“Marcello Piacentini” di Paolo Nicoloso

Prof. Paolo Nicoloso, Lei è autore della biografia di Marcello Piacentini, edita da Carocci: quale importanza riveste, per la storia dell’architettura italiana del Novecento, la figura di Marcello Piacentini?
Marcello Piacentini, Paolo NicolosoTra gli architetti italiani del secolo scorso, Piacentini non è stato il più bravo, non il più dotato artisticamente. Non ha lasciato nessuna architettura da ammirare entusiasti. Piacentini è stato importante per altre ragioni: perché per quasi mezzo secolo è stato di gran lunga l’architetto che ha avuto più potere. E questo potere gli ha permesso di mutare il volto di numerose città italiane.

Vediamo come si è articolato questo potere. Ad esempio, ha accumulato molte cariche, più di ogni altro architetto. Alcune sono molto prestigiose: è stato accademico d’Italia, ha avuto la prima cattedra universitaria di urbanistica in Italia, è stato preside della più frequentata Facoltà di architettura, quella di Roma. Ha ricoperto il ruolo di vicepresidente dell’Istituto nazionale di urbanistica, di membro del Consiglio superiore delle antichità e belle arti, di componente del Consiglio di amministrazione della Triennale di Milano, di membro del Consiglio di amministrazione del Credito edilizio e così via. Ha diretto dal 1921 al 1944 dapprima “Architettura e Arti Decorative” e poi “Architettura”, tra le riviste di settore una delle più lette in Italia.

È stato un uomo di potere perché ha frequentato il gotha della finanza italiana: da Bonaldo Stringher a Giuseppe Toeplitz, da Vittorio Cini ad Arturo Orsi, da Giuseppe Volpi a Guido Donegani. Ha avuto rapporti diretti con i presidenti di INA, INPS, RAS, Assicurazioni generali, Società generale immobiliare.

Ha frequentato pure i vertici della gerarchia fascista. È stato amico di Giuseppe Bottai e del presidente del senato Luigi Federzoni, ha intrattenuto rapporti con Costanzo Ciano e Galeazzo Ciano, per cui progetta la villa. Ha goduto la fiducia la fiducia del segretario nazionale del partito Augusto Turati, che lo chiama a progettare il centro di Brescia, del ministro Alfredo Rocco, a cui progetta la villa. E soprattutto è stato uomo di potere perché viene spesso chiamato a Palazzo Venezia: è stato l’architetto più a contatto con Mussolini.

In virtù di questa rete di conoscenze, di accumulo di cariche, di frequentazioni mussoliniane, Piacentini ha acquisito un enorme potere. E ciò gli ha permesso – in un periodo che va dagli anni Dieci agli anni Cinquanta – di costruire moltissimo, più di ogni altro collega. Piacentini ha trasformato con le sue architetture la fisionomia di molte città italiane.

Ma c’è qualcosa in più. Questo enorme potere gli permette negli anni Trenta – ma soprattutto nella seconda metà del decennio – di tentare di dare “un’unità di stile” all’architettura italiana del tempo di Mussolini. L’intento non è nuovo: appartiene a una tradizione culturale ottocentesca ancora viva, che si proponeva di assegnare uno stile architettonico alla nazione. Boito è stata la figura più rappresentativa di questa ricerca di stile. Nel Novecento anche Giovannoni si propone di identificare la nazione uno stile architettonico.

Io uso la parola “stile”. In realtà, Piacentini evita di parlare di «stile”, di “stile fascista», perché ciò semplifica la realtà ben più complessa delle cose. Piacentini, invece, parla di “indirizzi unitari” (o “unità di indirizzi”) in architettura. Ma subito tiene a precisare che indirizzi unitari” non vuol dire “soppressione di fantasia, o uniformità di espressione”.

“Indirizzi unitari” non significa annullamento dell’individualità dell’artista. All’opposto “indirizzi unitari” tiene conto della diversità dei percorsi artistici dei singoli architetti e del processo in fieri. “Indirizzi unitari” esprime bene l’idea di un’architettura contraddistinta da tratti figurativi comuni; trasmette l’idea di una partecipazione consensuale dei singoli architetti, che uniscono le loro forze e partecipano a un progetto comune di costruzione di un’architettura rappresentativa di un’epoca.

