
Non sono, però, solo motivazioni di ordine economico a giustificare l’interesse dei Romani per la navigazione. In un’epoca che vede le imbarcazioni allontanarsi di rado dalla costa, il mare è soprattutto uno strumento di espansione militare. L’esercizio della navigazione di cabotaggio presuppone, infatti, la sostanziale unità del potere esercitato sulle acque e sulla terraferma, perché senza il saldo controllo di quest’ultima non sarebbe possibile ampliare le rotte commerciali e percorrerle in tutta sicurezza.
Quali pericoli serbava, nel mondo antico, la navigazione?
Il rapporto dell’uomo con l’altrove marino è segnato da un dualismo dialettico non privo di accenti drammatici: navigare è necessario, tuttavia i vantaggi che ne derivano sono controbilanciati dalle molteplici insidie che possono funestare un viaggio. Non bisogna dimenticare, infatti, che la navigazione antica è più pratica, che non scienza; un’arte che poggia sulla capacità di prevedere e di interpretare i fenomeni naturali, anziché su carte nautiche e strumentazione di bordo. A dispetto della primitiva semplicità, nondimeno, questa techne appare a tal punto modellata sulla topografia del Mediterraneo da non aver conosciuto evoluzioni significative per buona parte dell’antichità greco-romana, la cui marineria, ereditata l’esperienza cicladica e minoica, non introduce elementi di novità tali da incidere in modo significativo sui mezzi o sulle rotte. In ragione della sua conformazione, infatti, il Mediterraneo si presta per lo più a una navigazione cabotiera, che rende superfluo l’utilizzo di mappe; in assenza di adeguati strumenti di misurazione, queste ultime avrebbero comunque contenuto troppe imprecisioni per poter essere impiegate in modo efficace. Navigare bordeggiando la costa obbliga d’altro canto il nauta a una conoscenza quanto mai accurata della geografia dei luoghi, al fine di evitare pericoli celati anche presso lidi apparentemente ospitali, come nel caso della Sirti, i cui fondali sabbiosi non sono meno temuti nell’antichità delle coste rocciose dell’Eubea. Vi sono poi promontori pressoché impossibili da doppiare, a causa di acque perennemente agitate: è il caso di Capo Malea, a sud del Peloponneso, protagonista di un detto proverbiale e terribile, o di Capo Chelidonia, lungo le coste dell’Asia Minore, nei cui pressi è stata rinvenuta una delle più antiche testimonianze del commercio marittimo arcaico nel bacino del Mediterraneo orientale. In altri casi a rappresentare un’insidia sono invece gli stretti, al contempo póros e pórthmos, luoghi nei quali l’incontro di mare e terra origina talora fenomeni naturali che ostacolano il passaggio, come vortici e correnti.
Influenzata dalle condizioni meteorologiche, la navigazione degli Antichi trova, inoltre, nella stagionalità una delle sue principali caratteristiche. Secondo Esiodo, nei fatti, il marinaio potrà confidare in un esito fausto della traversata solo qualora prenda il largo nei mesi estivi, allorché godrà di venti favorevoli e il cielo, sgombro da nubi, gli consentirà di orientarsi osservando la posizione degli astri. In inverno, al contrario, il navigante sarà sfavorito dal tempo instabile e potrà vedere vita e carico minacciati dalle violente tempeste, che le depressioni atmosferiche del Mediterraneo originano con frequenza dalla fine di ottobre. Il drammatico racconto del naufragio di Paolo di Tarso, contenuto negli Atti degli Apostoli, e le disavventure dei due protagonisti delle Etiopiche, Teagene e Cariclea, costituiscono non a caso una testimonianza efficace della (quasi) obbligata stagionalità della marineria a vela.
Il potenziale distruttivo del mare non è, tuttavia, alimentato solo dalla furia degli elementi atmosferici, ma anche dall’uomo, che in esso trova un ambiente propizio a pratiche predatorie. Modus vivendi funzionale a integrare le entrate delle economie più povere e arretrate, l’esercizio della pirateria e di forme di saccheggio a danno dei naufraghi è infatti tipico soprattutto di quei popoli rivieraschi che, praticando un’agricoltura rudimentale su territori poco fertili, non riescono a soddisfare il fabbisogno alimentare locale, né a realizzare un surplus commerciabile. Si deve inoltre rilevare che la sezione orientale del Mediterraneo, ove la linea costiera è assai irregolare e le isole, numerosissime, sono poco più che scogli, costituisce un ambiente ideale per i pirati, protetti da falesie e anfratti rocciosi.
