
Max Reinhardt è stato uno dei maestri fondatori della regia moderna; e senz’altro, all’epoca, quello di maggior successo. Ma non è questa, la cosa più importante.
Marlene Dietrich, che era una sua grande ammiratrice e sostenne finanziariamente il Max Reinhardt Workshop of Stage, Screen and Radio di Los Angeles (aperto nel 1938), dichiarò che quanto si stava facendo attualmente in teatro era stato già sperimentato, in passato, da Max Reinhardt; la cui attività presente stava tracciando il profilo dei palcoscenici futuri.
Proprio dalle pieghe di questa sua dichiarazione credo emerga bene la reale importanza dell’attore e regista austriaco: quella di aver saputo a suo tempo, come nessun altro, fungere da grande anello di congiunzione tra la storia passata, l’attualità e il futuro del teatro; guardando a una circolarità omnicomprensiva e atemporale in luogo di formule, schemi e precetti, la cui validità egli sapeva essere sempre relativa e contingente.
Mosso da una concezione ‘alchemica’ dell’arte, vista come luogo di congiunzione degli opposti, Reinhardt non dimenticò mai il retaggio tardoromantico che aveva assimilato negli anni della gioventù viennese. Coniugò quell’eredità con il Naturalismo di Otto Brahm – dominante a Berlino fra Ottocento e Novecento – che fece a sua volta dialogare con il Simbolismo di matrice francese e con le varie esperienze nate in reazione al dominio dell’estetica naturalista, nei primi anni del XX secolo.
Più di chiunque altro seppe comprendere come a vivificare l’arte tutta – e in specie quella ‘eminentemente umana’ del teatro – fosse la varietà, non la piatta adesione a questo o quel principio estetico; figlia di un tempo, diceva già nel 1895, che “aveva bisogno, con la più minuziosa pedanteria, di incasellare tutto, di comprimere in scomparti, scatole e forme”.
Per questo Reinhardt, che odiava le ‘etichette’, si è misurato con tutti i generi e i linguaggi: drammaturgia classica e contemporanea, la pantomima, il Kabarett e le opere musicali; dando vita ad allestimenti grandiosi e sfarzosi, lavorando al chiuso e all’aperto, in spazi intimi e immensi; sapendo servirsi in modo magistrale degli espedienti scenotecnici più innovativi, così come di un palco nudo.
Inoltre, cosa di non secondaria importanza, in Reinhardt le ragioni dell’arte e quelle del commercio, invece di collidere, si sposavano in una sintesi felice. È stato, proprio lui, l’ultimo attore, regista e pedagogo capace di diventare anche un grande impresario teatrale. Tanto da finire per guadagnarsi l’appellativo – uno fra i tanti – di ‘teatrarca’.
Quali vicende hanno maggiormente segnato la vita e l’attività artistica di Reinhardt?
Vita e arte erano per Reinhardt un’unica cosa: due sfere inscindibili, in stretta e continua interrelazione. Aveva un’intelligenza aperta e profonda, era mosso da una curiosità insaziabile e una voglia continua di sperimentazione. Tutto ciò con cui veniva a contatto era fonte di riflessione e di ispirazione e contribuiva dunque alla ricchezza del suo teatro. Che era sempre grandioso, anche quando faceva a meno di scenografie mirabolanti e si accontentava di un semplice palco.
Di sicuro, però, se dovessimo elencare le esperienze ‘decisive’ per la sua attività artistica, potremmo dire che queste, sostanzialmente, furono tre: in primo luogo, la frequentazione dei teatri viennesi a fine Ottocento, negli anni dell’adolescenza e della prima gioventù. Fin da ragazzino, Reinhardt fu uno spettatore assiduo sia dei teatri cosiddetti ‘periferici’ della capitale, che del rinomato e ‘amato’ Burgtheater: il teatro più importante di Vienna e il primo, all’epoca, fra quelli di lingua tedesca. Guardando recitare i grandi attori della Burg (come veniva chiamata, familiarmente, la compagnia del Burgtheater), individuò i principi su cui avrebbe in futuro orchestrato il suo teatro: atmosfera, sogno, immaginazione e soprattutto il ruolo della fantasia creatrice come unione di tutti i codici dello spettacolo.