Piacentini è stato il regista, il “coordinatore di menti”, di questo ambizioso progetto che ha un respiro nazionale, che vuole lasciare un’impronta architettonica duratura nel tempo. È stato questo il suo progetto più alto. In questo sta la centralità – e l’unicità – della figura di Piacentini. In questo sta la sua importanza.

Marcello Piacentini fu uno straordinario uomo di potere: quali vicende contribuirono alla sua affermazione?
Piacentini è figlio d’arte. Il padre Pio Piacentini è una figura di rilievo del mondo architettonico romano a cavallo tra Ottocento e Novecento. La sua opera più nota è il Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale. Assieme, padre e figlio partecipano, senza successo, nel 1903 al concorso per la biblioteca nazionale di Firenze. Il giovane Marcello eredita dal padre un bagaglio di conoscenze che costituiscono un eccellente trampolino di lancio nel mondo della professione.

La prima importante affermazione di Marcello Piacentini è stato il concorso per la ristrutturazione della Fiera di Bergamo, in pratica la costruzione del nuovo centro cittadino. Qui, siamo nel 1906, partecipa senza il padre. Bergamo diventa una vera è propria palestra, un’avventura che dura oltre vent’anni. Fin dalle prime mosse rivela il suo talento. Che non è tanto architettonico, quanto nell’abilità a tessere relazioni di potere. Qui, inoltre, l’architetto rivela altre qualità: efficienza professionale, un grande pragmatismo, una straordinaria tenacia, un’ambizione non comune.

Poi viene chiamato a rappresentare l’Italia in due importanti esposizioni all’estero: quella di Bruxelles del 1910 e di San Francisco nel 1915. Tra queste due date, progetta i padiglioni più rappresentativi per l’Esposizione di Roma del 1911, che celebra il cinquantenario dell’Unità d’Italia. Va quindi detto che Piacentini è un architetto già noto al grande pubblico prima dell’ascesa del fascismo.

Con l’avvento del fascismo la sua fama cresce. A iniziare dal 1924 Mussolini inizia ad affidare a Piacentini le principali opere architettoniche pubbliche volute dal regime, dapprima a Roma, poi estendendo gli incarichi a tutt’Italia.

Che rapporti ebbe Piacentini con il fascismo?
Il fascismo e in particolare Mussolini hanno un ruolo determinante nell’attuazione del più importante progetto di Piacentini, che è stato – come abbiamo visto – di dare “indirizzi unitari” all’architettura italiana. Possiamo dire anche che questo progetto è possibile solo perché in Italia in quel momento c’è un regime totalitario.

Agli esordi il rapporto di Piacentini con il fascismo non è stato facile. Nel 1923 viene aggredito da un manipolo di squadristi e costretto a bere l’olio di ricino per le sue amicizie con il mondo massonico. Ma questa violenza subita non lo trasforma in un antifascista. Anzi, Piacentini si pone subito al servizio di Mussolini. Ad esempio lo consiglia di trasferire la sede di primo ministro da Palazzo Chigi ai palazzi michelangioleschi del Campidoglio, evidenziando l’aspetto simbolico di tale scelta e il tornaconto politico.

Mussolini gradualmente gli affida le più importanti opere pubbliche rappresentative del regime. Tra le prime opere sono la Casa madre dei mutilati a Roma, l’Arco della Vittoria a Bolzano, il Ministero delle corporazioni a Roma, la Città universitaria, sempre nella capitale. Piacentini conduce in porto tutte queste opere con grande efficienza, guadagnandosi la fiducia – ma solo in ambito professionale – del dittatore.

Mussolini si serve di un architetto che non è ostile al fascismo, che appoggia il regime, che si mette completamente al suo servizio, ma che non ha una fede fascista. L’adesione al partito è tarda, del 1932. Tra l’architetto e il dittatore non c’è un rapporto di amicizia. Mussolini non si fida e fa mettere sotto controllo il suo telefono. Raccoglie le informative della polizia politica sui comportamenti non sempre esemplari del suo architetto.

Quale segno hanno lasciato, in molte città italiane, i suoi interventi?
Piacentini ha ridisegnato il volto di molte città italiane. Nessun architetto in Italia ha avuto un ruolo così determinante nel destino delle città.

Il primo importante intervento – come si è visto – è stato a Bergamo la ristrutturazione della zona della Fiera, iniziata nel 1906 e terminata nel 1927. Poi, appena conclusa Bergamo, è inizia la progettazione di piazza della Vittoria a Brescia. Il nuovo foro fascista della città è stato inaugurato con grande enfasi propagandistica da Mussolini nel 1932.