Fortunali e pratiche predatorie ai danni dei naviganti non sono, per altro, le uniche insidie da cui il viaggiatore avrebbe dovuto guardarsi: a rendere insicuro il Mediterraneo ancora nel V sec. a.C. – così almeno ci suggerisce Erodoto – stava, infatti, l’istituto del diritto di rappresaglia (sylai), secondo il quale il creditore insoddisfatto di uno straniero avrebbe potuto sequestrare i beni (se non la persona stessa) di un concittadino del debitore insolvente. Ciò accadeva, con ogni probabilità, qualora fra le comunità di appartenenza dell’uno e dell’altro non esistessero accordi funzionali ad assicurare al danneggiato di adire tribunali della comunità dell’offensore. Al fine di evitare le conseguenze pregiudizievoli del diritto di rappresaglia, dunque, le città dedite al commercio marittimo erano solite stipulare trattati nei quali s’indicavano i luoghi deputati alle transazioni economiche, la procedura da osservare e gli organi che avrebbero dovuto risolvere eventuali controversie. Lo scambio, posto sotto la protezione della divinità, avveniva in luoghi denominati icasticamente ‘asili’ (l’alfa privativo – a–sylai – indica, cioè, che non vi poteva essere praticato il diritto di rappresaglia), ove genti diverse avrebbero potuto incontrarsi e negoziare in modo sicuro.
Come disciplinava il trasporto marittimo il diritto romano?
Il trasporto per via d’acqua (ma altrettanto si potrebbe dire di quello terrestre) non ha, per i Romani, caratteristiche sue proprie, né introduce un contratto tipico che lo preveda autonomamente. I giureconsulti individuano piuttosto lo schema negoziale, al quale ricondurre l’assetto d’interessi pattuito dalle parti, accostando di volta in volta l’espletamento di questa specifica attività a istituti già presenti nel tessuto giuridico. Accantonata l’ipotesi, pur documentabile, di un armatore che utilizzi l’imbarcazione di proprietà per trasportare merci di cui è il proprietario, l’atto, con il quale l’exercitor (o il suo magister navis) si obbliga nei confronti dei terzi a imbarcare e condurre sino a un luogo determinato beni o persone, è ritenuto inquadrabile o nel modello contrattuale del deposito, o – più di frequente – in quello della locatio conductio, oppure è qualificato come conventio atipica (secondo lo schema ‘do ut facias’).
A dispetto di una sua qualche utilità descrittiva, è però indubbio che questa sintesi sia una semplificazione artificiale e infedele della riflessione giurisprudenziale sul tema. La dogmatica degli istituti, infatti, non interessa ai prudentes romani, il cui approccio ai problemi della prassi è sempre processualistico, tanto quanto individuare la misura rimediale più adatta a tutelare gli interessi del contraente insoddisfatto.
Detto altrimenti, il giureconsulto non si domanderà mai: ‘quale contratto esiste tra l’armatore e il mercator che gli affida le merci?’, piuttosto si chiederà (perché tale è anche la richiesta del privato): ‘quale azione spetterà a chi, affidate a un exercitor (o al suo preposto) delle res, affinché fossero trasportate al di là del mare, non abbia ottenuto il risultato atteso?’.
I problemi di inadempimento, responsabilità e periculum non sono quindi concettualizzati, nei responsi dei giuristi, in chiave negoziale-sostanziale, piuttosto valutati alla luce dell’esperibilità di una o più azioni tra quelle ex locato, ex conducto, ex recepto, praescriptis verbis o depositi, secondo il contenuto degli accordi all’origine del rapporto.
Nel mondo dei traffici trasmarini, per altro, non era infrequente che la qualificazione dell’assetto d’interessi dedotto in obligatione fosse incerta, giacché il contenuto delle conventiones dei privati, sensibile al quadro economico non meno che alle consuetudini mutuate dal mondo degli scambi mediterranei, presentava talora una complessità irriducibile agli schemi negoziali del ius civile. La conseguenza, sul piano processuale, era, dunque, che alla ‘tipicità normativa’ dei nomina contractus edittali potesse contrapporsi una certa ‘atipicità rimediale’, qualora il tenore degli accordi stretti dalle parti avesse reso dubbia la convenienza del richiedere la tutela delle formulae tipiche.
Cosa accadeva nel caso della predazione marittima?
