“Medea” di Seneca

Medea, Seneca«Il dramma di Seneca (I secolo d.C.), che è quello che più ha orientato la trasmissione alla modernità, anticipa la vicenda al giorno del matrimonio fra Giasone e Creusa. Seneca insiste ancor più di Euripide sul protagonismo di Medea e sulla sua dinamica mentale, esplicitata nei monologhi: senza nessun prologo a esporre motivazioni e cause, qui Medea appare subito in preda all’ira, dominata dai propositi di vendetta. Anche i dialoghi con la nutrice, che acquista maggiore autonomia e funzionalità rispetto a Euripide, hanno la funzione di far emergere la passione della protagonista. Dell’affermazione iperbolica dell’io fa parte la consapevolezza delle potenzialità del nome, che diventa centro emblematico della tragedia: con una progressione climactica destinata ad avere grande successo nei rifacimenti successivi, si passa da «Resta Medea» (v. 166) a «NU.: Medea… ME: Lo sarò» (v. 171), a «Ora sono Medea» (v. 910). Seneca accentua anche l’isolamento di Medea: qui il coro maschile, che le è ostile, prima canta un epitalamio per le nozze di Giasone e Creusa e poi presenta la spedizione degli Argonauti come il nefas originario che deve essere punito. In sintonia con il coro è anche Creonte, uomo di potere preoccupato più per il bene del regno che per sua figlia, mentre la figura di Egeo viene cancellata. La magia trova grande sviluppo: la veste avvelenata per la rivale è preparata in un lungo rituale, prima descritto dalla nutrice nelle fasi non rappresentabili, e poi messo in scena direttamente da Medea.

Alla natura eroica di Medea fa da contrappunto la debolezza di Giasone, sempre spinto da motivi utilitaristici e politici, in particolare terrorizzato dalla possibilità che Acasto, figlio di Pelia, si allei con Creonte. Anche qui dimentico dell’aiuto determinante che Medea gli ha offerto (oblitus; v. 560), rimuove il lato oscuro di lei e solo di fronte alla vendetta recupererà la memoria perduta. E soprattutto risulta vulnerabile perché, alla richiesta di Medea di poter portare i figli in esilio con sé (il bando qui non li coinvolge), manifesta il proprio affetto paterno opponendo un diniego. L’infanticidio viene dunque razionalizzato da Medea: «Ama tanto i suoi figli? Bene, lo tengo in pugno, è chiaro dove può essere ferito» (vv. 549-550).

La figlia di Creonte acquista un nome, Creusa, ma non presenza scenica: un breve dialogo fra Medea e il messaggero condensa la lunga rhesis euripidea sulla sua morte, privandola dell’unico momento di protagonismo. Caratteristica distintiva di tutta la tragedia senecana è l’immagine dell’assassinio di Apsirto attribuito a Medea, che non cessa mai di riemergere alla sua coscienza: così anche la realizzazione dell’infanticidio è marcata dalla visione allucinata del fratello a cui i bambini vengono offerti come vittime sacrificali.

Il finale è un capolavoro di crudeltà: i bambini vengono uccisi separatamente, il secondo sotto gli occhi di Giasone costretto al ruolo di spettatore, e i cadaveri vengono gettati con spregio da Medea al padre.

Dalla vicenda di Medea, Seneca trae le conclusioni estreme: mentre lei fugge sul carro alato, le ultime parole di Giasone («Vai per gli alti spazi del cielo, testimonia che non ci sono dèi là dove tu passi»; vv. 1026-1027) gettano un’ombra inquietante sulla possibilità che in un mondo dominato dalla volontà individuale possa esistere un provvidenzialismo salvifico.»

tratto da Storia del teatro greco a cura di Massimo Di Marco, Carocci editore

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