato e tecnologie come intelligenza artificiale e machine learning alla base dei cosiddetti gli algoritmi di raccomandazione. Dare alle persone una scelta praticamente infinita stimolando il loro legittimo desiderio di scoperta è essenziale per Netflix o Spotify o Amazon Prime per attrarre utenti verso le loro piattaforme, l’accesso a questo catalogo non si configura più come una semplice compravendita di singoli prodotti ma, come accennavo in una precedente risposta, è l’accesso a un servizio erogato 24 ore il giorno sette giorni alla settimana. Il modello economico della subscription economy nel digitale si basa, quindi, su quanto riescono ad essere coinvolti gli utenti – cioè noi tutti che ci abboniamo a questi servizi per poter usufruire di film, serie tv, brani musicali. Non è un caso che Red Hastings il fondatore e CEO di Netflix abbia dichiarato che il terreno della competizione per dominare il mercato televisivo nel prossimo futuro sarà il “tempo” e con una battuta abbia detto che il vero concorrente della sua azienda oggi è “il sonno”, ovvero il limite fisico di ognuno di noi di passare tutto il tempo a guardare i programmi di Netflix.
Cosa sono le “strategie delle raccomandazioni” e in che modo hanno determinato il successo di aziende come Amazon e Netflix?
Sono uno degli strumenti che le grandi piattaforme digitali utilizzano per legare sempre più i loro utenti ai loro servizi. Il principio base è molto semplice, quasi infantile, raccomandare ad esempio la visione di un film o l’ascolto di un brano musicale, partendo dal principio “se ti è piaciuto questo, forse ti piacerà anche quest’altro”. Dietro questo apparentemente semplice principio però c’è lo sviluppo di tecnologie molto sofisticate, implementate anche grazie a esperti delle scienze cognitive che lavorano dentro i team di queste big tech, che elaborano quantità enormi di dati personali, compreso analizzare nei minimi dettagli cosa e come gli utenti consumano, guardano e ascoltano i prodotti offerti in quelle immense library, il tutto con l’obiettivo di mettere a punto una strategia capace di fare leva sul nostro desiderio di scoperta e sfruttare ancora meglio il suo enorme valore economico che, queste aziende, hanno dimostrato di saper sfruttare al meglio.
Oggi secondo indagini interne, l’algoritmo di raccomandazione di Netflix è responsabile di oltre il 70% delle scelte di cosa decidono di guardare i suoi abbonati, un potere enorme utilizzato anche per indirizzare le scelte verso quei programmi con margini di guadagno maggiori per l’azienda. Uno strumento fondamentale messo a punto da Spotify per mantenere i suoi utenti nella piattaforma è una playlist inviata nel profilo di tutti i suoi iscritti chiamata “Discover weekly”, interamente realizzata da un algoritmo, particolarmente efficace nel suggerire nuovi brani da ascoltare, da scoprire appunto.
Quali scenari per i media del futuro?
Già oggi possiamo vedere alcune importanti tendenze, la prima accelerata ulteriormente dalla crisi dovuta alla pandemia da Covid-19, è rappresentata da uno spostamento verso lo streaming, quello audio di Spotify, Apple Music e le altre piattaforme rappresenta oltre il 60% di tutti i ricavi dell’industria discografica nel mondo e l’83% di un mercato ricco come quello degli Stati Uniti.
Nello streaming video la dominatrice Netflix sta obbligando molte grandi aziende a rivedere i loro piani e fare investimenti enormi, la Disney ha messo sul tavolo, nel 2018, per acquistare la 21st Century Fox – e il suo straordinario catalogo di film – ben 71,3 miliardi di dollari e, poi, ha lanciato nel 2019 Disney+, AT&T uno dei più grandi operatori telefonici al mondo – sempre nel 2018 – ha concluso l’acquisizione della Time Warner per 85 miliardi di dollari e poi ha lanciato il suo canale streaming HBO Max. E poi Comcast – un altro gigante delle telecomunicazioni – che invece ha sborsato 65 miliardi per acquistare Sky. Poi nel 2019 due giganti dell’intrattenimento come Comcast e CBS hanno deciso di dare vita a una fusione societaria. Tutte operazioni che hanno spostato centinaia di miliardi di dollari con il preciso obiettivo di cercare di farsi trovare pronti nel nuovo ecosistema che sarà sempre più dominato dall’on-demand.
Lo spostamento verso lo streaming vuol dire che anche che le principali media company tradizionali per sopravvivere stanno tutte diventando delle piattaforme digitali dominate dalla logica di attrarre più persone possibile e trattenerle per il maggior tempo possibile all’interno dei loro “giardini recitanti”, visto che, come sottolineavo prima, questa è oggi la metrica principale utilizzata per determinare il valore di un’azienda anche sul mercato finanziario; la ragione, ad esempio, per la quale Spotify che non ha ancora mai realizzato un utile di bilancio, e chissà se mai riuscirà a realizzarlo, ha un valore di capitalizzazione quasi doppio di un gigante storico del settore come Warner Music. Il tema su come Wall Street stia in qualche modo “drogando” questo mercato, iper valutando il parametro del numero di utenti e del loro tempo speso su queste piattaforme, è uno dei punti che affronto nel libro.
È inoltre molto interessante notare come i più potenti fondi di investimento nati nella Silicon Valley stanno oggi guardando verso le aziende tecnologiche cinesi e alle loro “super app” – ovvero applicazioni nelle quali è possibile fare più cose, anche contemporaneamente, come guardare un film, ordinare cibo e postare nei social senza mai uscire dalla app stessa – come una nuova frontiera da proporre come modello anche da noi in occidente.
Questo ci dice che da parte di alcuni dei più importanti investitori finanziari, che ancora oggi siedono in moti dei consigli di amministrazione delle big tech, c’è la richiesta precisa a coinvolgere, ancora di più, le persone dentro le loro piattaforme digitali.
Sono mutamenti che producono, nel grande domino del mercato, effetti nei quali noi, gli utenti finali, siamo gli assoluti protagonisti, anche se spesso del tutto inconsapevoli della reale portata di quello che ci sta succedendo tutto intorno. Per questo è importante cercare di capire – e il libro nasce anche per dare un contributo in questo senso – come sta cambiando il modo di “funzionare” delle aziende che compongono l’industria dei media e, contemporaneamente come sta cambiando il rapporto tra noi e loro.
Lelio Simi, giornalista professionista, si occupa principalmente di innovazione, tecnologia e modelli di business editoriali, raccontando in particolare la profonda trasformazione avvenuta nell’industria dei media in questi anni. I suoi reportage e le sue inchieste sono stati pubblicati, tra gli altri, da “il Manifesto”, “Pagina 99”, “Link”, “Eastwest”, “Altreconomia”. È stato uno dei fondatori di DataMediaHub, una delle prime esperienze di data journalism in Italia, nella quale si è dedicato all’analisi dei dati economici dell’industria italiana dei giornali.