Per sua stessa ammissione, però – e qui veniamo al punto due – la cosa più importante che egli apprese per il teatro non la imparò stando a teatro, ma partecipando alle conferenze che il medico psichiatra Richard von Krafft-Ebing tenne a Vienna nell’estate 1894, quando Reinhardt era in procinto di trasferirsi a Berlino per consolidare la sua carriera d’attore.
Con grande curiosità ed entusiasmo – dopo avere assolto, sotto la guida di un amico medico, a letture ‘preparatorie’ – il futuro regista assistette allora a una serie di lezioni teoriche e dimostrazioni pratiche sull’ipnosi in stato di veglia. Da qui ricavò – facendone evidentemente tesoro – il concetto della suggestionabilità come disposizione a trasformare un’idea in azione. Quando sarà ormai un regista di fama mondiale, racconterà che il suo lavoro consisteva sempre, all’inizio, nel lasciarsi ‘suggestionare’ dal testo. L’idea dello spettacolo nasceva in lui solitamente da un ‘incanto’ delle immagini che si sprigionavano dalla lettura dell’opera, secondo un processo non sempre immediato, ma che una volta trovata la via si dipanava da sé, in modo conseguente; come per ‘magia’.
In terzis va di certo menzionata la scoperta della musica: Reinhardt non dimenticò mai la prima visita al Konzertsaal di Berlino, l’impressione potente e inspiegabile suscitata in lui dall’amalgama dei suoni. La musica destò in lui sensazioni nuove, fecondava il suo animo e la fantasia. E la fantasia, forza magica rappresentativa, diverrà per lui lo strumento che gli consentirà di immaginare e creare ogni realtà voluta. La frequentazione del Konzertsaal contribuì in modo determinante, nella sua mente, al precisarsi della concezione dell’arte come territorio ‘magico’, che avrebbe sempre informato il suo lavoro.
Le vicende che hanno invece segnato più strettamente la sua biografia, direi che sono quelle legate al profilo complesso dell’Impero Asburgico e alla storia della Germania pre- e post Repubblica di Weimar. Al primo posto metterei l’antisemitismo, prima strisciante e poi montante, nella Vienna di fine Ottocento e nella Germania al tempo dell’ascesa di Adolf Hitler. All’anagrafe, Reinhardt faceva Goldmann: un cognome che svelava le sue origini ebraiche e che egli decise di cambiare in occasione del debutto come attore, nel 1890. Questo però, si badi bene, non significò mai il ripudio delle proprie radici: nel mese di aprile 1933 (a gennaio, ricordiamo, Hitler era divenuto cancelliere), Hermann Göring offrì a Reinhardt l’arianità ‘onoraria’, a patto che egli abiurasse la propria origine ebraica. Il regista rifiutò decisamente, ben sapendo che ciò avrebbe significato la perdita di tutto quello che aveva conquistato nel corso di una fulgida carriera.
Quando nel 1940 comincerà a scrivere la propria autobiografia, che restò incompiuta, l’incipit sarà: “I. b. e. J.”, ovvero Ich bin ein Jude: “Sono un ebreo. E questo vuol dire molto. Lo premetto, perché è quanto di più fiero io possa dire di me”.
Reinhardt era credente, ma non era stato mai un ebreo praticante. Confidava nell’esistenza di Dio, al di là delle confessioni religiose; e come in teatro innovava, inventava e sperimentava in una dialettica continua con il passato e la tradizione, anche nella vita sposò l’idea dell’orgoglio nietzschiano dell’albero per le proprie radici. E quelle ebraiche erano le sue.
Una fedeltà che avrebbe deciso del suo tramonto.
Come si sviluppò la sua attività di impresario teatrale?
Gli inizi dell’attività come impresario teatrale sono legati alle esperienze degli anni in cui Reinhardt era ancora sotto contratto al Deutsches Theater di Otto Brahm; e resi possibili dal clima economico e culturale della Berlino di Guglielmo II, in forte espansione.
Dopo avere partecipato ad alcune associazioni accademiche e letterarie, alla fine di gennaio 1901 Reinhardt decise di fondare il Kabarett Schall und Rauch. Kleines Theater (Suono e Fumo. Piccolo Teatro). Il fratello Edmund aveva una formazione come bancario e così, non appena venne inaugurata la nuova attività, Reinhardt decise di chiamarlo da Vienna a Berlino, per lavorare alla neonata impresa. Da allora in poi, i due fratelli avrebbero sempre operato fianco a fianco, e fu proprio in virtù dell’unione dei rispettivi talenti, che Max Reinhardt sarebbe divenuto il ‘teatrarca’.
