
Prima di rispondere credo sia necessario fare alcune precisazioni per chi non si occupa normalmente di mondo antico. Gli studiosi moderni cercano di ricostruire la vita delle persone che hanno vissuto nell’evo che definiamo antico attraverso fonti che sono di necessità assai parziali, sia nel senso che rappresentano soltanto una parte di quello che è stato prodotto, sia nel senso che rappresentano soltanto una parte della società (e cioè, tendenzialmente, la parte benestante e maschile), sia, ancora, nel senso che appartengono a un ristretto numero di generi letterari “nobili” (poesia, oratoria, trattati filosofici…), sulla base dei quali è velleitario e metodologicamente inappropriato pensare di poter ricostruire i vari aspetti di una società nella sua interezza. Ci sono, accanto alle fonti scritte, ovviamente quelle archeologiche, che però, a parte nel loro dato puramente materiale, tendono a venire interpretate solo in relazione alle fonti scritte (nonostante le problematiche relative alle fonti scritte testé elencate). A me piace provocatoriamente fare la seguente battuta: le fonti archeologiche sono più attendibili, in quanto silenziose: almeno non possono mentire! C’è, infine, una categoria di fonti che si pone a metà strada fra fonti archeologiche e fonti scritte, abbracciandole entrambe: le fonti epigrafiche, in particolare le iscrizioni funerarie. Qui troviamo anche donne, anche madri (e sarebbe strano se fosse altrimenti). Queste fonti sono, quindi, importantissime, ma hanno un problema che non deve essere mai sottovalutato: il materiale funerario, che sia un’iscrizione o che sia un ritratto, rappresenta una realtà idealizzata. Ci dice tantissimo su come una persona voleva essere ricordata (e quindi sulle raffigurazioni normative della società in cui viveva), meno forse sulla realtà della sua esistenza. Mi viene in mente una sola eccezione, in cui un marito sull’epitaffio della moglie lascia scritto ai posteri che è stata una pessima consorte, ma questa è un’altra storia! Ovviamente non sto mettendo in discussione l’amore dei genitori espresso su un monumento funerario per il figlio, ma voglio far capire quanto sia problematico “maneggiare” le fonti antiche.
Ciò detto, questo è quello che abbiamo e che dobbiamo provare a utilizzare per far emergere dal buio e dal silenzio le esistenze di persone che non hanno potuto lasciare traccia diretta della loro (micro)storia.
Io mi occupo di una parte della società che per secoli, per molti secoli anche successivamente alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, non ha avuto voce diretta, nella migliore delle ipotesi l’ha avuta mediata: le madri. Tolte le imperatrici, le madri insigni d’eroi – che chiaramente devono la loro notorietà all’essere “madri di…” –, le cui vicende sono narrate da uomini, le madri vivono di solito la loro esperienza di vita nell’anonimato e nel silenzio. Le donne del passato neanche troppo remoto, in generale, assai di rado avevano la possibilità di lasciare traccia scritta di sé: le poche donne adeguatamente istruite di solito vivevano nei monasteri, quindi non erano madri, o, se lo erano, raramente mettevano al centro dei loro scritti la loro esperienza materna. Certo, si può sempre fare l’esempio di Saffo che non cambierebbe la figlia con tutta la Lidia, ma questo esempio non fa, in realtà, altro che confermare quello fin qui asserito: cosa ci dice questa poesia in merito all’esperienza concreta, quotidiana di Saffo come madre, se non che amava immensamente la figlia? Niente. Presa nel suo isolamento e nella sua eccezionalità, niente. Emerge “solamente” l’ovvietà dell’amore materno – ovvietà che, però, in ultima analisi potrebbe anche essere finzione poetica.
Quindi dobbiamo rinunciare a studiare simili argomenti e tornare a fare soltanto mera esegesi dei testi classici? Assolutamente no! Dobbiamo, però, tenere presente che siamo di fronte a ricostruzioni di necessità ipotetiche, per quanto verosimili. Verosimiglianza è una parola chiave. Un valido strumento per ottenerla – se utilizzato con le dovute cautele – è quello della cosiddetta longue durrée. La longue durée non è utilizzabile per tutti i temi di ricerca, lo è soltanto per quelli al cui interno possiamo riscontrare una certa refrattarietà al cambiamento: tematiche che abbracciano la medicina, soprattutto la ginecologia e la medicina “popolare”, il folklore, la psicologia umana e la natura dei rapporti interpersonali basati sul legame di sangue e/o sulla consuetudine. Ovviamente i cambiamenti non vanno ignorati o sottostimati: sono, al contrario, fondamentali per creare il contesto entro cui la ricerca si svolge.