Altri interventi significativi sono piazza della Vittoria a Bolzano, il secondo tratto di via Roma a Torino, che comprende un’area di ben sedici isolati compresi tra piazza San Carlo e piazza Carlo Felice; seguono a Genova piazza della Vittoria e piazza Dante e il blocco dei palazzi della Assicurazioni generali nella zona di Cittavecchia a Trieste.

Ma Piacentini, oltre alle municipalità sopra citate, è stato consulente urbanistico per numerose altre città italiane: Milano, Palermo, Venezia, Bologna, Padova, Parma, Udine. In sintesi, con consulenze, progetti e architetture è presente in ben 28 città italiane.

E poi c’è Roma. Qui Piacentini è stato tra i progettisti – senz’altro il più influente – del piano regolatore. Nella capitale segnaliamo solo il ministero delle Corporazioni, la nuova Città universitaria, l’apertura di via Conciliazione. L’intervento più importante è, però l’E42, l’attuale Eur. La “città mussoliniana”, iniziata nel 1937, è la città che doveva lasciare nei secoli l’impronta duratura dell’architettura del tempo di Mussolini. L’architettura dell’E42, fatta di archi e di colonne, diventa il pilastro dell’indirizzo stilistico del fascismo. È verso quell’orizzonte stilistico che si devono volgere gli “indirizzi unitari” dell’architettura italiana. Qui Piacentini è il “coordinatore di menti” di decine di architetti chiamati a collaborare.

Quali sono i più significativi esempi del suo stile architettonico?
Direi che non esiste un unico stile architettonico di Piacentini. Come ebbe a dire Ulisse Arata, l’architetto salta, senza molte remore, da una “forma d’arte all’altra”. A sua volta, l’amico Ugo Ojetti affermò che Piacentini segue “la moda a ogni volger di tempo”.

È questa una caratteristica di Piacentini. Il suo procedere stilistico spesso è incoerente. Soprattutto agli inizi, emerge una gran voglia di apparire, di protagonismo, di arrivismo. Sono numerose le volte in cui Piacentini dimostra questa volubilità stilistica.

Ne riporto alcune. Piacentini passa dalla soluzione classicheggiante del primo concorso per la Fiera di Bergamo alla soluzione più attenta alla tradizione lombarda della seconda gara. Procede dal neo barocco aulico, bombato, dei padiglioni romani all’Esposizione del 1911 per approdare al più sobrio neorinascimento della Banca d’Italia, sempre nella capitale. Progetta il Cinema Corso, un’architettura “alla tedesca”, del tutto estranea alla tradizione romana, nel centro storico di Roma, e contemporaneamente, in netto contrasto, dichiara che “l’architettura è località, ambiente nel più limitato e circoscritto senso!”.

Annuncia convinto l’avvio di un periodo di “architettura modesta” e qualche anno dopo rincorre l’enfasi monumentale con la ciclopica Mole Littoria a Roma. È contrario all’architettura razionalista, ma la sua villa alla Camilluccia in alcune soluzioni ammicca alla modernità.

Promette a Ojetti che nella Città universitaria di Roma ci saranno “archi e colonne” e qualche mese dopo polemizza con lo stesso Ojetti, affermando perentorio che nella Città universitaria non servono “archi e colonne”: ci saranno “edifici italianissimi anche se non avranno archi, né colonne”.

Poi le cose parzialmente cambiano verso la metà anni Trenta, quando si dà vita alla svolta classicista, che è più funzionale all’accelerazione totalitaria impressa da Mussolini alla nazione. È questa la fase in cui egli è sempre di più il regista degli “indirizzi unitari” dell’architettura italiana del tempo del fascismo. E qui di nuovo si opta per un’architettura in cui compaiono archi e colonne. L’E42 è l’episodio centrale di questa svolta.

Con la caduta del fascismo questo progetto che mira a dare “unità di stile” all’architettura della nazione diventa anacronistico e improponibile. Di conseguenza la figura di Piacentini, pur mantenendo ancora molto potere, non occupa più la posizione centrale.

Paolo Nicoloso insegna Storia dell’architettura all’Università degli studi di Trieste. Tra i suoi libri: Gli architetti di Mussolini(1999), Mussolini architetto (2008), Architetture per un’identità italiana (2010), Marcello Piacentini. Architettura e potere: una biografia(2018), Piacentini a Bergamo (2021).

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