Beh, per chi le considera lingue morte, evidentemente questa vitalità non esiste. In realtà, però, latino e greco non sono lingue morte in senso stretto; morto è, ad esempio, il tocario, che difficilmente una persona normale ha sentito nominare, proprio perché è morto e sepolto; la sua tomba, nello Xinjiang – per insistere con la metafora – è stata scoperta un secolo fa dai linguisti, e in effetti, pur essendo morto ha rivitalizzato i loro studi. Il latino invece esiste ancora oggi: noi parliamo sostanzialmente un latino che ha seguìto le regole dell’evoluzione attraverso un continuum di uso e qualche volta abuso; dire che è “morto” è un po’ come dire che il bambino che io ero a cinque anni è morto. Io “sono lui, ma non sono lui” come direbbe Eraclito. Un antico romano che ci sentisse parlare italiano penserebbe che stiamo parlando in qualche strano dialetto, ma probabilmente, se parlassimo lentamente, senza abusare di concetti moderni, e un po’ gesticolando, riuscirebbe a capirci, più o meno come uno spagnolo.
Per il greco è diverso; per noi italiani è un recupero dotto – fino più o meno alla generazione di Poliziano è stato estraneo alla nostra cultura: Dante leggeva i classici greci attraverso le trasposizioni e interpretazioni latine: se avesse avuto accesso al greco la Commedia sarebbe stata diversa, o magari non ci sarebbe stata e ci saremmo persi un capolavoro, chissà; invece, a differenza di noi, i greci non hanno mai sentito la frattura linguistica e non hanno mai smesso di parlare greco. Il neogreco è piuttosto simile al greco antico; direi che più o meno si può paragonare alla differenza che c’è tra l’italiano che sto usando io e l’italiano di Boccaccio. A proposito: quanti italiani sono davvero in grado di leggere il Decameron in lingua originale? Dovremmo dire allora che anche quella è una lingua morta, e con qualche ragione. Le racconterò un aneddoto; un paio d’anni fa, nella chat WhatsApp di mio figlio, che frequentava le medie, alcuni compagni discutevano del Cantico delle Creature di S. Francesco, che era stato assegnato da studiare a memoria, chiedendo “ma dobbiamo studiarlo in italiano o in latino?”. Il fatto è curioso, perché il Cantico si studia proprio in quanto uno dei primi documenti non in latino: intendevano se dovessero studiarlo nella formulazione originale oppure nella parafrasi, stampata accanto, in italiano moderno. Per loro l’italiano di S. Francesco non era italiano, ma “latino”, anzi, Graecum: non legitur. Studiare latino serve anche a questo: farci sentire un po’ più vicino S. Francesco: per chi ha viaggiato molto le distanze sembrano più brevi.
Quali ragioni rendono ancora attuale lo studio di latino e greco antico?
Questa è una domanda che chiunque si occupi di queste cose si sente fare; è un po’ insidiosa perché contiene in sé già un presupposto, il legame tra “utile” (che già è difficile da definire) e “attuale”, il che non è affatto scontato, ma passa spesso come petizione di principio e poi si traduce in quelli che vanno al museo, vedono un paio di orecchini etruschi e dicono “guarda, sembrano proprio fatti oggi”; oppure vedono una statuetta cicladica e dicono “uh, sembra fatta da Modigliani”. In realtà è proprio il contrario: l’oreficeria ha moduli antropologicamente persistenti e Modigliani era influenzato (anche) dall’arte cicladica. Circola sui social network una battuta: un bambino vede il padre che armeggia con un vecchio floppy disk e esclama: “Wow! Hai stampato in 3D l’icona “salva”! In realtà è l’attualità che ha in sé molte cose del mondo antico, ma, appunto, se ci manca la dimensione storica non possiamo capirlo e ragioniamo solo in termini di “nuova versione”; questo funziona bene per le nuove tecnologie e per ogni