
Per superare plurisecolari problematiche in ordine alla certezza del vincolo, alla legittimità della prole e a una cripto-poligamia diffusa, e per garantire allo stesso tempo un più stretto controllo dei padri sui matrimoni dei figli, dai quali discendevano conseguenze dal punto di vista patrimoniale, nonché l’instaurarsi di vincoli di affinità, e perciò una solidarietà familiare, con una certa schiatta, per la validità delle nozze i riformatori religiosi del Cinquecento richiesero il consenso genitoriale per i minorenni e inoltre la presenza dei testimoni e del pastore: su questa linea si attestarono in tempi diversi le città e i territori riformati. Da luogo a luogo vi erano d’altra parte notevoli differenze, in quanto la maggiore età era talvolta fissata a sedici anni, talaltra a venti o a venticinque, o a un’età intermedia tra queste. Tra i protestanti, questa linea non fu accolta dagli anglicani: la dottrina del consenso secondo le modalità antiche, e con essa la validità dei matrimoni clandestini, si preservò in Inghilterra fino all’Hardwicke Marriage Act del 1753.
Nel XVI secolo, le pressioni degli Stati e gli interventi dei riformatori religiosi resero non più procrastinabile per la Chiesa cattolica una profonda riflessione sul tema, che avvenne nel corso del concilio di Trento (1545-1563). Una società ordinata e rigidamente monogama confliggeva in radice con la clandestinità nuziale, il bonum commune avrebbe richiesto una netta presa di posizione per l’invalidità, ma da tempo immemorabile la Chiesa aveva stabilito che l’uomo e la donna erano i celebranti il matrimonio e che, a prescindere dalla pubblicità delle nozze, era la manifestazione del consenso, nella libertà, a determinare l’effetto del vincolo. Taluni, in particolare i prelati francesi, in maggioranza di estrazione nobiliare, volevano che anche la Chiesa imponesse l’assenso genitoriale, altri richiesero ad validitatem la presenza dei testimoni, altri ancora, i vescovi italiani, in nome della tradizione e per preservare la libertà individuale, che si mantenesse lo status quo. L’11 novembre 1563 si approvò il Decretum de reformatione matrimonii in dieci capi. Con riferimento alla materia dei matrimoni clandestini, nel primo (Tametsi) ci si ricollegava al tono e alle parole del IV concilio lateranense ma, nelle parrocchie nelle quali il decreto veniva pubblicato, a partire dal trentesimo giorno successivo alla prima pubblicazione, i soggetti erano dichiarati incapaci di contrarre in assenza del curato, o di un sacerdote delegato dal curato o dall’ordinario, e dei testimoni. In tal modo, s’introduceva nell’ordinamento canonico l’impedimentum clandestinitatis: l’antica riprovazione si mutava in divieto.
Gli studiosi sono soliti affermare che con il concilio di Trento il matrimonio viene portato all’interno della Chiesa, che al clero si attribuisce un ruolo decisivo nella celebrazione e per la validità del sacramento, che, in opposizione ai matrimoni aformali dei secoli precedenti, il coniugio assume da questo momento una forma necessaria, che l’anno 1563 rappresenta pertanto una cesura nella storia dell’istituto al punto che, rispetto al Tridentino, vi è un prima e un dopo.
Cosa stabilisce il decreto De reformatione matrimonii del 1563?
Come dicevo, con il decreto si stabilisce che lo scambio dei consensi nuziali deve avvenire in presenza del parroco, o di un sacerdote delegato dal parroco o dall’ordinario, e di almeno due testimoni, che dev’essere preceduto da tre pubblicazioni di matrimonio e seguito dalla formula nuziale pronunciata dal parroco, dalla benedizione degli sposi e dall’annotazione del matrimonio nel registro parrocchiale. In numerose parrocchie in Francia, in Germania, in Polonia, nei Paesi scandinavi e altrove il decreto, non pubblicato, non entrò in vigore: in questi territori si potevano ancora contrarre validi matrimoni clandestini.
Quali orientamenti giurisprudenziali adottò la Sacra Congregazione del Concilio?
La Sacra Congregazione del Concilio individuò gli essentialia matrimonii nella libera manifestazione del consenso da parte dell’uomo e della donna non impediti alle nozze, nella presenza fisica e morale del curato e di almeno due testimoni. Poiché tutti gli altri elementi indicati nel Tametsi erano meramente accidentali, poiché tutto il resto era, insomma, nella disponibilità dei nubendi, il matrimonio tridentino poté assumere molte e diverse forme, perfezionandosi persino nell’espressione non verbale del consenso nuziale.