Dal 1902, lo Schall und Rauch fu attivo con il solo nome Kleines Theater e ottenne il suo primo, grande successo, con la messinscena del Nachtasyl di Maksim Gor’kij. I guadagni derivati dallo spettacolo – portato anche in tournée – permisero a Reinhardt, naturalmente coadiuvato dal fratello Edmund (che era “il miglior curatore degli interessi di un teatro che si possa mai immaginare”), di rilevare il Neues Theater. Qui, nel gennaio 1905, venne allestito il celeberrimo Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare. Il successo dello spettacolo fu davvero epocale e gli introiti tanti e tali, da consentire a Reinhardt l’acquisto – in quello stesso 1905 – del Deutsches Theater.
Accanto ad esso, già l’anno successivo il regista aprì lo spazio dei Kammerspiele (un teatro più piccolo, per la drammaturgia contemporanea) e da allora in poi cominciò la costruzione di un vero e proprio impero teatrale.
Edmund, il fratello di Max Reinhardt, era abilissimo nel trovare finanziatori e sostenitori; sempre coinvolti, di volta in volta, come azionisti nelle diverse imprese. Grazie al loro sostegno, non solo fu possibile per Reinhardt acquisire sempre nuovi spazi, ma anche farli ristrutturare dai maggiori architetti del tempo, i quali li dotarono tutti delle più avanzate e costose innovazioni scenotecniche.
Alla fine, tra Berlino, Vienna e Salisburgo, il consorzio teatrale di Reinhardt (proveniente da una modesta famiglia ebraica di Vienna, sempre in lotta contro le difficoltà finanziarie) arriverà a contare ben otto teatri.
Quelli di Berlino, il regista li rimise tutti nelle mani dello Stato il 16 giugno 1933.
Come interpretò Reinhardt il binomio teatro-scuola?
Il binomio teatro-scuola, per Reinhardt, era assolutamente inscindibile. Perché in un teatro-scuola era cresciuto, si era formato e aveva visto nascere grandi talenti.
La famiglia lo aveva destinato a una formazione come bancario, ma deciso a diventare attore, grazie al sostengo economico di una zia paterna, cominciò a prendere lezioni private da un figurante del Burgtheater. All’età di diciassette anni approdò al più antico e rinomato fra i teatri-scuola che – in assenza di un’accademia pubblica di recitazione – sempre più numerosi sorsero a Vienna nel penultimo trentennio dell’Ottocento: il teatro privato del principe Ludwig Sułkowski. Da quel piccolo spazio, di appena duecento posti, erano usciti alcuni fra i più noti attori austriaci, tra cui il grande Josef Kainz: l’attore che Reinhardt avrebbe considerato “incontestabilmente il più geniale” tra quelli di Berlino, quando ebbe modo di conoscerlo e recitare con lui fianco a fianco, sotto la guida di Brahm.
Due volte a settimana, gli allievi del teatro Sułkowski si esibivano davanti a una platea che non comprendeva solo amici e familiari, ma anche, talvolta, attori e direttori di teatro in cerca di nuovi talenti. Il passaggio dalla ‘scuola’ al professionismo era così naturale.
Appena acquistato il Deutsches Theater di Berlino nel 1905, Reinhardt, che aveva già avuto modo di ‘testare’ le sue inclinazioni pedagogiche al Berliner Stern’schen Conservatorium (dove nell’ottobre 1901 era stato assunto come insegnante di recitazione) decise subito di annettervi una scuola.
L’intenzione era offrire ai giovani talenti, in luogo di percorsi improvvisati e spesso scadenti, forniti dai privati, una formazione organica e completa, sotto insegnanti qualificati. Da allora in poi, l’educazione dell’attore sarebbe stata uno dei primi pensieri di Max Reinhardt; che sempre considerò l’interprete non solo il perno del teatro, ma il depositario della sua essenza. E per un attore non c’era altro posto, per imparare a fare teatro, che lo stare in teatro. Come gli aveva insegnato l’esperienza al Sułkowski.
Ci terrei a precisare come, diversamente dai cosiddetti registi-pedagoghi – Stanislavskij in testa – Reinhardt non abbia mai elaborato un Sistema, o messo a punto una tecnica. Perché nessuna tecnica e nessun Sistema sarebbero serviti a fargli raggiungere il suo scopo, che non era creare attori bravi, ma tirare fuori personalità forti.