Sebbene i trattati stipulati con Cartagine evidenzino un risalente interesse dei Romani per il contenimento di pratiche predatorie ai danni dei naviganti costretti a cercare riparo presso una costa straniera senza una preventiva autorizzazione dell’autorità locale, è opinione comune ch’essi abbiano in origine tollerato il fenomeno piratesco, giacché funzionale a soddisfare le esigenze di un’economia fondata sul lavoro degli schiavi. L’aristocrazia terriera, che costituiva il ceto politico dominante, non avrebbe infatti avuto particolare interesse a colpire la predazione marittima, da cui traeva linfa per l’utilizzo di manodopera a basso costo. Per effetto di un plebiscito, la lex Claudia de senatoribus del 218 a.C., per altro, le famiglie senatorie, cui era interdetto il possesso di navi con una capacità superiore alle trecento anfore, erano meno colpite dall’attività di corsa, che costituiva al contrario una piaga per quanti, come gli equites, investivano ingenti capitali nel commercio marittimo.
Il mutare degli equilibri economico-sociali interni al governo dell’Urbe, ma, soprattutto, l’incompatibilità della pirateria con la posizione egemone che Roma andava assumendo nel Mediterraneo, incidono pertanto direttamente sulla politica seguita dalla stessa nei confronti dei predoni del mare.
Per quanto concerne il profilo repressivo, l’azione di contenimento e di contrasto ai latrones delle coste fu condotta operando su due fronti: uno, per così dire, di ius publicum (al quale ricondurre anche le misure disposte nell’ambito del ius belli e del ius gentium), l’altro di ius privatum.
Fra la fine del secondo e gli inizi del primo secolo a.C., la res publica è impegnata in una serie di campagne militari contro i predoni del mare; campagne che possono dirsi concluse (si tratta, per la verità, di una temporanea tregua) solo nel 67 a.C., quando Pompeo, liberando in modo definitivo il Mediterraneo dalla flotta cilicia, assicurerà a Roma l’imperium navis. Le ragioni di un intervento così energico possono essere principalmente ricondotte a due ordini di motivi: da un lato, lo sviluppo su larga scala della predazione marittima costituiva un evidente pericolo per il commercio, entrando in contrasto con gli interessi delle élite che investivano nei traffici trasmarini. Dall’altro, l’attività di leistai e katapontistai aveva sovente un’incidenza diretta sui conflitti che vedevano in quegli anni protagonista Roma, condizionandone l’esito. La pirateria di matrice cilicia, per esempio, non solo ricoprì un ruolo di primo piano nelle tre guerre mitridatiche, ma si schierò in sostegno dei nemici della res publica anche in occasione di scontri tutti interni a essa: predoni originari della Cilicia comparvero, infatti, al fianco dei rivoltosi nelle tre guerre servili, nella guerra Sociale (90-89 a.C.) e in quella Sertoriana (81-72 a.C.).
Oltre che con operazioni navali dedicate, dietro le quali, per la verità, si celavano evidenti mire egemoniche, i Romani contrastarono l’attività piratica anche attraverso la legge criminale, con ogni probabilità nell’ambito del crimen vis (sebbene non in via esclusiva). Non pare, infatti, che vi sia mai stata – non per l’età classica, almeno – una legislazione separata riguardante i predoni del mare, i quali, di fatto equiparati ai latrones, erano come tali perseguiti.
Dal punto di vista del ius privatum, invece, emerse primariamente la necessità, da un lato, di evitare che il vettore dovesse rispondere della perdita del carico derivante da un assalto; dall’altro, di tutelare il dominus mercium dal rischio di perdere i propri beni in conseguenza di un naufragio o di un’aggressione all’approdo. Sarà il pretore, in particolare, a farsi interprete di questa seconda istanza, riconoscendo al proprietario delle res sottratte un’actio in quadruplum (se esperita entro l’anno; in simplum, cioè pari al mero controvalore del pregiudizio subito, se successivamente) contro il saccheggiatore. Le misure adottate in età repubblicana non bastano comunque a contenere lo sciacallaggio nelle sue varie declinazioni, in particolare la direptio ex naufragio, tanto che il fenomeno, evidentemente ancora vivo e pericoloso in età classica (ancor più, per altro, a partire dalla seconda metà del terzo secolo d.C., con la crisi dell’impero romano) è oggetto di una serie di provvedimenti del princeps, che non solo denotano lo sforzo compiuto dai Romani per reprimere ogni forma di illecito connesso alla navigazione, ma sono soprattutto quanto mai esemplificativi di un atteggiamento culturale di profonda ostilità alla predazione marittima, che non sembra avere precedenti tra i popoli mediterranei.
Quali conseguenze comportava, sul piano del diritto, il naufragio?
