
In tutto questo i media hanno un ruolo fondamentale. Essi rendono questo racconto credibile, mantengono viva l’illusione che il nazionalismo sia ancora un’ideologia adeguata a gestire fenomeni di portata globale. E questo non accade perché la maggior parte dei giornalisti credano che sia così, ma perché i media continuano a essere fondamentalmente etnocentrici, a dipingere un mondo filtrato da questo sguardo, incapace di raccontare il paese a partire dal mondo e dall’Europa, ma semmai raccontando Europa e mondo a partire dal paese. C’è un processo di allargamento e superamento di una struttura novecentesca ormai inadeguata a interpretare la realtà, ma è lento. Per accorgersene basta guardare a quanto ancora oggi la politica europea, sede di una quantità enorme di decisioni fondamentali per il nostro presente, sia ignorata o raccontata in modo semplificatorio dalla maggior parte dei media nazionali, oppure a come, a fronte di storie immigratorie pluri-decennali, i principali media di molti paesi europei continuino a dare pochissime informazioni rilevanti sui migranti, sui loro paesi d’origine e di transito, sui motivi che li spingono a migrare. Questo vuoto informativo è figlio di tante mancanze, compreso un dialogo quasi assente tra la ricerca accademica ed i media informativi mainstream. La colpa non è certo dei singoli giornalisti. La causa del problema è di natura strutturale.
Un altro modo con cui i media garantiscono la riuscita di una certa narrazione politica è il loro funzionamento di base per quanto riguarda la cronaca, che è poi il loro core business. Già questo è indicativo di uno sguardo nazionalista, che pone le questioni a partire dal tema della sicurezza e le filtra con le categorie del “pensiero di stato”. Questura e Prefettura rimangono le fonti principali delle notizie e questo fa il gioco di chi vuole ridurre la questione delle migrazioni a un mero problema di sicurezza e ordine pubblico.
Tuttavia, accanto alla narrazione securitaria troviamo altre narrazioni. Le più forti sono quella che legge i migrati – qui soprattutto quelli di fede musulmana – come una minaccia all’identità culturale, e quella che li legge come vittime.
Nel libro ho illustrato come sia cambiato nel tempo il referente principale di queste rappresentazioni. È interessante vedere quale migrante sia servito a mantenere il racconto del migrante minaccioso (dagli albanesi, ai romeni, agli africani) e quale sia servito a personificare la vittima meritevole di esser definita tale (gli africani, poi le donne dell’est, ora i richiedenti asilo) e come essi siano stati rappresentati, nei media, da gruppi che hanno imperversato per anni nelle cronache, salvo poi sparire da un giorno all’altro, per far spazio a un altro gruppo che ne assolvesse il ruolo. Seguendo queste rappresentazioni nel tempo appare chiaro come sia il racconto della realtà ad avere la meglio sulla realtà.
Ma allora perché sappiamo raccontare i migranti (quasi) solo così? Per rispondere a questa domanda il libro indaga i meccanismi di produzione dei racconti di migrazione che portano a questo infinito riprodursi del racconto della minaccia e della vittima. Ma non basta. La domanda può anche essere girata in questo modo: perché abbiamo bisogno di questa oscillazione tra minaccia e vittima per raccontare le migrazioni, costringendo peraltro i migranti dentro queste gabbie che li spingono a mostrarsi buoni o a enfatizzare la condizione di disperati se vogliono ottenere attenzione e credibilità pubblica? Per rispondere a questa seconda domanda bisogna guardare ai discorsi che vengono da più lontano: il razzismo, il culturalismo e il regime umanitario, e alle politiche che sostengono questi discorsi. Il libro si occupa anche di questo.
Quali schemi interpretativi si ritrovano, con poche varianti, in tutto il continente?