Mondo greco e mondo romano sono realtà assolutamente distinte: esiste il mondo greco, esiste il mondo romano, e al loro interno esistono realtà estremamente variegate a seconda dell’epoca e della zona. Non si vuole certo cercare di costruire una sorta di storia “universale” della maternità né della famiglia, ma, considerando – per fare l’esempio che mi viene più immediato –la coerenza e il carattere tendenzialmente conservativo delle teorie ginecologiche nel mondo antico e del ruolo pensato per la madre all’interno della cerchia familiare, e considerando la coerenza e la verosimiglianza delle ricostruzioni che si possono ipotizzare rispetto a un meglio noto quadro di insieme, con le dovute cautele si possono utilizzare le poche fonti greche insieme alle poco più numerose fonti romane per ricostruire un quadro generale relativo all’allattamento nel mondo sia greco che romano.
La maternità, nel suo porsi a cavallo fra “natura” e “cultura” (in realtà io preferisco parlare di “esperienza vissuta” e “rappresentazione normativa”, come chiarirò successivamente) è un oggetto di studio privilegiato in una simile ottica.
Questa lunga premessa è funzionale per arrivare a rispondere a questa prima domanda, e introdurre il concetto di relazioni di atteggiamento, che in realtà non è mio, ma di Maurizio Bettini. Egli definisce atteggiamento «quel particolare schema di comportamenti che è assegnato di volta in volta a un individuo nei confronti delle persone in base a cui il suo “ruolo” familiare è stabilito». L’atteggiamento che ci si aspetta da tizio o da caia in quanto padre o madre, zio o zia (nel mondo antico fa molta differenza essere zii da parte di padre o di madre), nonno o nonna, rappresenta quindi la norma. Rispetto a questa norma, si cerca di intravedere nelle fonti (letterarie o archeologiche) possibili scarti. La famiglia, in Grecia e a Roma, non va intesa come famiglia nucleare in senso moderno, ma come famiglia “allargata”: fanno parte di essa tutte le persone che vivono dentro l’oikos o dentro la domus. Siamo, in generale, meglio informati per Roma che per la Grecia.
Veniamo finalmente agli “atteggiamenti” genitori-figli. In Grecia il potere del padre è ampio, anche se ben più ridotto di quanto accadesse a Roma; in ogni caso da un figlio ci si attende un atteggiamento di deferenza e di rispetto. Un aspetto particolarmente interessante è l’obbligo del figlio di mantenere il genitore anziano, percepito alla stregua di un contraccambio delle cure prestate al figlio durante l’infanzia (un vero e proprio debito di nutrimento). Poi, dopo la morte, era dovere del figlio seppellire il genitore e celebrare per lui pratiche rituali riconosciute dalla tradizione. Un obbligo analogo esisteva anche a Roma. La relazione fra madre e figlio sembra caratterizzata da un affetto a tratti debordante, che nel caso del rapporto fra madre e figlia sfocia quasi nell’identificazione reciproca.
Nella cultura romana il sistema di atteggiamenti sembra distinguere le relazioni orizzontali fra fratelli da quelle verticali fra padri e figli, le prime caratterizzate da un forte senso di solidarietà reciproca e da un contenuto affettivo culturalmente valorizzato, le seconde improntate piuttosto a severità e freddezza. Per quanto concerne la madre, il rapporto con i figli risulta improntato a solidarietà, comprensione e affetto, anche se le aspettative variano significativamente in base all’epoca. La morale tradizionale repubblicana prevedeva, infatti, che le madri romane fossero molto severe con i loro figli: la materna auctoritas era un coerente complemento della proverbiale, dura, patria potestas esercitata sui figli dai padri. Ma Tacito, a esempio, ci informa che le donne con figli della sua epoca avevano perduto il loro tradizionale senso di disciplina ed auctoritas, fenomeno che lo storico, legato alla conservatrice ideologia senatoria, non doveva gradire affatto.
