
Cosa sappiamo di Vulfila?
Su Vulfila o Ulfila abbiamo una serie di testimonianze antiche che ci permettono di delinearne con una certa precisione la figura. Sappiamo dallo storico tardoantico Filostorgio che nacque intorno al 310 da una famiglia, già cristiana, originaria del villaggio di Sadagolthina in Cappadocia e di lì deportata, tra il 257 e il 267, oltre il Danubio in seguito a una scorreria dei Goti in Asia Minore. Fin da ragazzo Vulfila dovette esercitare nella locale comunità cristiana il ministero di lettore che gli offrì l’opportunità di familiarizzarsi col testo biblico; forse il lettorato dovette già allora rendergli chiara l’esigenza di disporre di una versione gotica dei testi sacri, dei quali non si può escludere che avesse approntato anche qualche saggio di traduzione. Appena trentenne, saltando i gradi intermedi del cursus ecclesiastico, fu ordinato vescovo dall’ariano Eusebio di Nicomedia in occasione di un’ambasceria alla corte di Costantino. È probabile che proprio in quell’occasione Vulfila, che conosceva sia il greco sia il latino, abbia fatto da interprete, dando così prova di quelle doti che lo resero meritevole della dignità episcopale. Se prestiamo fede alla testimonianza di Filostorgio, Vulfila sarebbe stato il primo vescovo dei Goti stanziati oltre il Danubio; in ogni caso, è indubbio che, attraverso una massiccia opera di evangelizzazione, egli abbia dato un forte impulso alla conversione dei Goti al cristianesimo. Intorno al 348 l’allora capo dei Goti, forse Aorico, ancora pagano, scatenò una persecuzione contro la comunità cristiana ritenuta filoromana. La persecuzione, oltre a causare dei martiri, dovette colpire lo stesso Vulfila, se nella professione di fede fatta in punto di morte egli si qualifica col titolo di confessor. Questo evento drammatico spinse i Goti cristiani a varcare il Danubio e a stanziarsi nella Mesia Inferiore presso Nicopoli, l’attuale Nikyup, nell’odierna Bulgaria settentrionale, dove condussero una vita pacifica, dedita prevalentemente alla pastorizia e a quel po’ di agricoltura che quella terra permetteva. Dei restanti anni della vita di Vulfila conosciamo invero pochi particolari, se si esclude la notizia della sua partecipazione al concilio di Costantinopoli del 360. Le vicende successive dei Goti si intrecciano con quelle più ampie della storia di Roma: il dilagare dei Goti transdanubiani nella penisola balcanica sotto la spinta degli Unni nel 374, malgrado gli sforzi dell’imperatore Valente, e, quattro anni dopo, la sanguinosa sconfitta dei Romani nella battaglia di Adrianopoli dovettero rendere particolarmente difficili gli ultimi anni di Vulfila, la cui morte possiamo collocare con certezza nel 383.
Circa la posizione di Vulfila nell’articolato panorama dottrinale del IV secolo, non c’è dubbio che egli abbia giocato un ruolo di spicco nella controversia ariana e che sia stato il promotore della diffusione dell’arianesimo fra i Goti e le altre limitrofe popolazioni germaniche. Il problema sta invece in quale delle varie fazioni della controversia vada collocato. L’opinione dominante, ma non condivisa da tutti, è che abbia militato tra le file dei cosiddetti omei, ossia degli ariani moderati, che, riguardo alla questione trinitaria, ammettevano un rapporto di mera somiglianza tra il Padre e il Figlio; del che sarebbe prova la sua sottoscrizione di una formula di fede di tale tenore al già ricordato concilio di Costantinopoli del 360. Va peraltro sottolineato che la sua fede ariana non ha condizionato in alcun modo la traduzione della Bibbia; anzi, la sua onestà intellettuale nel volgere in gotico il Nuovo Testamento è tale che, nel caso di Gv 10,30 (io e il Padre siamo una cosa sola), l’impiego del duale potrebbe essere paradossalmente addotto da chi volesse a torto smentirne l’adesione all’arianesimo come prova di ortodossia.
Certo, l’impresa che ha reso celebre Vulfila è senz’altro la traduzione della Bibbia in gotico, per allestire la quale elaborò anche un alfabeto sulla base di quello greco, con qualche adattamento fonetico e con l’aggiunta di alcune lettere latine e di segni runici. Oggi gli studiosi tendono a ridimensionare questa tradizione. Infatti, pur ammettendo che Vulfila abbia tentato i primi saggi di traduzione già durante il suo ministero di lettore e che, da vescovo, abbia tradotto personalmente qualche libro biblico, è tuttavia difficile credere che egli, negli anni così burrascosi del suo episcopato, abbia trovato il tempo e l’agio di intraprendere e portare a termine da solo un’impresa così imponente. È anche significativo che il suo discepolo Aussenzio, nel tracciare un suggestivo profilo del maestro, tra i tanti meriti attribuitigli non menziona affatto l’attività di traduttore. La conclusione più ragionevole a cui possiamo giungere è dunque che Vulfila diede impulso e sovrintese a un lavoro di traduzione che anche alla più recente indagine critica appare sempre più come il frutto di un’opera collettiva. Tutto ciò non sminuisce affatto il merito di Vulfila nella realizzazione della versione gotica della Bibbia, di cui rimane pur sempre, se non l’esecutore materiale dell’intero lavoro, certamente il promotore e l’ideale ispiratore.
Quali caratteristiche presentano il testo e il lessico gotici?
La caratteristica più evidente della traduzione gotica della Bibbia è l’assoluta aderenza al modello che si manifesta non solo in una resa letterale (verbum de verbo), ma anche nel rispettare la stessa disposizione delle parole, in taluni casi forzando perfino l’andamento naturale della lingua di destinazione. E questa è una caratteristica comune a tutte le antiche versioni bibliche. Si può osservare l’adozione di un criterio di sostanziale uniformità, nel senso che a una stessa parola greca corrisponde una stessa parola gotica con una percentuale complessiva di quasi l’80%. Nessun vocabolo del testo greco è tralasciato dal traduttore, ad eccezione dell’articolo determinativo la cui resa risulta fluttuante; perfino certe particelle idiomatiche, che hanno una funzione psicolinguistica e che spesso nelle lingue moderne si esprimono con la sola inflessione della voce, trovano una corrispondenza uniforme in gotico. Le ragioni di tanta fedeltà al modello vanno ricercate anzitutto nella natura del testo che si traduce. Questo, infatti, non è semplicemente un’opera letteraria, bensì un testo ritenuto sacro, in cui anche i dettagli possono veicolare un significato teologico che non deve essere trascurato. Quot enim verba, tot mysteria, diceva Girolamo. È insomma un testo che va tradotto, non tradìto. Non bisogna neppure dimenticare che il gotico al tempo di Vulfila mancava di una tradizione letteraria che fungesse per così dire da supporto, così che entra in gioco anche la dinamica del prestigio di una lingua maggioritaria, per di più dotata di antica e veneranda tradizione, su una minoritaria. E in forza di questa dinamica il gotico non poteva non subire una sorta di sudditanza nei confronti del greco, tanto da assumere uno spiccato tratto grecizzante. Ciò ovviamente non significa che il traduttore non avesse la possibilità di esercitare una certa libertà espressiva; anzi il suo approccio al modello rivela un’elasticità e una creatività straordinarie che nascono, oltre che da capacità personali, anche dall’intento di inculturare il cristianesimo nella società gota.
Il lessico della versione gotica è piuttosto vario e riflette sostanzialmente i tre atteggiamenti del traduttore verso il modello. Il primo consiste nel mutuare direttamente dal greco quei termini che non trovano corrispondenza in gotico: si tratta di «prestiti» limitati per lo più a tecnicismi, come aipistaule, aiwxaristia, paintekuste (‘epistola, eucaristia, pentecoste’), e comunque presenti in una percentuale inferiore a quelli della Vulgata latina. È molto probabile che alcuni di tali prestiti fossero già presenti nel gotico prima di Vulfila e risalenti ai primi contatti delle popolazioni germaniche col Cristianesimo. Il secondo atteggiamento del traduttore è la reazione al modello attraverso la creazione di calchi morfosintattici o semantici. A parte la riproduzione meccanica di strutture sintattiche più complesse, si tratta di composti nominali ricalcati sui modelli greco-latini, ma con elementi propri del gotico. Così, ad esempio, composti greci come sklēro-kardia, ‘durezza di cuore’, o poly-logia, ‘logorrea’, sono resi in gotico rispettivamente con hardu-hairtei e filu-waurdei, che sono dei veri e propri calchi scaturiti da una consapevole riflessione etimologica. Si tratta di soluzioni geniali che anticipano l’abilità traduttoria di Lutero e, a ben guardare, richiamano l’analogo procedimento che ha portato il tedesco moderno a rendere, per esempio, ‘televisione’ con Fernsehen e ‘policromia’ con Vielfarbigkeit. Altre volte invece si adoperano termini preesistenti, ma si attribuisce loro il significato del termine greco attraverso un mutamento semasiologico, secondo un procedimento osservabile anche nel latino biblico. Casi di questo tipo sono ad esempio i termini runa, þiudos, daupjan, impiegati rispettivamente come resa del greco mystērion, ‘mistero’, ethnikoi, ‘pagani’ e baptizein, ‘battezzare’. Il terzo atteggiamento del traduttore consiste infine nel realizzare dei neologismi sulla base di elementi di suffissazione già presenti in gotico: è questo, per esempio, il caso di aggettivi come himinakunds, ‘celeste’, e gudalaus, ‘ateo’ (cfr. il ted. gottlos) in corrispondenza del greco ouranios e atheos. La libertà del traduttore si manifesta talvolta anche per altri versi, come ad esempio nell’uso dei sinonimi o nel giustapporre vocaboli allitteranti per omoarcto e omoteleuto secondo un gusto peculiare delle lingue germaniche. Tutto ciò non toglie però che la lingua della versione gotica suonasse alquanto esotica e desse ai neoconvertiti una impressione di inusualità, che è poi lo stesso effetto che faceva al giovane Agostino la lettura della versione biblica latina. Perciò è stata spesso sollevata la questione se il gotico biblico sia effettivamente gotico. In realtà, la questione è male impostata, perché sarebbe come domandarsi se il greco dei Settanta sia davvero greco o il latino delle Veteres Latinae sia davvero latino. Non bisogna infatti dimenticare che abbiamo a che fare con lingue di traduzione e soprattutto con «lingue speciali», destinate a una particolare categoria di fruitori; e, per quanto profondo sia l’influsso del modello sul lessico, sulla sintassi e perfino sull’ordine delle parole e per quanto esotico sia stato l’effetto di una tale traduzione sui lettori/uditori, nessuno potrebbe ragionevolmente negare che essa abbia comunque assolto la funzione di veicolare il messaggio della Scrittura. La diffusione del messaggio e del linguaggio che lo esprime sarà stata poi favorita, come del resto avviene ancora oggi, dall’attività omiletica ed esegetica dei catecheti, senza la quale neanche la più dinamica delle traduzioni bibliche potrebbe essere pienamente compresa e recepita.
Su quali testi Vulfila ha sviluppato la sua traduzione?
Il problema della Vorlage, ossia del modello testuale su cui è stata operata la traduzione vulfiliana, costituisce uno dei problemi più spinosi e perciò anche più intriganti della filologia gotica e neotestamentaria e, per quanto negli ultimi tempi si siano fatti grossi passi in avanti, molti aspetti restano ancora da chiarire. Il dato che emerge con più evidenza è che alla versione gotica è sotteso un modello greco precursore del cosiddetto ‘testo bizantino’, che noi conosciamo nella sua forma compiuta in manoscritti datati dall’VIII-IX secolo in poi. Se si considera che la Bibbia gotica data al IV secolo, comprendiamo quale importante testimonianza essa fornisca, seppur indirettamente, per la conoscenza del testo greco del Nuovo Testamento. Ci sono peraltro forti indizi del fatto che Vulfila (o chi per lui o con lui), accanto al modello greco, abbia utilizzato per la sua traduzione anche uno o più manoscritti latini, come sembrano confermare le numerose analogie tra il gotico e le Veteres Latinae. Queste analogie sono state spiegate in diversi modi. All’inizio del XX secolo Adolf Jülicher pensava che intorno al IV secolo nella regione della Mesia, che fungeva da cerniera tra Occidente e Oriente, circolasse un modello greco “latineggiante”, di cui Vulfila potrebbe essersi servito. Altri invece ipotizzano che la contaminazione con la tradizione latina sia avvenuta in una fase successiva, quando la bibbia gotica arrivò in Occidente nel V secolo al seguito dei Goti, magari favorita da manoscritti bilingui gotico-latini, come il Carolinus e il Gissensis. Altri ancora ritengono che le caratteristiche occidentali della versione vulfiliana risalgano a un unico modello greco, ora perduto, che doveva contenere le lezioni ora testimoniate soltanto dalle Veteres Latinae e dal gotico. Sono tutte ipotesi che, valide forse ciascuna in qualche caso particolare, non reggono a una loro applicazione generalizzata. La soluzione più ragionevole rimane, a mio parere, quella di Hans Lietzmann, il quale pensava che Vulfila, mentre traduceva, tenesse sott’occhio anche un manoscritto latino a cui faceva ricorso nel caso di passi “difficili”. Del resto, la prassi di collazionare più testimoni era abbastanza frequente nell’antichità e nel Medioevo, tanto più che le fonti accennano alla triglossia del vescovo goto che conosceva il gotico, il greco e il latino.
Di quale utilità è la traduzione gotica per la ricostruzione del testo neotestamentario?
La traduzione di Vulfila è annoverata a buon diritto tra le più antiche e più significative versioni bibliche del Nuovo Testamento; basti pensare che precede cronologicamente la Vulgata di Girolamo e la stessa versione siriaca. Dal punto di vista filologico, essendo un testimone indiretto di una forma primitiva di testo bizantino, conserva lezioni che postulano varianti di grande interesse per la ricostruzione del testo del Nuovo Testamento. Spesso queste lezioni, non sempre ammissibili ma pur sempre rilevanti per la storia della tradizione, trovano puntuali riscontri nelle Veteres Latinae, ossia nelle versioni latine pregeronimiane, o nella tradizione patristica. Se mi è consentito fare un solo esempio, è interessante a questo riguardo il caso di Lc 1,29. Siamo nel racconto dell’Annunciazione, una scena costruita con gli stilemi tipici delle narrazioni epifaniche veterotestamentarie. Mentre nel textus receptus leggiamo che al saluto dell’angelo Maria «rimase turbata a quelle parole», la versione gotica ci dice che a turbare la Vergine non furono le parole dell’angelo, bensì la sua improvvisa apparizione: «ed essa vedendolo sussultò al suo entrare». Si tratta di una variante che trova un preciso riscontro in alcuni codici della Vetus Latina e in Ambrogio. Una simile lezione, al di là della questione della sua genuinità, si rivela comunque interessante perché rappresenta un ramo secondario della tradizione del testo lucano e, per giunta, apre scenari insospettati sulle stesse dinamiche redazionali del terzo vangelo.
Purtroppo, l’edizione critica della Bibbia gotica, curata da Wilhelm Streitberg nei primi anni del XX secolo, per quanto benemerita, risulta ormai inadeguata alle moderne esigenze della critica testuale neotestamentaria. Per tal motivo il compianto goticista Piergiuseppe Scardigli volle creare un’équipe di studiosi, di cui mi onoro di far parte, per l’allestimento di una nuova edizione critica che metta in giusta luce la posizione del gotico all’interno del complesso e articolato panorama della tradizione del Nuovo Testamento. L’équipe, attualmente diretta dalla collega Carla Falluomini dell’Università di Perugia, ha finora prodotto una serie di studi che mettono sempre più in rilievo l’importanza del gotico per la filologia neotestamentaria. Uno dei primi risultati del nostro lavoro è stato appunto risvegliare l’interesse per questa antica versione, tanto che l’Institut für neutestamentliche Textforschung di Münster ha manifestato l’intenzione di dare spazio al gotico nell’apparato della nuova Editio critica maior del Nuovo Testamento greco, in corso di allestimento.
Ma, al di là dell’aspetto puramente testuale, la versione gotica si rivela interessante anche per l’apporto che può fornire all’esegesi. Alcune soluzioni interpretative appaiono infatti non solo geniali, ma anche moderne per la grande sensibilità del traduttore per i fenomeni linguistici. Vogliamo anche qui portare un esempio? Tutti conoscono la famosa parabola del fariseo e del pubblicano raccontata in Lc 18 ad esemplificazione di due atteggiamenti estremi verso Dio, quello cioè di ritenersi a posto per aver osservato ogni precetto e per converso quello di ritenersi del tutto inadeguati. Come è noto, la parabola termina, nella traduzione CEI 2008, con le parole: «questi [il pubblicano], a differenza dell’altro [il fariseo], tornò a casa sua giustificato», lasciando così intendere che tra i due ci sia un rapporto di esclusione. In realtà, questa traduzione non tiene conto del fatto che il testo greco presenta un sintagma caratteristico del linguaggio biblico – è di fatto un semitismo -, impiegato per esprimere un comparativo di maggioranza. Ebbene, il traduttore goto già nel IV secolo aveva colto nel segno: «il pubblicano tornò a casa sua giudicato più giusto dell’altro», e questa è appunto l’interpretazione del passo ormai condivisa dalla maggior parte dei biblisti. Questo è solo un piccolo esempio, ma sono persuaso che uno studio più approfondito della versione gotica, anche dal punto di vista esegetico, ci riserverà ancora molte sorprese.
Antonio Piras è ordinario di Letteratura cristiana antica presso l’Università di Cagliari e invitato di Greco biblico presso la Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna. I suoi interessi sono rivolti principalmente alla filologia patristica, con particolare attenzione alla letteratura agiografica e alla filologia biblica. In tale ambito si occupa della versione gotica come membro dell’équipe deputata all’allestimento di una nuova edizione critica. Nella sua produzione si segnalano alcune edizioni critiche di testi greci e latini, oltre a numerosi saggi e articoli apparsi su riviste specializzate.