Prima di rispondere alla domanda, è bene soffermarsi su ciò che in essa viene dato per certo. È infatti vero che, leggendo la letteratura europea su media e migrazioni, vediamo emergere le medesime questioni. Tutto ciò è davvero sorprendente, se si pensa a quanto siano diverse le situazioni dei vari paesi per un numero importante di variabili: presenza dei migranti nel paese, storia di questa presenza, sistemi sociali e giuridici, etc. Come è possibile che alla fine le questioni che emergono siano le stesse e possano essere ridotte a un numero ristretto? È dal desiderio di spiegare una tale impressionante omogeneità narrativa che ho preso le mosse. La struttura del libro risponde alla volontà di spiegare questo dato seguendo le acquisizioni scientifiche consolidate. È per questo che assumono importanza le cornici generali del nazionalismo, del razzismo, del culturalismo e dell’umanitario, che forniscono una prima risposta perché queste cornici offrono un comune punto di vista europeo che filtra la questione migratoria. Ma ci sono risposte più specifiche, che possono essere indagate guardando alle politiche che sono messe in campo a livello di Unione Europea e nei singoli paesi e alle categorie giuridiche che servono a governare le migrazioni. Secondo questo approccio, i media non fanno altro che replicare un discorso che nasce altrove (politica, diritto) e che fornisce i confini del ragionamento. Le politiche di integrazione civica e la distinzione tra migranti e rifugiati e tra questi e i free movers (migrati di paesi UE che si spostano nei confini dell’Unione), sono due temi che ho affrontato nel libro. Poi ci sono le stesse pratiche di produzione giornalistica, che finiscono per replicare un’ideologia professionale in tutta Europa, con conseguenze molto concrete su quali storie vengano prodotte e su quali media certe storie siano più o meno frequenti.
Gli schemi principali del racconto, come già detto, sono quelli della minaccia e della vittima, ma c’è anche spazio per il racconto del migrante come “eroe”. La categoria dell’eroe diventa analiticamente interessante se la incrociamo con la questione dell’integrazione. Infatti, mentre i racconti dell’integrazione impossibile sono fatti con categorie collettive (i musulmani che non si integrano, etc.), quelle di avvenuta integrazione sono prodotte a partire da casi personali, il singolo “eroe”, che finiscono per essere letti come eccezioni.
Su quali basi è possibile operare una analisi critica delle rappresentazioni mediatiche dei fenomeni migratori?
Vi sono qui sostanzialmente due approcci, che ho sintetizzato nel primo capitolo del libro. Il primo guarda a come i media deformino la realtà, il secondo a come essi mantengano un sistema di ingiustizia e diseguaglianza sociale, sulle linee della generazione, del genere, della “razza”, della religione, della classe sociale o di tutte queste cose messe insieme, offrendo racconti che normalizzano e giustificano le diseguaglianze. Nel primo caso il presupposto è che i media devono raccontare la realtà delle cose e bisogna quindi criticarli quando si distaccano troppo dalla realtà, non riuscendo a fornire ai loro pubblici una visione onesta e oggettiva, che permetta loro di essere dei cittadini bene informati. Secondo questo approccio, la salute di un sistema democratico deve molto a questa possibilità e, qualora i media non assolvano questa funzione, vanno criticati perché rendono la democrazia uno spazio malato, in cui il valore della verità è negato a vantaggio del denaro (necessità commerciali che portano alla ricerca del sensazionalismo e a far circolare notizie senza verificarle) e del potere (giornalisti faziosi o servili che filtrano la realtà a tutto vantaggio di una parte). Ma questo approccio ha vari limiti, il primo dei quali è il suo referente costitutivo: la realtà oggettiva. Qual è la realtà oggettiva? Prendiamo l’esempio della distinzione migranti-rifugiati. Secondo questo approccio è sbagliato chiamare migrante un rifugiato, e inoltre i media dovrebbero fare attenzione a distinguere tra le varie forme di protezione. È importante, perché questa è la realtà (giuridica). Più i media sono precisi nel fare queste distinzioni, più sono dunque “oggettivi”. E tuttavia, le ricerche sociologiche mostrano che questa distinzione è assai arbitraria. Mostrano che non esiste in modo chiaro nella “realtà”, ma è semmai un modo di regolare e controllare un fenomeno imponendo delle categorie alla realtà. Se le prediamo come “realtà”, la nostra capacità critica non è al servizio della verità, ma delle norme. Il secondo approccio, infatti, rinuncia radicalmente alla ricerca della realtà, ma si occupa di studiare i meccanismi attraverso i quali i racconti dei media rendano normali queste e altre distinzioni, e prova a mostrare chi trae vantaggio da esse e chi ne subisce invece le conseguenze.