ambito a cui sia applicabile qualche variante della legge di Moore e attraversi ancora la fase della crescita esponenziale in cui la versione x viene superata dalla versione x + 1 (poi magari succede che dopo Windows 98 arriva Windows ME e abbiamo un punto di flesso); quando si parla di cultura, storia, linguaggio, non funziona esattamente così. Una volta addirittura si pensava che l’”umanità” fosse in movimento e la “humanitas” fosse stabile: oggi non siamo più classicisti e nessuno che si occupi di antichistica la pensa in questo modo (accusarci di questo è più una “fallacia dello spaventapasseri” usata dai detrattori), ma è vero che ci sono evoluzioni notevoli e altrettanto notevoli persistenze. Se invece per “attuale” intendiamo “sensato”, allora le risposte sono molto più facili. Latino e greco sono lingue fortemente flessive e ipotattiche; permettono ragionamenti complessi e strutturati gerarchicamente. Ho detto sopra che Boccaccio difficilmente è comprensibile da un giovane: non è soltanto una questione di lessico arcaico; è che fa le frasi lunghe. Tant’è che un giovane ha difficoltà anche a seguire Manzoni, che scrive in un italiano quasi odierno, quando non gioca a fare l’Anonimo. Tutto ciò che esce dalla routine soggetto-predicato-complemento-punto (o da un’inquadratura cinematografica più lunga di tre secondi) crea oggi una difficoltà psichica; ciò deriva forse in parte da forme di comunicazione brevi; in parte anche dall’influsso dell’inglese, bellissima lingua che supplisce a una notevole povertà morfosintattica con la ricchezza degli idiom e l’ampiezza del vocabolario, che conta su una doppia base germanica e, non dimentichiamolo, latina. Ecco, il rischio è che l’italiano si riduca a una lingua sintatticamente povera come l’inglese e lessicalmente povera come il latino (sì, il latino è lessicalmente povero; ha difficoltà a formare composti e usa malvolenteri l’astrazione). Grazie a latino e greco possiamo recuperare questa dimensione di complessità gerarchica, anche se un ragazzino all’inizio stramaledirà Cesare per quella frase da 15 righe; e poi, percepire la lingua come un continuum evolutivo per ridurre il gap generazionale, che oggi, mi pare dicesse Luca Goldoni, è diventato “gap semestrale”. E poi, conoscere un po’ più delle solite trecento parole e vederne in controluce la storia; e poi, parlare di democrazia, di potere, di sentimento, di guerra, di amore, di morte. E poi leggere Cicerone, Demostene, imparare come si argomenta e come si fa propaganda, quando si dice sul serio e quando si scherza. E poi, imparare a non scoprire l’acqua calda, visto che quasi qualsiasi cosa diciamo in un àmbito non strettamente tecnologico l’ha già detta qualcuno duemila anni fa. Naturalmente, se vogliamo studiare una civiltà del tutto “altra”, il cinese va meglio; se vogliamo studiare una lingua difficilissima consiglio l’ungherese; se vogliamo studiare il passato va bene anche un libro di storia; se vogliamo studiare il rigore logico è ottimo imparare a programmare (anche in una “lingua morta” informatica come il Pascal, possibilmente in una versione precedente all’introduzione dell’istruzione GOTO); se vogliamo sviluppare la concentrazione, consiglio gli scacchi; se vogliamo imparare a parlare, un corso di dizione. Ma se vogliamo tutte queste cose insieme, il latino è perfetto: lo considero un po’ il decathlon dello sviluppo personale. Credo gli manchi un buon ufficio marketing, e non nascondo che qualche volta i latinisti sono i peggiori testimonial del latino e la divulgazione tende un po’ a tradursi nel “ti racconto sempre la stessa roba, ma con un linguaggio ggggiovane”.
È possibile adottare approcci ludici nell’insegnamento delle lingue classiche? Di che tipo?
