Molto positivo, sia dal punto di vista culturale, dei contenuti e delle occasioni che il Salone ha offerto per affrontare problemi di cui dobbiamo discutere tutti, come il futuro del libro e il suo cambiamento, che da un punto di vista più delicato e che ha presentato qualche rischio negli anni scorsi, quello, cioè, della sua sopravvivenza, della stabilità stessa del Salone e del suo riconoscimento nazionale e internazionale.
Tutto ciò è stato possibile grazie al lavoro di Nicola Lagioia e di un gruppo di persone fortunatamente straordinarie di cui egli si è circondato, perché il Salone ha, tra l’altro, questa qualità: aver fatto crescere nella propria struttura ragazzi, ormai un po’ invecchiati magari, ma di grande qualità come quelli che lo hanno accompagnato. La scelta di Nicola di circondarsi di collaboratori – io non sono uno di questi quindi posso parlarne senza conflitti di interesse – è stata davvero positiva e il lavoro di gruppo è l’altra qualità che egli ha introdotto al Salone e che spero non si perda.
Che figura vedrebbe come sostituto di Lagioia?
Abbiamo di fronte un problema che riguarda tutte le istituzioni culturali: l’impasse, la difficoltà nella quale si trova il Salone ha delle ragioni specifiche su cui non entro, dato che non le conosco. Diciamo che, avendo avuto esperienze simili, riscontro dappertutto la difficoltà a trovare figure che abbiano insieme la qualità manageriale e una conoscenza, una qualità, artistico-culturale. Si fa fatica a mettere insieme queste due competenze e ciò ha messo in difficoltà anche nomine magari meno osservate pubblicamente, meno importanti del Salone, dappertutto.
Diciamo che l’esperienza di Lagioia dimostra che uno scrittore – e molto spesso gli scrittori contemporanei hanno questa qualità sociale, social – è il più indicato. Sono state avanzate alcune candidature con un’attenzione non solo alla pagina scritta, la pagina letteraria, ma anche con un ottimo profilo manageriale: nel mondo della cultura ce ne sono poche, ma ci sono. E l’esperienza di Lagioia ha mostrato che uno scrittore di quella generazione, quindi più giovane anche della mia, è in grado di gestire una macchina, perché il problema è proprio questo: si tratta di gestire una macchina e il programma di un festival di non so quante centinaia di appuntamenti che ci sono a Torino, un programma che prevede una conoscenza direi quasi intima del mondo della cultura, della letteratura internazionale. Ecco, da questo punto di vista ci si può circondare di collaboratori ma è necessaria una presenza, uno standing, una qualità propria del Direttore, che deve essere in grado di animare questo mondo.
È necessario d’altra parte capire che gestire una macchina, specie una macchina come quella del Salone che, rimessa in piedi a fatica ora mi sembra stabile, richiede una nomina in qualche modo in continuità con quella di Nicola Lagioia, visto il buon lavoro che egli ha fatto, un lavoro peraltro riconosciuto da tutti. Dentro la struttura del Salone ci sono ragazzi e persone in grado di assumersi responsabilità maggiori. Non conosco la discussione interna perché me ne tengo fuori. Come Presidente del Centro per il libro noi siamo, con il Ministero della Cultura, tra i finanziatori del Salone di Torino ma non per questo abbiamo nessun diritto o conoscenza particolare; abbiamo però interesse che il Salone mantenga la sua capacità di sostenere il mercato del libro, il mondo del libro in Italia e di farlo conoscere all’estero.
Vuole sbilanciarsi su un nome?
No, no.., anche perché ho amici lì e quindi conosco le dinamiche.. Immagino ci sia una divisione; guarda: il Salone si è salvato. Perché? Perché la politica lo ha aiutato ma lo ha anche lasciato libero, la politica locale e nazionale l’ha sostenuto, è intervenuta a un certo punto per contribuire, perché ha pensato che fosse importante salvare il mondo del libro, ma lo ha fatto lasciando la struttura, il gruppo chiamato ora a nominare il successore di Lagioia, libero. E questo è il meccanismo ideale: che la politica, sia la politica nazionale che quella locale, non si disinteressi del Salone – perché questo ovviamente ne metterebbe in discussione la sopravvivenza – ma si tragga un metro indietro, stia di lato.