Oltre ad un’attitudine severa (e indipendentemente dal fatto che questa, almeno secondo Tacito, col tempo andasse scemando), le fonti ci tramandano che le madri romane avevano un significativo potere sui figli per quanto ne concerneva l’educazione e la cura delle facoltà retoriche. Certo, la figura (maschile) del pedagogo era un elemento imprescindibile nell’educazione dei giovani rampolli romani già dalla media Repubblica. Ma ciò non significava che le madri dell’élite non avessero voce in capitolo nell’educazione della prole, che in generale appare molto più significativo di quello esercitato dalle madri greche.
Vorrei fare un’ultima puntualizzazione: molti studiosi moderni hanno cercato di svilire il ruolo del bambino all’interno della famiglia greca e romana, sulla base di alcune indicazioni offerte, a esempio, da Cicerone, relative al non piangere eccessivamente per la morte di un bambino piccolo, o della similitudine plutarchea fra bambino e pianta. La logica sarebbe la seguente: considerando l’alta mortalità degli infanti nel mondo antico, gli adulti avrebbero cercato di non attaccarsi affettivamente a loro. Strategie di “auto-protezione” da parte dei genitori per la possibile dipartita anzitempo della prole sono assolutamente riscontrabili nella documentazione in nostro possesso, ma questo non significa che gli adulti non fossero affezionati ai piccoli. A contrario, le fonti sembrano indicare un profondo legame genitori-figli, incluso padre-figlio/a piccolo/a (segno che i figli di certo non stavano chiusi dentro il gineceo con la madre durante i primi anni di vita!), come proprio gli stessi Cicerone e Plutarco dimostrano nel piangere accoratamente le rispettive figlie (morte in età e circostanze assai diverse). Tutta la famiglia, in senso “allargato”, sembra coinvolta nella protezione dei piccoli di casa, anche con mezzi religiosi e iatromagici.
Qual era il ruolo della madre dal concepimento all’educazione dei figli?
Il ruolo dell’educazione della madre è già stato in parte illustrato, e ci tornerò a proposito della socializzazione del bambino. Per quanto concerne il concepimento, in generale possiamo affermare che il ruolo della madre era, per i medici, assai più attivo e rilevante di quanto siamo abituati a pensare, influenzati dalla celeberrima similitudine aristotelica dell’utero come vaso contenitore o dalle altrettanto famose parole di Apollo nelle Eumenidi da cui si evince che il padre genera, la madre si limita a partire (e da certe letture “femministe” che devono ormai ritenersi sorpassate). Lungi dall’essere considerato un ricettacolo passivo, l’utero materno era il luogo della fusione di sangui diversi e della successiva creazione di un’identità parentale forte, come quella fra fratello e sorella.
Qual era il ruolo della nutrice e di altre figure vicarie e “di attaccamento” a fianco della madre nel mondo greco e romano?
Il tema dell’allattamento mercenario è sicuramente uno dei più appassionanti e meno studiato, forse perché è il più lontano dal nostro sentire contemporaneo. Eppure, prima dell’invenzione della pastorizzazione, prima dell’invenzione del latte artificiale, è del tutto inverosimile pensare che un bambino conoscesse per i primi 2-3 anni di vita un solo seno.
Le ragioni per cui una donna poteva essere costretta a non allattare in maniera esclusiva sono numerose: malattia anche soltanto temporanea della puerpera o eccessivo affaticamento legato al parto, ipogalattia, parto gemellare, divorzio e successive nozze del padre, che prendeva con sé il piccolo o lo mandava a balia, divieto di utilizzare il colostro per un periodo variabile che può arrivare fino a 40 giorni, bisogno di assentarsi, il lungo periodo di allattamento che poteva portare a una certa stanchezza nella mente e nel fisico e anche intralciare il desiderio o il “dovere” di fare altri figli (con conseguente interruzione dell’allattamento per favorire una nuova gravidanza), il desiderio del marito di avere rapporti sessuali regolari (durante l’allattamento i rapporti sessuali sono fortemente sconsigliati per evitare di “corrompere” il latte con lo sperma. Latte, sangue e sperma condividono, infatti, la stessa natura per gli antichi). Da una diversa prospettiva, poteva anche sussistere l’eventualità di avere un eccesso di latte con relativo bisogno di decongestionare le mammelle (per mastiti, per eccesso di latte, ma anche nella più tragica eventualità di morte del neonato).
