
Come si sono evoluti i concetti di canonicità e marginalità nello studio dei testi classici?
Tutto ciò che appunto non è inerente, finisce per diventare marginale. Seguendo tale logica, un testo marginale, cioè non canonico e non inquadrabile secondo precise categorie interpretative, viene al più utilizzato come fonte utile a fornire un’informazione specifica su altri testi o sul contesto. Ci sono molti testi antichi che possono essere definiti marginali perché, per esempio, non ne conosciamo l’autore o perché frammentari o incompleti o ancora perché non appartengono ad un genere letterario specifico o perché non sembrano riallacciarsi ad una tradizione, ad un discorso precedente o semplicemente privi di ciò che più titilla l’interesse del classicista, cioè rapporti intertestuali con la tradizione precedente.
Ora, benché i benemeriti Classics angloamericani adottino le pratiche ermeneutiche più disparate e le prospettive di ricerca più originali, che servono a istillare nuova vita in testi sui quali credevamo di non poter dire più nulla di veramente nuovo, il corpus preso da loro in considerazione consiste quasi sempre di testi canonici e, nella fattispecie, di quei testi che ai nostri occhi sono “letteratura”, escludendo così dal loro raggio di azione tanti generi letterari e ampi settori di testualità antica. Eppure, come ben si sa, il concetto stesso di letteratura risale a non prima del Romanticismo e non appartiene affatto alla cultura antica. Le lingue greca e latina non dispongono, come ben si sa, di nessun termine per indicare ciò che a noi invece non solo sembra una cosa scontata ma che –paradossalmente- identifichiamo pienamente con le culture antiche. Per formulare un’altra generalizzazione, che farà forse indispettire alcuni, direi che in Italia e in Europa si è più conservatori sul metodo, più storicistico e generalmente meno influenzato da teorie contemporanee, e più aperti sui testi e i generi da studiare. Mentre in Nordamerica e in parte in Gran Bretagna si è molto più disposti a impiegare nuovi approcci e prassi ermeneutiche, ma si è più conservatori sui testi, che si riducono al canone, sia nell’insegnamento sia nella ricerca. Un altro elemento da considerare è che la carriera universitaria stessa è determinata proprio dai testi che il candidato ha trattato nel suo lavoro di ricerca. Per dirla in modo brutale: sei hai studiato Euripide o Ovidio, hai le carte in regola per poterti candidare a Cambridge o a Princeton, sedi in cui non verresti nemmeno preso in considerazione se ti presentassi con pubblicazioni riguardanti autori minori, testi scientifici o tardoantichi (anche qui generalizzo, ma le eccezioni confermano la regola). Questa ultima costatazione ci permetterebbe di trarre interessanti considerazioni sul differente funzionamento dell’istituzione accademica in Italia, negli altri paesi europei e in Nordamerica.
Quale importanza metodologica ha acquisito, in ambito classico, la teoria della ricezione?
Gli studi di ricezione antica e sulla tradizione classica hanno senz’altro dato un grande scossone metodologico allo studio delle letterature antiche che è stato di vitale importanza per tutta una serie di motivi concatenati, ma soprattutto perché ha ridato una qual certa centralità ai testi classici anche in altre discipline letterarie e, al contempo, ha accresciuto la visibilità della nostra disciplina. Sino ad alcuni fa sarebbe stato impensabile, perché ritenuto poco serio, trattare testi antichi in traduzione in un articolo o in un corso universitario. Invece, gli studi sulla ricezione hanno espanso il campo d’azione dei classicisti ad ambiti che prima sembravano esulare le loro competenze specifiche sicché ora essi guardano ad un testo, per esempio, del Novecento nel quale l’antichità viene in qualche modo tematizzata, ricorrendo ad un ventaglio di strumenti ermeneutici ben più ampio di quanto consentisse lo studio prettamente filologico e linguistico del testo antico considerato nel suo preciso contesto storico. Di converso, gli studiosi delle altre discipline letterarie prendono sempre più in considerazione il lavoro dei classicisti quando si trovano a studiare un testo in cui si profila un qualche rapporto con l’antichità, e ciò, come dicevo, dà più visibilità alla filologia classica stessa. Ma della benefica diffusione degli studi di ricezione mi preme sottolineare un’implicazione in particolare. Essi hanno sostanzialmente modificato l’approccio fondamentalmente storicistico del filologo classico, allenato a inquadrare il testo nel preciso contesto storico in cui esso è stato prodotto e a cercare di ricostruire le circostanze della produzione del testo nonché il pubblico di lettori a cui esso, nelle intenzioni dell’autore, era rivolto. Chi legge ora il testo antico, anche senza ricorrere al confronto