“Manuale di agiografia. Fonti, storia e immagini della santità” di Marco Rochini e Giuliano Chiapparini

Manuale di agiografia. Fonti, storia e immagini della santità, Marco Rochini, Giuliano ChiappariniProf. Marco Rochini, Lei è autore con Giuliano Chiapparini del Manuale di agiografia. Fonti, storia e immagini della santità, edito da Morcelliana: chi è, innanzitutto, il “santo”?
Si può dire che a partire dal IV-V secolo d.C. il termine “santo” è stato utilizzato per descrivere persone le quali, distinguendosi dall’intera comunità per particolari prerogative (che possono mutare nel tempo) risultano degne di culto pubblico e capaci di fornire qualche forma di aiuto a coloro che li invocano.

Per lo studio agiografico un santo è tale solo se esistono gli elementi per i quali ci si è accorti di questo status particolare.

Molto interessante risulta a tal proposito quanto affermato dal sociologo Pierre Delooz, ossia che “essere santo, è essere santo per gli altri”. In altri termini, essere santi significa essere reputati tali dagli altri e giocare un ruolo di santi a favore degli altri. Tale punto di vista mette in piena luce la dimensione comunitaria sottesa all’esperienza della santità. E ciò spiega la sua rilevanza nel corso dei secoli, rilevanza che, come è ben noto, non è scemata nemmeno in una società come quella in cui viviamo, che può ormai ritenersi completamente secolarizzata.

Come si è articolata la storia di questo termine?
La questione è molto complessa. Per comprendere l’evoluzione del termine occorre svolgere un’indagine di archeologia linguistica riguardante le lingue ebraica, greca e latina.

In breve, si può dire che questo percorso passa attraverso il latino (sanctus), il greco (hàghios), l’ebraico (qadòsh), ma coinvolge anche gli strati linguistici indoeuropei più antichi, alla base di buona parte del vocabolario di lingue moderne come inglese, tedesco e russo.

Per limitare il discorso alla lingua latina, si può dire che il lemma “santo” della lingua italiana deriva dal corrispondente sanctus. Prima dell’era cristiana questo vocabolo aveva assunto accezioni alquanto specifiche. Si trattava, infatti, della forma participiale (passata e passiva) del verbo sancire, in concorrenza con l’altra forma sancìtus, l’unica conservata ancora oggi (“sancito”) dal verbo italiano “sancire”. In latino il verbo sancire ha il valore di “definire una volta per tutte” e, quindi, “rendere definitivo, completo, intoccabile” qualcosa. Da qui l’idea di delimitare un oggetto, in questo caso il santo, separandolo dal contesto in cui si trova al fine di preservarne l’eccezionalità.

Con il tempo nell’uso latino il participio sanctus si specializzò e si sganciò dal verbo sancire, assumendo come aggettivo autonomo il significato di “degno di venerazione e rispetto, in quanto distinto dagli altri, eccezionale, straordinario”. Il lemma sanctus entrò anche nell’uso ufficiale per esprimere lode e onore verso dignitari viventi, come i magistrati romani, in alternativa con altri titoli equivalenti al nostro “egregio” (da ex-grege, letteralmente “fuori dal gregge”, cioè che si distingue dalla massa) o “straordinario” (da extra-ordinarius, cioè “fuori dall’ordinario”).

I cristiani mantennero questo termine, ma lo risemantizzarono alla luce delle loro esigenze teologico-cultuali. In modo particolare il valore onorifico del termine sanctus venne attribuito a Dio, il santo per eccellenza.

A partire dal V secolo, cessata l’esperienza dei martiri per via della fine delle persecuzioni anti-cristiane, il termine sanctus cominciò a essere utilizzato come sostantivo da solo o in forma appositiva accanto a quello del nome proprio di una persona ritenuta per qualche ragione eccezionale, di norma per l’esercizio straordinario delle virtù.

A cosa servono i santi?
Proprio perché legata inestricabilmente alla dimensione comunitaria, l’esperienza santorale implica che i santi siano utili a qualcosa. La tradizione cristiana ha attribuito ai santi molteplici funzioni, tutte legate a differenti forme di aiuto che possono venire in soccorso dell’anima e/o del corpo, dell’individuo e/o dell’intera società. Sin dalle origini, con una dinamica che ancora oggi è ben nota, i santi sono invocati per proteggere da mali di differente natura: fisica, materiale e spirituale.

A questo proposito occorre tuttavia una precisazione teologica. Il ruolo esercitato dai santi non risponde a un loro intervento diretto, ma può compiersi tramite la loro intercessione presso Dio, affinché intervenga a favore dei fedeli. In altri termini, non è mai il santo (o la Madonna) a operare un evento ritenuto straordinario, ma è sempre Dio a farlo tramite il santo.