Personalmente, quando insegnavo nei licei, ne ho fatte di tutti i colori, sia per la lingua, sia per la “cultura”: ho fatto tradurre ai ragazzi i Lùnapop in latino, nonché diversi fumetti, ho portato i soldatini in classe per la tattica delle battaglie, ho insegnato a improvvisare poemi epici; e poi ho fatto indossare la toga a centinaia di bambini delle elementari e ragazzini delle medie; durante la “Notte dei ricercatori” prepariamo addirittura focacce con la ricetta di Catone e vino mielato che vengono regolarmente spazzolati in mezz’ora (devo dare qui i credits di chef al mio amico e collega Ermanno Malaspina) ovviamente ho fatto esperimenti di latino parlato; alcune cose avrei voluto farle e poi invece è mancata l’occasione: per esempio, qualche anno fa stavo per organizzare con una mia collega di educazione fisica delle gare con le regole delle olimpiadi antiche, molto addomesticate: certo che se togli i cavalli e gli sport violenti (non puoi certo fare sfidare gli allievi a pancrazio, e naturalmente non puoi certo farli gareggiare nudi come facevano gli antichi!) resta poco, ma poteva essere divertente; poi non abbiamo fatto in tempo. Personalmente mi piace qualsiasi approccio faccia vedere ai ragazzi che il latino (e il greco, che purtroppo all’Università non insegno più) è intorno a loro, per esempio sguinzagliarli a caccia di epigrafi, tradurle insieme, geotaggarle su una mappa. Ormai sono in ruolo all’università da quindici anni; vado sempre nelle scuole volentieri, ma di norma il mio pubblico è composto da giovani adulti. A lezione sono abbastanza poco serioso (in realtà sotto sotto sono molto serio), e ho un gruppo Facebook non istituzionale; è un po’ da vecchi (i giovani sono su Instagram), ma mi serviva un social network a base testuale e poi, in effetti, io sono vecchio. Ne segnalo l’esistenza ma non premo assolutamente perché gli studenti si iscrivano: sarebbe scorretto, perché è al di fuori del circuito istituzionale della mia Università ed è del tutto legittimo non volere avere nulla a che fare con Facebook. Bene, il gruppo conta centinaia di studenti: vi posto cose che possono avere rilevanza rispetto a ciò che insegno; non tanto comunicazioni istituzionali (il che comunque faccio, duplicando i miei avvisi di UniTo perché leggono più Facebook della mia pagina istituzionale), ma memi, analogie, quelle che la Settimana Enigmistica chiama “spigolature”. Funziona abbastanza, nel senso che il gruppo, che è chiuso, cioè se non sei un mio studente non ti faccio entrare, conta in questo momento più di settecento iscritti, e io non ho – fortunatamente, perché soccomberei- settecento studenti. Evidentemente restano iscritti al gruppo anche quando istituzionalmente non hanno più nulla a che fare con me. Lo considero una dimostrazione di stima e di affetto, peraltro ricambiato, perché, anche se forse è poco professionale dirlo, io voglio bene ai miei studenti. È importante che capiscano che non stiamo appiccicando nelle loro menti per pure ragioni tradizionali una disciplina relittaria, ma che si tratta di qualcosa che può aiutarli a scorgere aspetti della realtà che li circonda che prima non vedevano. Ed è tanto più importante perché a Lettere latino è obbligatorio. Perciò molti studenti non antichisti lo vivono un po’ come quella che ai miei tempi si chiamava naja. E sbagliano. Mi mette sempre tristezza quando, anche dopo la laurea, mi approcciano con “ho bisogno di 12 crediti di latino per insegnare italiano alle medie” col tono chi mi direbbe “mi manca ancora il certificato di agibilità per cambiare la disposizione del water nel bagno” senza capire perché quel corso serve.
In che modo le nuove tecnologie possono supportare l’apprendimento delle lingue classiche?