Il termine ‘naufragium’ perimetra, nell’antichità, una gamma di situazioni molto più ampia di quella oggi ricondotta alla sua più letterale traduzione, indicando tutte quelle ipotesi in cui la nave deve considerarsi perduta, benché non ridotta a un relitto inghiottito dai flutti, magari per il fatto che si è incagliata – senza speranza di recupero – in una secca oppure è stata depredata all’approdo.
In estrema sintesi, potremmo dire che i Romani affrontano il problema del sinistro su due fronti, l’uno volto a privilegiare interessi di tipo privatistico, quali la tutela dei proprietari delle merci trasportate, la qualificazione dei diritti spettanti ai soggetti a vario titolo interessati al carico (o alla nave), la definizione degli obblighi risarcitori nei confronti dei proprietari delle cose perdute; l’altro teso piuttosto a valorizzare particolari aspetti connessi alla sfera pubblicistica, come la repressione dei comportamenti colposi o dolosi associati al naufragio e agli eventi a esso assimilabili.
Più nel dettaglio, in caso di avaria e in riferimento ai resti delle imbarcazioni, la questione è impostata intorno all’interrogativo se quanto sfuggito all’inabissamento e respinto sulla spiaggia sia da considerarsi perso in via definitiva dal proprietario, non cessando questi d’essere tale nemmeno a seguito del naufragium. I Romani non approcciano, tuttavia, la questione elaborando regole specifiche per la nave e per la navigazione, ma affrontano il problema dell’appartenenza delle merci perdute in mare applicando gli stessi criteri elaborati con riguardo alla derelizione: ne consegue che la posizione del rinvenitore, dal punto di vista dell’acquisto delle cose trovate sul lido, sia diversamente valutata a seconda ch’egli abbia avuto o meno la possibilità di conoscere la volontà del proprietario di procedere al recupero. Mentre, infatti, sarà esposto all’actio de incendio ruina naufragio rate nave expugnata chiunque depredi il carico dell’imbarcazione incagliata, e all’actio furti, chi sottragga fraudolentemente quanto messo in salvo dai viaggiatori, senza però nulla sapere del loro sfortunato approdo, non dovrà essere considerato ladro – e come tale perseguito – il soggetto che si appropri in buona fede delle res inventae sulla spiaggia, ritenendole abbandonate. Qualora, anzi, il proprietario non rivendichi quanto gli appartiene, il rinvenitore potrà usucapirlo, sebbene non a titolo di derelizione.
Con riguardo ai profili di responsabilità del vettore per la perdita delle merci e ai relativi obblighi risarcitori, i giuristi cercano nell’aequitas correttivi mitiganti il rigore della disciplina introdotta dall’actio recepticia, che chiamerebbe l’armatore a rispondere anche di eventi insuperabili. Già Labeone, infatti, ragionando sulle specificità dell’attività armatoriale e osservando come i trasportatori per via d’acqua siano esposti a rischi ben maggiori di quelli gravanti su altre categorie professionali, ritiene giusto che il pretore riconosca al nauta, ex decreto, una eccezione che lo esoneri dal rispondere della perdita delle merci, laddove essa sia da ascrivere a un evento grave e imprevedibile, come un naufragio o una vis piratarum.
Per quanto concerne i profili pubblicistici sopra richiamati, il diritto romano sanziona con particolare severità, come si è detto, chiunque si appropri dei beni naufragati, ostacoli le operazioni di soccorso, oppure procuri dolosamente il sinistro, accendendo, per esempio, fuochi notturni atti a ingannare naviganti. Numerose sono poi le disposizioni contenute nel Codex Theodosianus e nel titolo ‘de naufragiis’ (C. 11.6) del Codex Iustinianus atte a contrastare gli abusi dei navicularii publicas species transportantes, che, simulando naufragi allo scopo di sottrarsi agli oneri del contratto di trasporto, procuravano gravi perdite alle già esangui finanze pubbliche della tarda età imperiale.
Non risultano, invece, evidenze di un interesse per quel profilo di sicurezza operativa, intesa come prevenzione della incidentistica navale e portuale, oggi designato con il termine ‘safety’: sebbene non del tutto ignorato dalla riflessione dei giuristi, tale elemento, considerato di stretta pertinenza del privato, è tendenzialmente assorbito, infatti, dalla disciplina relativa al risarcimento del danno.
Sara Galeotti è Professore aggregato di Storia del Diritto Privato Romano presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi Roma Tre. Oltre agli studi monografici Ricerche sulla nozione di damnum, I: Il danno nel diritto romano tra semantica e interpretazione e Ricerche sulla nozione di damnum, II: I criteri d’imputazione del danno tra lex e interpretatio prudentium, entrambi editi da Jovene, ha pubblicato numerosi saggi e articoli in riviste internazionali.