L’azione operata dal santo in favore di qualcuno (singolo o comunità) spiega lo stretto rapporto che nei secoli si è instaurato tra queste figure ritenute eccezionali e singoli fedeli o intere comunità. Pensiamo, solo per fare un esempio, alla specializzazione che i santi hanno conosciuto nel tempo. Alcuni sono diventati protettori/patroni di particolari categorie lavorative. Ad esempio, san Giuseppe è considerato il protettore degli artigiani, san Domenico di Guzmán degli astronomi, san Pietro dei ciabattini, san Cristoforo dei ferrovieri, san Luigi Gonzaga, san Girolamo e san Tommaso d’Aquino degli studenti. Tale processo di specializzazione si è sviluppato sulla base delle specifiche prerogative di ciascun santo. Basti pensare che san Giuseppe da Copertino († 1663), il quale non mancò mai di esaltare la propria ignoranza quale via più sicura per comprendere l’essenza del messaggio evangelico, è diventato il protettore degli esaminandi poco preparati!

Allo stesso modo, il legame tra il santo e quanti lo venerano ha assunto una dimensione comunitaria. Pensiamo al fenomeno dei santi patroni di città, diocesi o interi Stati. Addirittura è capitato che una città che aveva un proprio patrono, abbia riscritto la propria storia, e, dunque, la propria identità, a seguito dell’arrivo entro le proprie mura delle reliquie di un altro santo, magari più prestigioso e noto, diventato da quel momento patrono cittadino.

Per comprendere la rilevanza del fenomeno basti pensare che ancora oggi il giorno dedicato alla festa liturgica del santo è festa anche per la città di cui è patrono.

I santi sono tutti uguali?
I santi non sono tutti uguali. Alcuni sono molto noti e venerati in tutto il mondo, altri, al contrario, conoscono una dimensione liturgico-devozionale locale. Si pensi, per fare due esempi di santi conosciuti a livello mondiale, a san Francesco d’Assisi e a sant’Antonio da Padova. Per quest’ultimo è consuetudine chiamare la basilica di Padova a lui dedicata la basilica “del Santo”, senza la necessità, vista la sua notorietà, di specificare che si tratta proprio di sant’Antonio.

La differenziazione esistente tra i santi presenta implicazioni liturgico-devozionali. A tal proposito basti ricordare che nonostante il numero dei santi ammonti a varie migliaia, sono meno di duecento quelli per i quali è disposto un culto universale. Tutti gli altri sono lasciati alla devozione locale. Inoltre, nel corso del xx secolo si sono verificati degli avvicendamenti nel Calendario liturgico. Alcuni santi sono saliti di grado e altri sono scesi.

Nel Martirologio Romano i santi sono distribuiti nei diversi giorni dell’anno. Per ogni giorno compaiono svariati nomi. Non tutti i santi annoverati, tuttavia, hanno la medesima importanza. Alcuni di loro hanno valenza universale, mentre altri sono oggetto di devozione locale. I santi sono inoltre distinti a seconda del “grado liturgico” con il quale si effettua la loro commemorazione da parte di tutta la Chiesa. La graduazione comporta tre livelli o “classi”, in modo che in caso di concomitanza sia chiara la precedenza liturgica.

A quali fonti attinge la scienza agiografica?
Per lungo tempo gli studi che si sono occupati di studiare la storia del culto della santità hanno preso in considerazione quasi esclusivamente le fonti scritte. Il termine stesso “Agiografia” è stato coniato per indicare propriamente gli “scritti” (graphé, in greco) “relativi ai santi” (hàghios).

Con il termine “fonti scritte” si intende una vasta gamma di testi letterari, come le Passioni dei martiri, le Vite dei santi, i Legendari, i Racconti di miracoli, ecc.

Più recentemente la storiografia ha cominciato a prendere in considerazione anche fonti diverse rispetto a quelle scritte. Il nostro volume ha l’ambizione di collocarsi entro questo filone storiografico, aperto all’indagine di fonti di differente natura. Ciò perché si è compreso che anche tali fonti costituiscono materiale fondamentale per indagare la storia del culto dei santi. Si pensi ai reperti urbanistici e architettonici. La costruzione di una chiesa dedicata a un santo, di un oratorio o di un altare all’interno di una chiesa offrono informazioni non meno rilevanti di quelle forniteci dalla Vita di quel santo.

Allo stesso modo le reliquie costituiscono una fonte non scritta di straordinario valore per comprendere l’evoluzione del culto.

Non meno rilevanti sono le fonti musicali (legate in modo particolare alla liturgia), le fonti fotografiche e anche quelle cinematografiche, per venire a tempi più recenti. Si pensi all’attenzione riservata dalla cinematografia novecentesca a diverse figure di santi, primo tra tutti san Francesco. Ancora oggi il cinema e la televisione sono molto sensibili a questo tema.