La scelta di Lagioia ha dimostrato che da soli ce la fanno, che la struttura che c’è, le persone che sono chiamate a collaborare, sono in grado di continuare questo buon lavoro. Si trovi una figura sul modello di Nicola Lagioia, in un momento – è molto importante dirlo – in cui il mondo del libro sta cambiando radicalmente.
Quello che sta accadendo al mondo del libro è in discontinuità: le nuove forme di circolazione e di gestione, i nuovi libri, i linguaggi, i social, eccetera, tutto questo, a Torino, si è affrontato: io, il primo incontro di TikTokers, l’ho visto proprio a Torino! Questo per dire che il Salone è uno spazio dove si è stati capaci di intercettare queste novità. Ora, queste novità – e parlo proprio a voi che ve ne occupate – sono davvero radicali.
Come Centro per il libro, ad esempio, abbiamo fatto un bando per le biblioteche del Sud proprio perché le biblioteche stanno cambiando enormemente, non sono più quel luogo dove si va a trovare i libri. I libri stanno in un sacco di altre parti, ma se scompaiono le biblioteche come elemento di luce, di socialità, specie nel Sud, come indirizzare questo processo? Si tratta di ripensare tutto il mondo del libro, le pratiche della lettura, i luoghi, in un luogo come il Salone che si è dimostrato già capace di farlo adesso.
Il paradosso è che ci si trovi in questa difficoltà pure di fronte a un’esperienza positiva. Noi siamo pieni, nel mondo dell’editoria e del giornalismo, di cose che vanno male e lì, sì, è difficile.. ecco questo è il paradosso: ci troviamo in difficoltà a continuare un lavoro che tutti diciamo va bene, e questo mi dispiace.
A tre anni ormai dalla sua istituzione, il titolo di Capitale italiana del libro sembra faticare a imporsi: quali prospettive, a Suo avviso, per questa istituzione?
Nei luoghi nominati Capitali – penso sia a Vibo che a Ivrea, quelli che ho seguito più da vicino – le cose accadono, si fa semmai fatica a comunicarle. La responsabilità è in parte nostra, delle Istituzioni, perché la nomina avviene troppo tardi mentre dovrebbe avvenire con mesi d’anticipo rispetto all’anno solare nel quale la città viene scelta, perché altrimenti quella non può che comunicare in ritardo il programma.
Un serio problema deriva da ragioni burocratiche perché costituire le Commissioni che fanno queste scelte è complicatissimo: bisogna trovare commissari che non hanno nessun rapporto con nessuna delle città candidate. Poi, le città che si candidano devono rispondere a certi requisiti e a volte i requisiti non ci sono e si ritarda.
In secondo luogo, c’è il tema più delicato che tutta la dimensione del libro e della lettura va ripensata alla luce di tecnologie e pratiche che vanno cambiando, quindi la Capitale del libro deve evidenziarsi come la capitale della lettura più che del libro, un luogo, cioè, dove ci si confronta con queste trasformazioni. Ivrea chiuderà il suo anno da Capitale con un Manifesto della lettura, un primo passo in questa considerazione delle nuove forme di circolazione del libro, della lettura. Dobbiamo fare due cose quindi: uno, le istituzioni devono essere più rigorose. In secondo luogo, cominciare a pensare la dimensione della lettura nelle forme che sta assumendo e non solo in quelle tradizionali alle quali, io per primo che ho 68 anni, tendiamo a rimanere legati.
Lo scenario dipinto dai dati Istat parla di sei italiani su dieci che non leggono neanche un libro all’anno: cosa si può fare?