Un altro concetto fondamentale per il primo dei due approcci è quello di pluralismo. In parte è un’ammissione dell’impossibilità di dire cosa sia la verità oggettiva. Il valore del pluralismo informativo è un modo per dire che le realtà sono tante e i media aiuteranno i loro pubblici a farsi un’idea se daranno spazio a tutte loro, o perlomeno a tutte quelle che sono numericamente rilevanti nella società. Da qui nasce la critica più ovvia sul tema delle migrazioni: quanto spazio di parola hanno i migranti sui media? I media riescono a fare sì che siano anche i migranti a creare il racconto delle migrazioni? Qui assistiamo all’imposizione dei discorsi. È infatti evidente che i media tendano a dare spazio ai migranti in prima persona solo se stanno dentro gli schemi che ci risultano comprensibili e familiari: minaccia-vittima-eroe. Lo spazio per altri racconti, che sarebbero in grado di sovvertire questa rigida schematizzazione, raramente si crea. È quella che nel libro chiamo “struttura delle opportunità discorsive”, mostrando quanto è soffocante e angusta.
Che rapporto esiste tra media e razzismo e tra media e migrazioni?
Possiamo dire che gli studi su media e migrazioni in Europa sono stati in buona parte una filiazione degli studi su media e razzismo che si erano sviluppati in Gran Bretagna e negli Stati Uniti d’America negli anni Settanta e Ottanta. Lo dico perché i secondi sono certamente influenzati dai primi e ne riprendono categorie analitiche, orientamento e metodi. Questo ha fatto sì che concetti come quelli di “stereotipo etnico” siano stati a lungo centrali e che gli studi su media e migrazioni abbiano guardato a lungo più al livello della produzione di categorie culturali che al rapporto tra giornalismo e politica, più ai testi e al linguaggio che ai meccanismi di produzione. Solo in seguito, soprattutto a partire dal secondo decennio del Duemila, e prevalentemente per opera dei politologi, i nessi giornalismo-politica in riferimento alle migrazioni sono stati indagati attraverso la categoria della politicizzazione delle migrazioni. Questo ha contribuito a creare la barriera disciplinare tra studi prevalentemente politologici e studi prevalentemente linguistici. La sociologia può fare da ponte tra i due approcci, dando maggiore consistenza e complessità all’analisi, includendo ragionamenti più legati ai media e al loro funzionamento specifico, pur mantenendo rapporti stretti con i due filoni già attivi. Il mio libro cerca di recuperare e mettere insieme questi lavori proprio a partire dalle ricerche su media e razzismo, impegnandosi a produrre uno schema interpretativo generale, intento che viene espresso nel sottotitolo del volume. “Una prospettiva sociologica” può far pensare all’ennesimo settarismo, invece è proprio il contrario: è un tentativo di rendere leggibile la complessità, muovendosi tra sociologia politica e sociologia dei media e del giornalismo, per far dialogare approcci e risultati consolidati e mostrarne le conseguenze.
In che modo le pratiche giornalistiche e fotografiche riproducono, seppur involontariamente, tali frame?
I tre frame principali – minaccia, vittima, eroe – vengono costantemente riprodotti dai media anche per via delle convenzioni, le pratiche di routine e le necessità commerciali con le quali essi operano. Ho dedicato una parte del libro a mostrare come avvenga questa riproduzione di significati, guardando agli studi etnografici sulla produzione di notizie e sintetizzando un mio lavoro di ricerca precedente sul fotogiornalismo di migrazione (Facce da straniero. 30 anni di fotografia e giornalismo sull’immigrazione in Italia, Bruno Mondadori 2010), che guardava a cosa producono i fotografi e perché, a cosa vogliono i giornali e perché e alla fondamentale mediazione degli archivi digitali, che determinano la vendibilità delle immagini. È poi interessante vedere che certe fotografie finiscono soprattutto su certi media, come quotidiani e settimanali d’attualità, mentre altre immagini vengono pubblicate quasi esclusivamente per i magazine, i libri o le mostre fotografiche. Il mercato determina così, di riflesso, cose importanti: ad esempio le storie di integrazione (e il frame dell’eroe) sono riprodotte soprattutto sui magazine femminili o cattolici, dove i migranti hanno un “diritto al ritratto” e quindi a un controllo sulla propria immagine e la propria storia che altrove è solitamente negato. Scopriamo così che giornali dello stesso gruppo editoriale, ad esempio Repubblica, L’Espresso e D, la Repubblica delle donne, raccontano le migrazioni con approcci molto diversi, determinate quindi più da logiche commerciali che da logiche di politica editoriale.