Nelle parrocchie nelle quali il decreto de reformatione matrimonii era stato pubblicato, non ovunque vi erano peraltro presbiteri e vescovi cattolici, non ovunque li si poteva far intervenire allo scambio dei consensi senza che gli stessi e i nubendi rischiassero la vita; quel che era vero in particolare nei territori riformati. Clamorosa fu la vicenda dei cattolici della Frisia, dell’Olanda e della Zelandia, che per diversi lustri non poterono contrarre matrimonio poiché il decreto tridentino era stato pubblicato ma, prevalendo in seguito i calvinisti, mancarono i parroci o fu estremamente pericoloso incontrarli. Nel 1602 la Sacra Congregazione del Concilio espresse una posizione chiaramente innovativa, emanando per questi territori un decreto con il quale si stabilì la forma straordinaria del matrimonio: nelle parrocchie nelle quali il Tametsi era stato pubblicato, se il curato era fisicamente o moralmente assente, costituiva valido matrimonio lo scambio dei consensi in presenza dei testimoni. Solo per limitarci all’età moderna, la Congregazione per la Propaganda estese in seguito la vigenza di questo decreto al Giappone (1625), al Tonchino (1670) e alla Cina (1784).
Quale dibattito dottrinale si sviluppò a riguardo da parte di canonisti e teologi?
Il dibattito dottrinale fu ampio e toccò molteplici aspetti. Nel libro mi soffermo sulle diverse posizioni espresse dai canonisti e dai teologi di età moderna in riferimento al matrimonio presunto che ha luogo in presenza del curato e dei testimoni, in riferimento alla solemnis traductio ad domum della promessa sposa, sul matrimonio di chi trasferisce il domicilio, acquisisce il quasi domicilio o semplicemente si sposta dove non si è recepito il decreto, sulle nozze dei senza fissa dimora, su quelle dei cristiani che si trovavano a vivere tra gli infedeli, sul matrimonio in articulo mortis o urgente necessitate, sull’applicazione della forma straordinaria del matrimonio, sul matrimonio a sorpresa che ha luogo con l’inganno o la coazione del curato o dei testimoni.
In generale, il dibattito del quale si dà conto verte su situazioni liminari, in riferimento alle quali il pensiero è chiamato a proporre riflessioni talvolta innovative in assoluto, talvolta aprendo alla tradizione e mutandone i termini; come quando alcuni matrimoni clandestini che prima del Tridentino erano considerati, oltre che rati, anche non peccaminosi – perché vi erano ragioni particolari che li giustificavano – dopo il concilio, al contrario di tutti gli altri, sono ritenuti validi. Alcune fattispecie pratiche, oggetto della riflessione, possono peraltro giudicarsi forse di scarso impatto nelle prassi nuziali, quasi casi di scuola, e fors’anche mere pruderie intellettuali – quel che si afferma talvolta da parte degli stessi autori di quei secoli, ma non mancano in realtà le ragioni per sostenere il contrario –, altre dovettero invece avere importanti ricadute nella vita di quei secoli.
La Sua ricerca mostra che persisterono tuttavia ampi spazi per mantenere in vita i matrimoni aformali dei secoli precedenti.
Nel momento in cui non si poteva impedire agli uomini di spostarsi, il fatto che si fosse scelto di far derivare la vigenza del decreto dalla pubblicazione, il fatto che il Tametsi fosse dunque in vigore solamente in certe parrocchie, aveva necessariamente conseguenze rilevanti sulla possibilità di mantenere in vita i matrimoni aformali del passato. Prima del concilio tutti i nubendi potevano sposarsi semplicemente manifestandosi l’un l’altro il consenso nuziale, dopo il concilio potevano farlo tutti coloro che avevano il domicilio nel territorio delle parrocchie dove non si era recepito il Tametsi, i molti vagabondi temporaneamente dimoranti nel territorio delle stesse e quanti, per mantenere la precedente libertà nuziale, erano disposti a trasferire il domicilio o ad acquisire il quasi domicilio in questi territori.
Con il decreto conciliare s’introdusse una straordinaria novità nell’istituto del matrimonio che, tuttavia, senza dubbio, continuò a declinarsi, con sfumature più o meno marcate, in molti e diversi modi, non assumendo ovunque forme radicalmente innovative, il tratto inconfondibile della cesura nella storia del costume, della società, del diritto. Per quanto a Trento si fosse molto discusso per superarlo, per quanto l’11 novembre 1563 si fosse deciso, a maggioranza, in questo senso, la vicenda storica del matrimonio ‘medievale’ continuava nei secoli dell’età ‘moderna’.
Giuseppe Mazzanti (Imola, 1972) è professore associato di Storia del diritto medievale e moderno presso il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Udine. Ha curato l’edizione critica del volume Guarnerius Iurisperitissimus, Liber divinarum sententiarum, prefazione di A. Padoa Schioppa (Spoleto, 1999) ed è autore dei volumi L’incesto come reato? Dinamiche e dibattiti in età moderna (Bologna, 2012), Matrimoni post-tridentini. Un dibattito dottrinale fra continuità e cambiamento (secc. XVI-XVIII), (Bologna, 2020) e Un imperatore musulmano. Il Liber de sceleribus et infelicitate perfidi turchi ac de spurcitia et feditate gentis et secte sue (1467/1468) di Rodrigo Sánchez de Arévalo (Bologna, 2020). Ha inoltre pubblicato i romanzi Eresia e delitto. Un giallo medievale (Bologna, 2005) e L’inganno della virtù (Roma, 2009).