Allora, intanto le stesse statistiche, comprese quelle su cui lavoriamo noi, fanno fatica a registrare forme diverse di lettura. Naturalmente, se uno compra un libro e lo legge, quello è il lettore tipico ma se uno scarica o vede su un sito venti pagine di un romanzo non è un lettore, cosa che secondo me andrebbe messa in discussione. C’è dunque un problema di ridefinizione nella situazione attuale.
I dati variano molto secondo i criteri di rilevazione: ad esempio, l’Istat non considera libri scolastici e libri professionali; se li consideriamo, l’area si allarga, ma al di là dell’allargamento il dato veramente preoccupante è che la percentuale dei lettori non cresce mai, anzi, tende a diminuire con l’arrivo di nuove tecnologie. Tende, ad esempio, a diminuire la lettura giovanile e infantile, che era molto consistente.
Siamo di fronte a un problema di lungo periodo: siamo un Paese dove i dati sono sempre stati bassi, non si è mai creata una piattaforma sufficientemente ampia di lettori da resistere alla concorrenza della televisione. C’è un problema antico che è molto difficile cambiare, un problema che nasce dal ritardo dell’alfabetizzazione, dalla svalutazione del libro e della lettura nelle culture e politiche del Paese. Tutto ciò è difficile da cambiare e quindi noi non avremo mai dati alti come quelli di altri Paesi.
Non possiamo però rassegnarci a dati in bianco e soprattutto a dati che tendono a diminuire. Abbiamo bisogno di istituzioni, di trasmissioni e anche di modi nuovi di guardare al libro e alla lettura, che appartengono alle generazioni che verranno. Quello che noi possiamo fare è tenere aperta, anzi rafforzare, la rete del libro perché questi dati sono veri però il dato veramente significativo è che negli ultimi anni, due anni dopo la pandemia ma anche sotto la pandemia, la lettura ha resistito, il settore ha resistito, con molte difficoltà, soprattutto nelle librerie. Perché è successo? Perché c’è stata una rete che ha visto le istituzioni mettere dei soldi, i legislatori operare, per esempio lasciando aperte le librerie durante il secondo lockdown in un modo anche simbolicamente positivo, gli editori continuare a lavorare, i librai fare il sacrificio di rimanere aperti anche quando c’era poca gente, le biblioteche, che sono state le più colpite perché lì davvero la gente non ci voleva andare, si sono inventate forme diverse di circolazione.
Ecco, abbiamo avuto una piccola lezione che, se si attiva la rete, cioè se tutti gli operatori del settore anziché viversi, come spesso accade, in concorrenza, capiscono – e questo è il compito del Centro per il libro – che bisogna mettersi in rete e collaborare, se queste reti sono capaci di stare sui territori, cioè nei luoghi dove poi il libro va incontrato, il mercato ha tenuto, in una situazione molto difficile. Anzi, è cresciuto!
Questo dimostra che una strada ci sarebbe, molto difficile: siamo capaci di attivarla nell’emergenza mentre invece andrebbe resa stabile ed è quella di misure centrali, naturalmente, che aiutino anche economicamente un settore di grande importanza economica ma in ovvia difficoltà, e di reti locali che, per mezzo dei patti della lettura che proponiamo come Centro per il libro, mettano di fronte alla stessa responsabilità, o almeno intorno allo stesso tavolo, le istituzioni e gli operatori, i librai con gli assessori, gli organizzatori dei festival, che sono una cosa ormai di successo e sembrerebbero contraddire questi dati così negativi, perché siamo il Paese dove si legge meno ma anche il Paese dove c’è più gente che va nei festival letterari. Qui c’è una lezione: il tipo di lettura italiana è fatta così, è sociale, aperta e meno legata al rapporto magari individuale e magari solitario con il libro, più legata alla sua forma spettacolare. È un dato che andrebbe valorizzato anche dal punto di vista delle statistiche.