Cosa comporta la crisi della tripartizione migranti-rifugiati-free movers?
La distinzione tra migranti e rifugiati ha una storia nell’affermazione dei diritti umani, che nel libro tratteggio. È una distinzione pensata per un’altra epoca e per altre figure di profughi. Oggi questa distinzione si applica a una realtà completamente diversa e come conseguenza ha prodotto un solco profondo laddove, nella realtà, questo solco non esiste o, quando esiste, è molto sottile.
Per un lungo periodo i media hanno riprodotto questa distinzione, radicalizzandola. Da quando queste categorie sono entrate politicamente in crisi (free movers trattati come migranti, i “flussi misti” dall’Africa, la minaccia di rivedere la libera circolazione europea), la necessità di definire chi è la vittima e chi non lo è è diventata un’ossessione pubblica. Ciò ha aperto lo spazio per una propaganda feroce sui cosiddetti “falsi profughi”, che vengono trattati come persone moralmente abiette, non meritevoli di ricadere nella categoria della vittima umanitaria e condannati ad essere raccontati secondo il frame della minaccia. La ricerca della “vera vittima” è stata gonfiata al punto che si discute di come sono vestiti, di quanto sono muscolosi, dei loro smartphone, negando che possano essere dei veri richiedenti asilo per ragioni che nulla hanno a che fare con la realtà della protezione internazionale e che hanno invece molto a che fare con l’immaginario umanitario (la vittima vista come “ultimo” o come “nuda vita”). Il libro si dilunga in alcuni esempi e spiega perché questa propaganda distorce pesantemente la realtà e crea una visione del tutto falsata delle migrazioni in una parte significativa del pubblico. La tripartizione migranti, rifugiati e free movers è un esempio di come delle categorie giuridiche e politiche attivino un sistema, creando e riproducendo una realtà sociale sui corpi delle persone che la subiscono, inchiodandoli a una condizione di mobilità limitata e rendendo così più difficile una loro integrazione economica, a svantaggio di tutti. I rapporti tra politica e media sono qui cruciali nel creare nei pubblici un senso di partigianeria che sovente non mette le persone nelle condizioni di capire come funzionino realmente le migrazioni.
Quale responsabilità hanno dunque i media nella costruzione delle emergenze sociali?
Questo tema è trattato nell’ultima parte del libro, in cui si discute – guardando alle molte ricerche prodotte su scala europea – di quanto il senso di emergenza e di paura legato alle migrazioni, che si misura attraverso i sondaggi di opinione, nasca da condizioni materiali cui la politica prova a dare risposta, e di quanto invece esso sia creato dai media e dalla comunicazione politica attraverso i media. È un discorso affascinante, reso ancora più complesso dalla presenza dei social, che chi leggerà il libro avrà modo di affrontare.
Andrea Pogliano è ricercatore presso il Dipartimento di Giurisprudenza e Scienze Politiche, Economiche e Sociali (DIGSPES) dell’Università del Piemonte Orientale e Research Affiliate presso il Forum Internazionale Europeo di Ricerche sull’Immigrazione (FIERI). Ha ottenuto il dottorato all’Università degli Studi di Milano nel 2008 ed è stato Marie Curie e visiting scholar presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi e presso l’Anglia Polytechnic University di Cambridge, UK.
Ha pubblicato i volumi Le immagini delle notizie. Sociologia del fotogiornalismo (Milano, 2009) e Facce da straniero. 30 anni di fotografia e giornalismo sull’immigrazione in Italia (Milano, 2010). Lavora da anni sui temi al centro di quest’ultimo volume e pubblica regolarmente saggi e articoli per editori nazionali e internazionali.