In tutte queste situazioni in cui – ovviamente – non si poteva ricorrere al latte artificiale, ma non era neanche ritenuto opportuno ricorrere ad altri tipi di latte (le scarse condizioni igieniche e l’impossibilità di una corretta conservazione in un clima mediterraneo rendevano il latte animale per uso umano potenzialmente assai pericoloso) e neppure a un svezzamento precoce (anche in questo caso erano alti i rischi per la salute dell’infante, si pensi a esempio al botulino nel miele), di conseguenza l’unica scelta era ricorrere a un’altra donna che allattasse. In questo senso parlo di co-allattamento sia per la Grecia che per Roma. Per Roma abbiamo fonti che ne parlano in maniera abbastanza esplicita, per la Grecia no, ma, in considerazione delle osservazioni appena formulate, non abbiamo motivo di dubitare che anche le madri greche volessero o dovessero in alcune circostanze utilizzare il latte di altre donne.
Zie (penso soprattutto a quelle materne), vicine, anche nonne e figlie potevano aiutare nell’allattamento e, in generale, in ogni aspetto che coinvolgeva la cura del bambino, se necessario o in alcune particolari circostanze, ma la scelta più ovvia e comune era l’impiego di una o più nutrici, tant’è che risultano presenti anche nelle famiglie non benestanti.
In generale, quantomeno nelle famiglie aristocratiche, nel mondo antico si riscontra una strategia alloparentale nella crescita dei figli: le madri (e, secondo me, anche le zie e le nonne) si occupavano di sviluppare le capacità mentali del bambino (a esempio attraverso il gioco educativo “a distanza” e il contatto visivo), della sua crescita intellettuale e dell’accettazione a livello sociale (strategia distale, propria oggigiorno della media-alta borghesia “occidentale”); mentre le nutrici e altre figure femminili a servizio della famiglia erano responsabili delle cure fisiche da portare al piccolo, il che implicava un contatto fisico più che “spirituale” (strategia prossimale, tipica dei paesi più poveri).
Le madri nel mondo greco e romano non erano lasciate sole nel crescere i figli. Nell’attuale società cosiddetta occidentale il fatto che il bambino sia anche soltanto per breve tempo tolto alle cure della madre e che la madre sia anche solo temporaneamente sostituita da un professionista è considerato un disagio psico-fisico per un bambino, mentre le fonti antiche, soprattutto romane, ci informano che intorno al virgulto esisteva un’ampia rete di persone coinvolte nel supportare e sostituire la madre durante la crescita.
Riflettendo su quest’ultimo punto ho pensato di introdurre nei miei studi i concetti di continuum concept e attachement parenting, che, a mio avviso, si basano su un’idea che era già aristotelica, e cioè che l’uomo è un animale, certamente diverso dagli altri, in quanto razionale, ma pur sempre un animale; di conseguenza il piccolo di uomo avrebbe bisogno di alcune cure che vengono normalmente messe in atto dagli animali, come il contatto fisico, l’allattamento a richiesta o il dormire nella “tana” con gli adulti, pratiche da cui l’uomo si sarebbe gradualmente allontanato per creare distanza fra se stesso e la “natura” (ma che oggi stanno tornando in auge in concomitanza con la riscoperta di tutto ciò che è “naturale”). Il “cucciolo di animale”, per farla breve, si lega in primis a chi si prendere cura con contatto fisico di lui.
Non a caso, forse, l’esempio più eloquente in tal senso ci viene dal mondo animale. Fedro narra di un cane che rimprovera un agnello, colpevole di prendere il latte da una capra e non dalla madre, che si è allontanata con il gruppo di pecore. L’agnello, sminuendo la parentela biologica con argomenti come il non desiderare di nascere per poi andare al macello, l’essere stati concepiti soltanto per l’altrui piacere, l’incapacità della genitrice di conoscere veramente chi ha concepito e di decidere come concepirlo, esalta al contrario il legame affettivo con chi è disposto a nutrirlo e a prendersi cura di lui: un vero e proprio inno alla maternità sociale, al pensiero materno e alle relazioni di attaccamento, peraltro fra generi animali non identici, anche se simili!
