
Quali incontri segnarono maggiormente l’esistenza del pastore statunitense?
Indubbiamente quello con i vari membri della sua famiglia, solida, orientata all’impegno sociale e religiosamente impegnata. Subito dopo la chiesa, o meglio, le chiese afroamericane che furono la culla del movimento per i diritti civili, sia perché offrirono la “visione” di una società libera nel nome dell’uguaglianza di tutti i figli di Dio, che perché misero a disposizione reti organizzative assolutamente preziose in una società molto individualizzata come quella americana.
Come maturò in King l’opzione della nonviolenza?
Quando era ancora nel college, ad Atlanta, King ebbe la fortuna di incontrare dei professori che in qualità di missionari avevano visitato l’India e avuto un contatto diretto con il movimento gandhiano, ancora molto vitale e diffuso soprattutto nei villaggi. Ma si trattava di conoscenze teoriche che ben si sposavano con l’etica cristiana della nonviolenza. Arrivato a Montgomery nel 1956, King non aveva assolutamente idea del ruolo che nel giro di qualche mese avrebbe assunto come leader del movimento per il boicottaggio della compagna degli autobus che adottavano rigide norme di segregazione: i bianchi davanti, i neri dietro e senza la possibilità di sedersi sui sedili riservati ai bianchi, anche quando erano liberi. Con questo intendo dire che non fu King a “inventare” il movimento per i diritti civili, ma il movimento a “inventare” King come leader, energico, moralmente autorevole e con un’ottima retorica. Senza teorizzarlo, quel movimento aveva già adottato una strategia nonviolenta alla quale King seppe dare impulso. Poi, soltanto dopo il successo della campagna di Montgomery, arrivarono i viaggi in India e un incontro più maturo con il pensiero nonviolento. Lo si deve a un fortunato incontro con un giovane studente in teologia metodista, Jim Lawson, che aveva obiettato alla chiamata militare per la guerra in Corea e che era stato espulso dall’Università. Una missione metodista gli offrì però la possibilità di un periodo di servizio in India, proposta che egli accettò prontamente. In oltre due anni di permanenza Lawson capì il senso più profondo del gandhismo e della nonviolenza e, quando incontrò King e questi lo volle nel sua staff, nacque un lungo e costruttivo sodalizio.
Quali furono i rapporti tra King e Malcolm X?
Si incontrarono solo una volta, alla Casa Bianca, in occasione dell’annuncio dell’imminente approvazione della legge per il diritto di voto. I due leader provengono da mondi assai lontani e le loro biografie familiari e politiche sembrano costruite apposta per rafforzare la contrapposizione tra i due: King veniva da una solida famiglia di ceto medio, Malcolm da una famiglia disastrata; il primo era un pastore battista, l’altro un predicatore musulmano; quello predicava l’integrazione, quell’altro, almeno fino a un certo punto, combatteva i bianchi in quanto tali. Eppure, nonostante questa polarità estrema, possiamo individuare un progressivo avvicinamento drammaticamente interrotto dall’uccisione di Malcolm nel 1965. Intendo dire che, dopo un viaggio alla Mecca e la rottura con l’islam settario della Nation of Islam, Malcolm capisce il valore dell’integrazione e cambia strategia; al tempo stesso Martin, col tempo, capirà che il razzismo è il prodotto di una società ingiusta, che deve essere ricostruita dalle fondamenta, a partire dai bisogni dei più poveri. Insomma, registriamo un percorso dalla polarità alla reciproca comprensione. Purtroppo non possiamo dire che cosa sarebbe successo se i due fossero vissuti più a lungo.
Quale travaglio interiore visse King?
Più che di travaglio interiore parlerei di ridefinizione della sua strategia. Tra il 1963 e il 1965 King fu un uomo celebrato e riverito, l’immagine di una nuova America che – almeno in apparenza – stava archiviando la piaga della segregazione e del razzismo. Tutto questo si interruppe negli anni in cui l’Amministrazione Johnson – la stessa che aveva approvato la legge che tutelava il diritto di voto agli afroamericani – si impegnò nell’escalation militare in Vietnam. King capì che quella scelta aveva delle connessioni con il tema dei diritti degli afroamericani. Dalla lotta al razzismo persistente nella società americana, infatti, la priorità nazionale si trasferiva allo sforzo militare, producendo tagli anche consistenti alle misure per i più poveri e tra questi molti afroamericani. Il travaglio, se vogliamo usare questa espressione, fu questo: allargare la sua lotta dai temi dei diritti civili a quelli della pace e della giustizia sociale. Fu un passato complicato e difficile che lo isolò progressivamente e in un certo senso radicalizzò la sua analisi e la sua azione.
Che cosa ha ucciso King?
Il complesso di interesse economici, politici e militari che sosteneva la guerra in Vietnam e difendeva un ordine sociale basato sull’ingiustizia e il razzismo. Ad oggi, nonostante un colpevole condannato dai tribunali federali, restano dubbi su chi abbia effettivamente ucciso King ma è più chiaro che cosa abbia determinato la sua condanna a morte.
Qual è l’eredità di Martin Luther King?
L’idea di un’America possibile, difficile ma possibile. Un’America in cui si abbatte il muro che continua a dividere bianchi e neri; il muro che protegge le élite economiche e culturali e condanna le minoranze etniche alla marginalità sociale; il muro che allontana i ricchi da poveri, neri o bianchi che siano. Dando voce a un grande movimento di massa che negli anni ’50 e ’60 ha espresso tutto questo, King ha dimostrato che quest’America può esistere e crescere. È un messaggio importante quando il mondo è ancora attonito e impaurito dalle immagini di Washington del 6 gennaio. L’America trumpista è forte e ben radicata ma, per liberarsi del fondamentalismo sovranista interpretato dal suo ex presidente, può fare ricorso al patrimonio di idee, valori ed esperienze di cui King si fece interprete.
Paolo Naso è professore di Scienza politica alla Sapienza Università di Roma e insegna anche al Master in Teologia interculturale della Facoltà valdese di Teologia. Dirige, per la Federazione delle chiese evangeliche in Italia, Mediterranean Hope – Programma rifugiati e migranti. È autore di God Bless America. Le religioni degli americani (Editori Riuniti 2002) e ha curato vari testi dedicati a Martin Luther King e un’edizione dei suoi scritti, L’«altro» Martin Luther King (Claudiana 1993). Tra le sue pubblicazioni più recenti L’incognita post-secolare. Pluralismo religioso, fondamentalismi, laicità (Guida 2015) e Il Dio dei migranti. Pluralismo, conflitto, integrazione (a cura di, con M. Ambrosini e C. Paravati, Il Mulino 2018).