Nella mia prassi didattica punto molto sull’apprendimento delle strutture di base -declinazioni e coniugazioni – e sul lessico. La maggior parte degli studenti esce dal liceo, anche classico, con gravi difficoltà nel tradurre una quindicina di righe senza dizionario; questo è intollerabile per una lingua vicina come il latino che secondo me non dovrebbe essere enormemente difficile per un parlante italiano; diciamo un po’ più difficile, ma non anni luce, rispetto allo spagnolo, al portoghese, al francese – al romeno, toh: è ovvio che anche queste lingue, se vuoi padroneggiarle, diventano difficili, ma se ti ci metti settecentoventisei ore , che sono le ore di latino nei complessivi cinque anni al classico, te la cavi in qualunque lingua. Alla fine ho identificato questi due grossi problemi: strutture di base e dizionario, e ho pensato a come cercare di metterci una pezza, considerando il fatto che stiamo parlando di studenti adulti e i vent’anni non sono il momento buono per imparare il latino da zero. Il problema del latino è che ha difficoltà a essere studiato come una lingua viva -argomento che è, diciamo così, “caldo” e che non toccherei in questa sede -; personalmente uso un eserciziario che ho costruito sul Moodle del Dipartimento di Studi Umanistici per fare allenare gli studenti su declinazioni e coniugazioni. La prova di “declinazioni e coniugazioni – venti forme in due minuti” è un po’ uno spauracchio per i miei studenti, ma alla fine ce la fanno più o meno tutti – e ci mancherebbe: in un mondo normale sarebbe considerata semplice da un qualsiasi ragazzino di seconda superiore. Moodle permette di creare in tempo reale infinite variazione di questo esercizio. Inoltre consente di trarre statistiche interessanti sulle difficoltà e il livello degli studenti, aggregando i dati, e togliersi qualche curiosità: Per esempio, il record nella traduzione delle 20 forme è 34 secondi, ottenuto da una mia studentessa che l’aveva preso con lo spirito giusto, cioè come un videogioco, e, e ci si era allenata persin più del necessario. Impressionante: io non ci riesco, anche solo per ragioni meccaniche (non riesco a digitare così in fretta).
Per il lessico, faccio usare strumenti di flash card elettroniche. Come nel caso dell’eserciziario Moodle, non mi piace usare strumenti precotti, perché voglio avere il controllo su quello che faccio e non diventare un semplice tutor, e privilegio strumenti gratuiti e, ove possibili, a sorgente aperto. Ho costruito dunque un dizionario frequenziale per l’apprendimento del quale propongo di solito due strumenti: uno è Memrise (http://www.memrise.com), in cui potete trovare il corso “500 parole base del latino”; l’altro è Anki (https://apps.ankiweb.net/), che ho iniziato a usare dopo una esperienza decennale su un’applicazione commerciale, Supermemo (https://www.supermemo.com/it), che era diventato un po’ bloatware. La base dati è la medesima, ma l’approccio è un po’ diverso: Memrise punta sulla gamification – se rispondi giusto ottieni punti, sbocciano fiorellini, ecc.; l’interfaccia è responsiva e sul telefonino funziona che è una meraviglia; Anki si basa sull’autovalutazione, è più vecchio stile sia come concezione sia come interfaccia; necessita di installazione tradizionale, il che comincia a creare qualche ostacolo ai giovani, per cui “installare” è ormai equivalente al “fare clic sul play store”: è, come dicono gli anglofoni, no frills, il che è sia il suo vantaggio sia il suo difetto. Anki è per chi è motivato e cerca la massima resa; Memrise è per chi ha bisogno di motivazioni esterne. Gli studenti usano un po’ l’uno, un po’ l’altro (oppure fanno da sé: non è obbligatorio usare questi strumenti); entrambi i software comunque recepiscono la nuova tendenza mnemotecnica della ripetizione dilazionata. Sono strumenti molto adatti per quelli che in un mio articolo definivo gli aspetti pavloviani del latino. Poi, naturalmente, ci sono possibilità infinite: per esempio l’uso dei database, di norma rivolti agli studiosi, è finora stato sottovalutato in didattica; ma è importante ricordare le priorità e chiedersi sempre: “Mi serve davvero usare uno strumento elettronico per questo scopo specifico o bastano lavagna e gessetto?”, “Mi fa guadagnare tempo o me ne fa perdere?”. Il rischio è di innamorarsi dello strumento e perdere di vista l’obiettivo. Sono un astrofilo e ne conosco molti che passano più tempo a guardare il telescopio che il cielo: finché è un hobby vale tutto, ma professionalmente è una cosa diversa: bisogna fare quello che serve e non quello che semplicemente piace a noi. Ciò che non deve mai accadere è pensare che le nuove tecnologie servano a “svecchiare” le nostre discipline: noi non ci occupiamo del vecchio, ma dell’antico. Noi alimentiamo il fuoco (non ci limitiamo a conservarlo, come nell’aforisma di Mahler), non stiamo a contemplare la cenere; dobbiamo ricordarcelo sempre.