Un ruolo di primo piano è poi occupato dalle fonti iconografiche. Si pensi alla rilevanza che nell’arte ha avuto la storia religiosa e, in modo particolare, la storia della santità. Il libro, infatti, è corredato da molte immagini di statue, dipinti e oggetti di varia natura che possono aiutare a comprendere l’evoluzione del culto dei santi nel corso del tempo.

Il culto dei santi è una prerogativa cristiana?
Il culto dei santi costituisce uno degli aspetti più antichi del cristianesimo. Ancor prima dello sviluppo di una sistematica riflessione teologico-dottrinale sulle questioni dirimenti della religione cristiana, il culto a persone ritenute comunemente portatrici di uno status eccezionale ha segnato l’identità del cristianesimo.

Si può dunque affermare che il culto della santità sia un’espressione teologico-devozionale propria del mondo cristiano. Non a caso, nel corso dei secoli, nell’alveo della cultura cristiana si è sviluppata una normativa riguardante i santi e il loro riconoscimento, che nel tempo si è fatta via via sempre più sistematica e approfondita.

Tuttavia, il culto riservato a persone considerate straordinarie è comune a diverse religioni. Si pensi, ad esempio, che nell’antica cultura babilonese certi personaggi mitici, semi-leggendari (come ad esempio certi re) o reali erano descritti all’interno di una serie di racconti mitologici in connessione con gli dei. È il caso di Etana, pastore che salì in cielo, Gilgamesh, il quale possedeva poteri straordinari, Enkidu, uomo selvaggio creato da una dea, ecc. Il discrimine fra umano e divino era dato soprattutto dall’immortalità. A questi eroi veniva di norma attribuita una vita molto lunga, quasi a marcarne il grado di divinità. Alcuni studiosi hanno intravisto in queste figure dei predecessori dei santi cristiani.

Ancora, in ambito buddhista vi è la figura dell’arhat, spesso paragonata a quella del santo. Di solito si tratta di un “buddha minore” (anubuddha) o “figlio di Buddha” in quanto discepolo immediato del Maestro, come Ananda, Sariputta e Moggalana.

In ambito giudaico esistono figure ritenute eccezionali. Tuttavia, pur ammettendo il ricorso a “santi” e “martiri” come intercessori, la tradizione ebraica esclude ogni forma di culto specifico che distragga da quello per Yahweh.

In ambito islamico si registra un’ampia diffusione popolare fin dalle origini del culto verso i wali o awaliya Allah (“amici di Allah”). Essi sono di norma paragonati ai santi cristiani e, dato che viene attribuita loro una relazione particolare con Dio, si riconosce loro una funzione intermediatrice.

Come avvengono il riconoscimento e la verifica della santità?
Nel corso dei secoli le procedure giuridico-canoniche per il riconoscimento della santità sono evolute notevolmente.

Se in una fase originaria il riconoscimento della santità avveniva a livello locale (erano le singole Chiese a sancirlo attraverso il parere del vescovo), a partire dall’XI secolo le procedure cominciarono a conoscere un processo di accentramento romano. Per sintetizzare, si può dire che tale evoluzione prese avvio sulla scia della cosiddetta Riforma gregoriana, avviata, o meglio sarebbe dire approfondita, da papa Gregorio VII. Egli, nel quadro di una forte tensione con l’imperatore, cercò di accentrare i poteri nella Chiesa sulla Santa sede e di propugnare la superiorità della potestà papale su quella secolare. Emblematica risulta a tal riguardo la promulgazione del Dictatus papae (1075), documento con cui il pontefice espresse tali posizioni.

L’accentramento romano ebbe ricadute anche sulle pratiche volte al riconoscimento della santità, che da locali divennero sempre più accentrate sulla Santa sede. Nel corso del tardo XII secolo il pontefice divenne in sostanza l’ultima istanza nel giudizio sulla santità.

Un momento di svolta si ebbe durante il pontificato di Urbano VIII Barberini (1623-1644). In questa fase divenne sempre più rilevante come prerogativa per l’elevazione alla gloria degli altari l’esercizio “eroico” di tutte le virtù cristiane. Evoluzione che si avviò parallelamente al decremento della rilevanza del miracolo, che nel corso dell’età medievale era stato il principale signum sanctitatis.

Più recentemente anche Giovanni Paolo II ha messo mano alle procedure per il riconoscimento della santità. Nel 1983 il pontefice promulgò il nuovo Codice di diritto canonico, i cui canoni 1186-1190 regolano il culto dei santi, e la costituzione apostolica Divinus Perfectionis Magister, che in buona sostanza sostituisce la normativa precedente. Tale normativa stabilì che l’indagine iniziale sui candidati alla santità fosse riaffidata ai vescovi e restituì valore alle deposizioni di testimoni diretti.

Come si è evoluto il culto dei santi nel corso della storia?
Il processo è molto complesso perché si è sviluppato lungo un arco bimillenario. Nel corso del tempo il culto della santità ha conosciuto una rilevante evoluzione. