
Al di là delle ovvie differenze di genere, i rapporti tra narrativa e saggistica coinvolgono aspetti di grande rilievo. Prima di tutto, l’origine degli scritti dell’uno e dell’altro gruppo spesso si allaccia: la prosa argomentativa non solo germina in più di un caso da quella di invenzione, con prefazioni, notizie, discussioni, ma la interseca, perché parte del romanzo stesso è dedicata ai tre grandi esercizi di prosa storiografica sulla carestia, la guerra e la peste; e che con l’indagine sulla Colonna infame culmina l’edizione definitiva dei Promessi sposi. Il Manzoni che ragiona eccede dunque, per estensione temporale e per produttività, il Manzoni che racconta; lo attraversa e lo avvolge.
A proposito della Colonna infame, la decisione di agganciare alla seconda edizione del romanzo una appendice storica non è semplice accostamento, ma crea un vero e proprio dittico. Un organismo a due scomparti dove la stretta correlazione tra la vicenda inventata degli sposi e quella reale dei processi contro gli untori è ribadita – oltre che dai molti richiami linguistici – da due segnali esterni di grande visibilità. Il primo: la parola “Fine” non compare in chiusura delle avventure di Renzo e Lucia, ma solo dopo l’ultima pagina dell’appendice. Il secondo: come i Promessi sposi, la Colonna infame è illustrata da un corredo di immagini che ne accompagnano e indirizzano la lettura.
Anche il fine stesso dello scrivere mostra coincidenze significative. Fin dal Fermo e Lucia, Manzoni aveva rifiutato qualunque contaminazione tra racconto e intrattenimento, dichiarando che «Se le lettere dovessero aver per fine di divertire quella classe d’uomini che non fa quasi altro che divertirsi, sarebbero la più frivola, la più servile, l’ultima delle professioni». Non rallegrare i lettori, ma formarli, insegnando loro compassione e indulgenza: questo il compito assegnato al romanzo. Scavando ancora più a fondo, scrivere risponde per Manzoni a due obiettivi fondamentali: capire e dimostrare. Due obiettivi ben riconoscibili nella saggistica ma presenti, se pur meno esibiti, anche nei Promessi sposi: che non solo includono grandi momenti di scrittura argomentativa, ma sono la dimostrazione in factis delle potenzialità di un genere (il romanzo) e di una lingua (il fiorentino contemporaneo) fino ad allora estranei alla tradizione italiana.
Un altro, fondamentale, elemento di contatto ha a che vedere, appunto, con la lingua: I promessi sposi e i saggi che li hanno seguiti propongono un modello di prosa nuovo, limpido e anti-retorico. Una prosa piana all’apparenza ma raggiunta in realtà a prezzo di instancabili rifacimenti. A questo proposito mi fa piacere citare una descrizione famosa del modo di lavorare di Manzoni, del grande linguista Graziadio Isaia Ascoli: «Un’idea, per quanto involuta e complicata, che gli sorgesse dai più reconditi strati del pensabile, egli la costringeva a svolgersi e rivolgersi nella mente sua, per un’elaborazione lunghissima; sin che si dovesse riversare, limpida e non punto appariscente, in modeste e rimesse parole, le quali sembravano un molto semplice portato del senso comune».
La prosa del romanzo e quella dei saggi archiviano il lusso polveroso dell’italiano letterario, e impiegano gli strumenti più raffinati della tradizione al servizio non della retorica, ma della logica. Non solo: propongono al lettore un’idea del mondo, e cercano di persuaderlo ad accoglierla. La persuasione – Manzoni lo sa bene – passa attraverso la lingua. L’arsenale, fantasioso e sofisticatissimo, dei mezzi grammaticali adibiti a questo scopo transita dal romanzo ai saggi successivi.
Quale tensione accompagna il lungo processo di redazione del romanzo manzoniano?
All’origine dei Promessi sposi sta una doppia sfida: scrivere un romanzo storico – il genere alla moda nell’Europa del tempo – raggiungendo un risultato dove convivano attenzione alla verità del passato e qualità letteraria; e scriverlo in una lingua accessibile a tutti gli italiani. Nel passaggio dalla Prima minuta al testo pubblicato, Manzoni ristruttura il racconto, in modo da raggiungere un nuovo equilibrio tra i fatti reali e le vicende dei protagonisti. Il risultato è una trama avvincente, ma anche rispettosa dei dati storici. Un romanzo dove, come scrisse un letterato del tempo, Giovita Scalvini, «al Manzoni la storia non sarà, come allo Scott, argomento di semplice diletto, ma di pensieri alti e sapienti».
Più lunga e complessa è la sfida linguistica. Già pochi mesi dopo avere avviato il lavoro l’autore si rende conto di un ostacolo inatteso: l’italiano che vorrebbe – una lingua moderna, condivisa tra letterati e lettori di ogni parte del paese – di fatto non esiste. Individuare la lingua adatta nel fiorentino del tempo; impararlo; metterlo in opera nelle riscritture del romanzo; giustificarne teoricamente la scelta è quanto occuperà Manzoni per il resto della vita. Dunque il processo di acquisizione linguistica che è così tipico dei Promessi sposi si misura nelle correzioni che portano dalla Prima alla Seconda minuta, quindi all’edizione a stampa del 1825-27 e infine alla seconda edizione, del 1840-42: un percorso fatto di tentativi, di ripensamenti e di decisioni che si vanno via via precisando. Ma si misura anche nella riflessione teorica che dai primi anni della scrittura narrativa accompagna l’autore fino alla vecchiaia. Un percorso parallelo e poi successivo alla conclusione del romanzo che dice una cosa importante: Manzoni ha costruito non solo una lingua, ma la sua autorizzazione teorico-filosofica – passaggio che riteneva ineludibile per il pieno raggiungimento del primo scopo. Il che torna a ribadire la coesione strettissima tra il romanziere e il pensatore.
Dunque la rivoluzione linguistica di Manzoni è tale perché intreccia la soluzione del fiorentino vivo realizzata nel romanzo con un percorso di presa di coscienza del peso, non solo letterario ma storico e sociale, del problema linguistico. E con la consapevolezza che proprio un genere popolare come il romanzo costituisce lo strumento ideale per individuare, saggiare e diffondere la lingua della nazione.
Quali elementi caratterizzano la prosa saggistica manzoniana?
Manzoni evita, nella scrittura saggistica come in quella del romanzo, molti dei lasciti della tradizione retorica: preferisce parole comuni, e chiarisce il significato di quelle più tecniche; non ricorre alle coppie sinonimiche; tende a collocare l’aggettivo non prima, ma dopo il nome; fa spesso uso di modi del parlato. E organizza i suoi testi seguendo la progressione del ragionamento, così che l’ordine sintattico-testuale rispecchi idealmente quello logico.
Accanto agli imperativi della modernità e della chiarezza, è essenziale la tensione argomentativa. La prosa saggistica nasce, di regola, dall’insoddisfazione: per una lacuna nelle conoscenze disponibili, per l’inadeguatezza dei ragionamenti altrui, per le conclusioni dei pensatori del passato. Manzoni avverte un problema nella questione che lo interessa. Allora, scrive: per capire, per dimostrare, per convincere il lettore delle conclusioni che ha raggiunto. Al fine di centrare questi obiettivi il saggista intuisce che la forza dimostrativa deve travalicare lo spazio della frase, e sfruttare la più ampia unità del testo. Si impegna dunque per moltiplicare e rifrangere, di frase in frase, la tesi e le sue prove, così che ogni parte sostenga autonomamente la posizione che difende, e al tempo stesso collabori con le unità superiori alla dimostrazione stessa. Lavora non solo per raggiungere un’architettura limpida e persuasiva dei singoli periodi, ma anche per raccordarli fra loro: crea legami, richiami, rispondenze. Il lettore così catturato nell’architettura testuale deve anche essere indirizzato: quella di Manzoni è scrittura giudicante e combattente, che punta a convincere. L’analisi delle risorse linguistiche schierate a questo fine è uno degli aspetti su cui si concentra il volume Manzoni prosatore.
Mariarosa Bricchi insegna Linguistica italiana all’Università di Pavia, sede di Cremona. Tra i suoi libri: Grammatica del buio. Strategie testuali di Manzoni saggista, Centro Nazionale Studi Manzoniani, 2017; e La lingua è un’orchestra. Piccola grammatica italiana per traduttori (e scriventi), il Saggiatore, 2018. Ha curato le edizioni di Curzio Malaparte, Il buonuomo Lenin, Adelphi, 2018 e di Carlo Emilio Gadda, Norme per la redazione di un testo radiofonico, Adelphi, 2018.