L’idea di fondo è che queste figure “vicarie” della madre abbiano instaurato, volenti o nolenti, dei legami caldi e privilegiati con i piccoli rampolli delle famiglie attraverso la presenza costante e le cure fisiche, aiutando da un lato la madre, ma creando al tempo stesso una verosimile, fitta rete di “relazioni pericolose” fra tutte le figure che gravitavano a vario titolo intorno al virgulto. Le nutrici, infatti, essendo le donne più vicine giorno dopo giorno ai bambini, ma anche quelle più vicine alla madre, dovevano trovarsi al centro di un turbinio di sentimenti contrastanti, fatti di affetto, ringraziamento, gelosia, risentimento, da cui dipenderebbe la contemporanea elaborazione da un lato della nutrice ideale e di rapporti armoniosi con lei instaurati all’interno della famiglia, e dall’altro della nutrice cattiva, una strega e un vero e proprio babau per la prima infanzia. I sentimenti negativi potevano essere acuiti nel caso, non raro quantomeno a Roma, di distanza fisica fra la madre e la prole a causa di divorzi. Sappiamo, infatti, che durante la loro infanzia i bambini potevano cambiare con una certa frequenza il luogo di residenza a causa di divorzi e nuovi matrimoni, e che i piccoli, diversamente da quello che avviene oggi, spesso restavano con i padri, di conseguenza sembra naturale ipotizzare che si legassero con particolare intensità a coloro che si occupavano di loro e li seguivano in questi spostamenti, cioè balie, nutrici e pedagoghi.
Si noti che i sentimenti ambivalenti dovevano animare anche il cuore delle balie (al di là dei sentimenti di mutuo affetto con i loro protetti presenti nella documentazione funeraria, in cui, però, come già spiegato, non c’è di solito spazio per i sentimenti negativi). Dire balia, infatti, significa dire madre, anche se i loro bambini non vengono mai menzionati. Si può pensare che nel momento in cui le loro madri venivano assunte per nutrire altri bambini, i loro figli fossero già stati svezzati, oppure che fossero morti, che venissero allattati artificialmente dalla nascita (esponendoli ad alto rischio di morte prematura), o, semplicemente, che non fossero abbastanza importanti da essere menzionati nei testi. È anche possibile che il figlio della balia si trasferisse nella nuova casa con lei (ovvero che fosse già lì, in caso di schiave) e che diventasse un compagno per il rampollo di buona famiglia almeno per la durata del suo impiego. In ogni caso, la balia era una madre costretta a lasciare il proprio figlio per occuparsi di una creatura aliena, come se fosse stata la sua, e questo non può avere avuto conseguenze su di lei.
Quale visione della maternità emerge dai testi classici?
Questa domanda immagino faccia riferimento al Capitolo L’obbligo di (imparare) a essere madri, che allude a un precedente articolo intitolato En Grèce antique, la douloureuse obligation de la maternité: la donna in Grecia (ma anche a Roma) non solo era socialmente “obbligata” a essere madre, ma doveva anche imparare ad esserlo nel mondo più appropriato. A questo proposito abbiamo una serie di testi medici e teatrali che offrono chiari esempi da seguire e da non seguire. Il prezzo da pagare per il non essere madre i termini di identità sociale e salute medica era altissimo. Le vedove e le donne sterili, o comunque senza bambini, erano indicati come i soggetti maggiormente colpiti da isteria, malattia tipicamente femminile causata dallo spostamento dell’utero (ὐστέρα=matrice), che, nella sua ricerca di rapporti sessuali, viene concepito come un animale vivente desideroso di concepire figli. La verginità, infine, era spesso associata alla follia. But look on the bright side: l’essere madre non soltanto legittimava l’intera vita della donna, ma era anche, come documenta il costume funerario di commemorare le donne lechoi, cioè morte di parto, una delle poche qualità che le consentiva – in alcuni contesti storici – alle donne di lasciare traccia scritta di sé dopo la morte.
L’essere madre, inoltre, sembra conferire l’unico primato femminile sull’universo maschile: le madri, infatti, amano di più (dei padri). La madre, inoltre, non soltanto è migliore nella cura dei piccoli, ma, nell’esercizio di questa “funzione”, riusciva anche a raggiungere una forma di coraggio tipicamente maschile (andreia, da ἀνήρ, ἀνδρός, il corrispondente greco del latino vir), certamente diversa da quella maschile, connessa con la sua funzione di custode della casa e, dunque, mantenitrice dell’ordine maschile.
