
Alla natura eroica di Medea fa da contrappunto la debolezza di Giasone, sempre spinto da motivi utilitaristici e politici, in particolare terrorizzato dalla possibilità che Acasto, figlio di Pelia, si allei con Creonte. Anche qui dimentico dell’aiuto determinante che Medea gli ha offerto (oblitus; v. 560), rimuove il lato oscuro di lei e solo di fronte alla vendetta recupererà la memoria perduta. E soprattutto risulta vulnerabile perché, alla richiesta di Medea di poter portare i figli in esilio con sé (il bando qui non li coinvolge), manifesta il proprio affetto paterno opponendo un diniego. L’infanticidio viene dunque razionalizzato da Medea: «Ama tanto i suoi figli? Bene, lo tengo in pugno, è chiaro dove può essere ferito» (vv. 549-550).
La figlia di Creonte acquista un nome, Creusa, ma non presenza scenica: un breve dialogo fra Medea e il messaggero condensa la lunga rhesis euripidea sulla sua morte, privandola dell’unico momento di protagonismo. Caratteristica distintiva di tutta la tragedia senecana è l’immagine dell’assassinio di Apsirto attribuito a Medea, che non cessa mai di riemergere alla sua coscienza: così anche la realizzazione dell’infanticidio è marcata dalla visione allucinata del fratello a cui i bambini vengono offerti come vittime sacrificali.
Il finale è un capolavoro di crudeltà: i bambini vengono uccisi separatamente, il secondo sotto gli occhi di Giasone costretto al ruolo di spettatore, e i cadaveri vengono gettati con spregio da Medea al padre.
Dalla vicenda di Medea, Seneca trae le conclusioni estreme: mentre lei fugge sul carro alato, le ultime parole di Giasone («Vai per gli alti spazi del cielo, testimonia che non ci sono dèi là dove tu passi»; vv. 1026-1027) gettano un’ombra inquietante sulla possibilità che in un mondo dominato dalla volontà individuale possa esistere un provvidenzialismo salvifico.»
tratto da Storia del teatro greco a cura di Massimo Di Marco, Carocci editore