con un testo moderno, sa bene che la sua particolare lettura è comunque frutto di una catena di trasformazioni concettuali ben lontane dal miraggio, per così dire, rappresentato dal contesto originario. E ciò rende noi classicisti più consapevoli anche della nostra missione intellettuale che sarà tesa a negoziare e, quindi, a trovare il giusto equilibrio tra contestualizzazione e concettualizzazione ermeneutica, tenendo conto ovviamente di orientamenti che pendono più da una parte o dall’altra. Bilancio pienamente positivo quindi? Non del tutto. Infatti anche gli studi di ricezione hanno un limite: se un testo antico non ha una degna storia nella ricezione, cioè non è stato letto, ripreso, riproposto, riscritto e non vi si è fatto riferimento, non vale nemmeno la pena di considerarlo. Un padre fondatore dei reception studies, il latinista britannico Charles Martindale ha esplicitamente dichiarato che a parer suo meritano un companion, cioè un manuale, solo quegli autori antichi che hanno goduto di una ricezione importante nelle epoche posteriori. Ancora una volta quindi, benché da una prospettiva ben più pluralistica e più teoricamente consapevole, molti testi antichi non meritano alcuna attenzione costretti come sono ad essere relegati ad una marginalità muta e assoluta.
In che modo tale processo si è riverberato sullo studio della letteratura tardoantica?
Anche per il tardoantico bisogna fare i dovuti distinguo tra tradizioni culturali e stili accademici diversi, dentro e fuori dell’Europa. In Italia lo studio dei testi tardoantichi, per ovvi motivi, non è mai stato marginale, c’è sempre stata un’attenzione anche a livello scolastico. Ricordo che nel manuale adottato nel mio liceo, l’antologia dei brani da leggere comprendeva anche alcuni passi di Prudenzio e Agostino. Ciò sarebbe impensabile in Germania o negli Stati Uniti. Per continuare con gli aneddoti, qualche anno fa in occasione di una conferenza presso la University of Michigan a Ann Arbor una collega ed eccellente latinista statunitense mi faceva notare che in America il tardoantico è con buona ragione stato espulso dai Classics in quanto cristiano, e quindi sostanzialmente incompatibile con la laicità degli studi classici di cui la scholarship nordamericana va fiera. A parte il buffo particolare che mentre lei mi spiegava tutto ciò, io osservavo in cima all’edificio del campus chiamato Angell Hall, sede dei dipartimenti di letteratura, dal quale eravamo appena usciti, la scritta Religion, morality, and knowledge, being necessary to good government and the happiness of mankind etc…, l’argomentazione proprio non tiene, per due evidenti motivi. Il primo è che nel tardoantico furono scritte un’infinità di opere, che, indipendentemente dal credo degli autori, non solo non tematizzano affatto il cristianesimo ma sono perfettamente ‘classici’ nello stile come nel contenuto. Il secondo motivo è che anche un’opera di soggetto cristiano viene letta, discussa e interpretata indipendentemente dal credo religioso. Leggiamo forse le Confessioni di Agostino, la Commedia di Dante o il Paradiso Perduto di Milton attenendoci ai precetti ecclesiastici e dottrinari? Certamente no, queste opere, come tante altre, sono prima di tutto espressioni letterarie e in quanto tali contengono una molteplicità di valori e di istanze culturali, estetiche, politiche, intellettuali che non possono essere ridotte alla religione praticata dall’autore o al loro contenuto superficiale. È pur vero che anche in Europa i testi tardoantichi vengono ben di rado trattati nelle aule scolastiche e universitarie. In Germania per esempio, siccome la lettura di questi non è prevista nei programmi scolastici, i corsi universitari di letteratura greca e latina evitano per lo più di trattarli, dato che nel caso specifico nell’università tedesca l’insegnamento del latino e del greco antico è connesso con la formazione ministeriale degli insegnanti (Lehramt). Date queste premesse, che posso qui indicare solo in maniera sommaria, la letteratura dei secoli tardi è stata sottoposta ad un processo di marginalizzazione culturale e accademica profonda, dalla quale solo negli ultimi due decenni si sta lentamente liberando tanto da venire in certi casi alla ribalta come un periodo affascinante –exciting direbbero gli anglofoni- di grandi trasformazioni e quindi sorprendentemente più vicino a noi di quanto si pensasse in passato. Anche in questo caso, come si può facilmente constatare, è la vicinanza, presunta o vera che sia, con il nostro mondo che rende la tarda antichità un periodo “eccitante”… Da parte mia, in un altro scritto avevo ricordato come tale eccitazione intellettuale per questo periodo sfuggente sia invece spiegabile proprio per la sua lunga storia come età marginale per eccellenza, come declino e decadenza.