Vorrei, a questo proposito, aprire una parentesi personale. Studiare come le rappresentazioni normative relative alla maternità siano state manipolate, modificate costantemente nei secoli, principalmente per mano maschile, mi ha aiutata a vivere in maniera assai più rilassata la mia esperienza di madre, imparando a ignorare senza troppi sensi di colpa chi voleva continuamente dirmi cosa dovevo o non doveva fare…! Per inciso, le indicazioni non solo erano enormemente cambiate nell’intervallo intercorso fra la nascita mia e del mio primogenito, ma erano abbastanza cambiate anche fra la nascita del mio primogenito e della mia secondogenita (fra cui ci sono 8 anni!). La storia, anche quella più lontana, ci può parlare, se abbiamo voglia di ascoltarla, e pure aiutarci nella vita di tutti i giorni!
Come viene rappresentata la maternità nel mito?
Questa è la domanda forse più complessa, nel senso di più “tecnica”, ma al tempo stesso è estremamente rilevante per il libro, che, come indica il sottotitolo, vuole essere un “percorso fra scienza delle religioni e studi sulla maternità”. Si tratta di un percorso intrapreso già da alcuni anni con la collega Florence Pasche Guignard, che ha come scopo principale studiare come le religioni (i libri sacri e le successive interpretazioni di essi da parte di autorità religiose, le narrazioni mitologiche etc.) influenzino sia la rappresentazione sociale della maternità, cioè della “maternità come istituzione motherhood as an istitution”, che in termini religiosi si traduce con l’elaborazione del modello della “buona madre” da seguire per le credenti (tutte le religioni parlano di maternità in questo senso: quanti figli fare, con chi, come educarli, la sessualità “giusta”, la verginità come valore, la sterilità come punizione…), sia la vita reale delle madri in relazione a condizionamenti di tipo religioso (il mothering, to mother, verbo difficilmente traducibile in italiano, lingua meno “concreta” dell’inglese). Questa distinzione richiama anche quella elaborata da Susan Star Sered fra “womAn as symbol” (il paradigma della buona madre elaborato nei testi di quelle che la studiosa definisce “religioni dominate dagli uomini”) e “womEn as agents” (le madri in carne e ossa e le attività religiose concrete che svolgono).
È importante sottolineare che l’idea di maternità che proponiamo ha a che fare più con la pratica culturale che con la funzione biologica, di conseguenza va oltre gli aspetti più strettamente fisiologici della maternità (gravidanza, parto e allattamento) e abbraccia sia il mothering che la motherhood. In questo modo non soltanto una madre può ricoprire questo ruolo, ma anche una qualsiasi donna che non abbia fisicamente procreato, un uomo e perfino, se guardiamo alla mitologia, un animale (nelle raffigurazioni egizie e romane, apparentemente anche una pianta!).
Nel politeismo sia greco che romano ci troviamo di fronte a un significativo paradosso: le dee sono spesso generosamente materne, anche per il fatto che il politeismo è un sistema che nasce e si perpetua genealogicamente, ma spesso esse non si comportano da madri nei confronti dei loro figli, preferendo piuttosto fare da curotrofe a bambini altrui non necessariamente divini. Il loro ruolo di madri, tolta l’importanza della progressione genealogica di cui sono mezzo tendenzialmente ineludibile, è secondario.
Kourotrophia è una parola composta dal verbo trepho, il cui primo significato è “far crescere”, e kouros, ragazzo, quindi kourotrophia significa far crescere, assistere nella crescita, dall’utero fino all’età adulta, un ragazzo, e, dal punto di vista delle divinità, può essere vista come una sorta di maternità a distanza, “distale” nel senso sopra citato. La kourotrophia, quindi, rappresenta la principale modalità per le dee “maggiori” per esprimere la loro maternità, che si esplica di solito verso la progenie di qualcun altro (che sia un essere divino, non pienamente divino o umano).
Gli esseri divini o semi-divini più “materni” in seno moderno sono quelli appartenenti a un divino marginale, sfumato, quindi più vicino al mondo umano, come le ninfe. Spesso le ninfe si occupano anche dei figli delle dee “maggiori”. Questo è un dato su cui riflettere: sembra quasi che la maternità “prossimale” non sia adeguata a figure divine di “altro rango”. Il mito, d’altronde, fonda la realtà….
Qual era la concezione dell’allattamento nel mondo greco e romano?