In un appunto non datato, egli scrive di non pensare a una scuola con cattedra e lezioni, ma piuttosto come a una bottega, in cui gli apprendisti imparano a fare teatro facendo teatro.
Nella sua ottica le ‘lezioni’, che pure erano tenute da un corpo insegnante di tutto rispetto, dovevano funzionare semplicemente da stimolo, di cui ciascun allievo si sarebbe servito – congiuntamente alla pratica di palcoscenico – per arrivare a costruire, autonomamente, la propria formazione.
Tutte le scuole fondate e dirette da Reinhardt, a partire da quella berlinese annessa al Deutsches Theater, passando per quella viennese sita nel castello di Schönbrunn (aperta nel 1929) e finendo con il Max Reinhardt Workshop of Stage, Screen and Radio (a cui Reinhardt avrebbe voluto affiancare anche una scuola di teatro per bambini) erano basate su questi pochi, saldi principi. Su una visione che oggi potremmo definire ‘quantica’, la cui forma era impressa dalla guida ‘spirituale’ di Max Reinhardt.
Arte e spiritualità, d’altronde, erano per lui due sfere in stretta relazione l’una con l’altra. Per molto tempo, insieme alla seconda moglie, l’attrice Helene Thimig, accarezzò l’idea di costituire uno Schauspielkloster: una sorta di convento per gli attori, con le celle a forma circolare. Qui, gli artisti si sarebbero ritirati per sei mesi all’anno, per poter lavorare su loro stessi e all’allestimento degli spettacoli.
Perché per Reinhardt la professione dell’attore non consisteva “nella finzione esteriore, ma nella rivelazione più intima”. Una volta raggiunta la via che porta a sé stessi, disse nel 1922, “si apre anche la strada agli altri uomini, poiché nel nostro io più profondo nulla di umano ci è estraneo”.
Qual è l’eredità di Reinhardt?
Difficilissimo rispondere a questa domanda. Quando Reinhardt morì, nel 1943, qualcuno scrisse che di tanto in tanto il mondo perdeva la fantasia, il fascino, la magia, la ricchezza coloristica, la musicalità, l’improvvisazione, l’umore, il genio. Ma con Max Reinhardt se n’erano andati tutti, contemporaneamente. Certamente, il suo operato ha fatto scuola e ha lasciato tracce, anche se non immediatamente riconosciute e riconoscibili: nell’arte dei grandi attori che erano cresciuti sotto la sua ala, e che a loro volta hanno formato nuove generazioni d’artisti di cinema e di teatro; nei registi tedeschi – non solo teatrali – che provenivano dalla sua ‘scuola’, e che in concomitanza della guerra hanno portato quegli impulsi anche oltreoceano. Infine, nei colleghi stranieri che lo avevano preso a modello. Come il fiorentino Guido Salvini (prima collaboratore di Pirandello e poi ‘allievo’ di Reinhardt) o il triestino Giorgio Strehler, nel quale Helene Thimig vide il ‘parallelo’ e la continuazione di Max Reinhardt.
Io però credo che il vero lascito di Reinhardt sia caduto nell’oblio, e che difficilmente possa essere recuperato in tempi – avrebbe detto il regista austriaco – di ‘pericoloso materialismo’, che rifiutano il trascendente, in cui il vocabolo ‘spiritualità’ suona come una parolaccia e chi parla di ‘anima’ viene spesso deriso e tacciato di oscurantismo.
Al suo ultimo scritto, Resignation (1943), Reinhardt consegnò una riflessione amara sull’impossibilità, nelle attuali condizioni, di fare teatro seriamente; e sulla tragicità dei tempi. L’una era figlia e conseguenza dell’altra. Perché come poteva il destino inventato da un poeta – si chiedeva – “commuovere una platea resa forzatamente insensibile dal bombardamento continuo degli orrori quotidiani a cui era sottoposta? Come poteva anche la più perfetta rappresentazione del più perfetto dei testi, con la più fantastica delle scene, produrre il suo effetto, se non c’erano uomini disposti a credere ai miracoli? Quando il destino del mondo era in mano a individui che tanto somigliavano a quella mosca che, seduta sulla ruota del carro che gira, nota con orgoglio: Però, quanta polvere sollevo! [E] non vedono il signore che guida il carro e ignorano anche la meta verso cui sono diretti”.
Riflessione di un’attualità impressionante. Qui sta, per me, l’eredità di Reinhardt.