In che modo l’alterità delle letterature antiche può oggi renderle ideali?
Lo studio dell’antichità ha creato nel corso dei secoli una sorta di strana familiarità con il mondo classico, del quale noi europei ci crediamo diretti discendenti. Ogni qual volta se ne presenti l’occasione, politici, giornalisti, intellettuali e anche studiosi fanno riferimento alle nostre comuni radici culturali, rappresentate dal passato greco-romano. Persino tra classicisti, anche se ciò non viene veramente affermato, vige l’illusione secondo la quale, in fondo, noi siamo simili a “loro”, cioè ai greci e ai romani. Questa illusione è in parte accresciuta dal fatto che gli studi classici sono una disciplina molto internazionale, studiata praticamente in tutti i continenti, praticata in diverse lingue, nelle quali si pubblica numerosissima bibliografia per lo più accessibile agli specialisti. Ciò crea l’illusione di una Grecia e una Roma storicamente date, oggettivamente conoscibili e quindi familiarissime. In realtà, come tra l’altro dicono in molti, esse ci sono molto estranee, non c’è quasi nulla della civiltà greco-romana che vorremmo riadottare. Partiamo dalla schiavitù, dalla condizione della donna, dalla sessualità per arrivare alla politica e all’estetica. Eppure, come Salvatore Settis ha spiegato nel suo magnifico libro Il futuro del classico, il mondo classico è unico non tanto per averci trasmesso determinati valori ma perché esso rappresenta un modello ineguagliato di alterità, con la quale continuamente confrontandoci costruiamo la nostra identità. Voglio essere chiaro su questo punto: non è tanto l’estraneità dei Greci e dei Romani ad essere unica, quanto l’immagine culturale della civiltà classica, definitasi attraverso i secoli, che ha prodotto un modello per pensare l’altro e, nella sua specificità, nel pensare l’altro in funzione della costruzione della propria identità. Per questo motivo gli studi classici, nonostante tutti i profondi cambiamenti dell’università e della cultura in generale, possono ancora considerati come un faro nelle humanities di oggi: ci insegnano a guardare all’altro senza identificarci interamente e senza volerlo a tutti i costi fare nostro, ma rispettandolo proprio in quanto altro da noi.
Marco Formisano è professore di letteratura latina presso l’Università di Gand in Belgio. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulla letteratura tardoantica, sui testi tecnici e scientifici greci e latini, sugli atti dei martiri e su questioni di ricezione. Tra i suoi libri, Tecnica e Scrittura (Carocci 2001), Vegezio. Arte della guerra romana (Rizzoli 2003), La Passione di Perpetua e di Felicita (Rizzoli 2008). Ha curato diverse collettanee tra cui War in Words (DeGruyter 2010), Perpetua’s Passions (Oxford University Press 2012), Décadence. ‘Decline and Fall’ or ‘Other Antiquity’? (Winter 2014). Dirige la collana “The Library of the Other Antiquity” (Winter, Heidelberg) dedicata alla letteratura tardoantica e alla sua ricezione.