Sull’allattamento credo di avere già detto molto. Vorrei aggiungere che la “feticizzazione” o, per contro, la “demonizzazione” dell’allattamento sono fenomeni moderni, che si è voluto applicare spesso anche al mondo antico, ma di cui in realtà nel mondo antico non c’è traccia evidente. Le madri, con o senza l’aiuto delle nutrici, tendenzialmente allattavano, punto. In una società in cui la vita del bambino dipendeva in maniera pressoché esclusiva dalla disponibilità di latte umano, d’altronde, sarebbe inverosimile pensare altrimenti.
Chi la pensa diversamente fa di solito riferimento alla polemica sull’allattamento materno che esplode, in apparenza improvvisamente, verso la fine del I sec. d.C. e durante il II sec. d.C. I tempi erano cambiati, i cittadini dell’Urbe e dei territori limitrofi sono sempre più esposti a culture diverse, adulteri, divorzi e nuove nozze sono frequenti, la gente sembra aver abbandonato i sani valori dei bei tempi andati. Fra le cose giuste di un tempo che le donne, divenute secondo la retorica imperante frivole e poco dedite alla famiglia, facevano e non fanno più c’è il sacrificarsi per allattare i figli, e i “moralisti” non si fanno perdere l’occasione per dire la loro in merito. Sembra una questione di morale e politica, più che di benessere dei fanciulli! Ma, anche ammettendo che in quel periodo molte donne preferissero non allattare per “futili” motivi, si tratterebbe pur sempre di una “moda” tanto attaccata, quanto circoscritta e da contestualizzare opportunamente. Per il resto, di allattamento si parlava molto poco. Ma dovrebbe sorprendere il contrario. Non se ne parlava, a mio avviso, perché, a parte in epoca imperiale, non c’era niente di particolare da dire. Non certo perché le madri non allattavano. Al contrario, semmai, non se ne parlava proprio perché le madri allattavano. E non si rappresentava, perché non è un soggetto adeguato. Non se ne parlava e non si rappresentava, oltre a ciò, per scaramanzia, per paura di invidie e ritorsioni.
Quali che fossero le percezioni e le pratiche relative all’allattamento, una cosa dal mio punto di vista è certa: la natura del latte materno deve avere giocato relativamente a esse un ruolo fondamentale. La teoria dell’emogenesi del latte materno, infatti, non può non avere conseguenze di notevole portata: da un lato il latte, essendo sangue (mestruale, cotto e reso bianco e più leggero dalla “cottura”), veicolava caratteristiche che, anacronisticamente, possiamo definire genetiche, assieme a tutto il bagaglio sapienziale appartenente alla donna che lo generava; dall’altro, essendo sangue mestruale, veniva associato ad uno dei liquidi corporei più potenti e repellenti già per gli antichi, con tutte le conseguenze che questo poteva comportare. Questi due diversi aspetti portarono, quantomeno in alcuni periodi storici, all’attenzione quasi maniacale per chi doveva allattare (nel mondo romano imperiale: rischi di compromettere il sangue della gens, paura che la madre, ma soprattutto la balia, potessero trasmettere un sapere erroneo al bambino ecc.) e alla volontà di non rendere visibile la pratica dell’allattamento, percepita, a causa della natura del liquido trasmesso, sia come qualcosa che poteva mettere a disagio, sia come qualcosa di straordinariamente portentoso. A questo va aggiunto il sentimento greco di aidos, che coincide almeno in parte con il pudor latino, in base alla quale il nudo femminile era percepito come privato, connesso talvolta a situazioni di estremo pericolo e pathos.
Come avvenivano la socializzazione e l’educazione del bambino in Grecia e a Roma?
In merito alla socializzazione e all’educazione del bambino in Grecia e a Roma si potrebbero scrivere trattati. Visto il particolare tema del libro, vorrei porre l’attenzione sul ruolo della madre e delle altre figure “vicarie” come inculturatrici religiose primarie. Sono infatti queste figure che, essendo costantemente a fianco dei bambini nell’età in cui sono più impressionabili e malleabili non soltanto nel corpo, ma anche nella mente (cosa che era ben chiara agli antichi), trasmettevano valori familiari e comunitari attraverso racconti e canti scelti per l’infanzia, svolgevano riti con i bambini al loro fianco, se possibile li facevano partecipare, portavano i piccoli al tempio. È nota la polemica di Platone a proposito dei racconti di queste donne, ma il filosofo non nega loro in nessun modo questa funzione, invita soltanto a un serrato controllo dei miti scelti per educare i futuri cittadini.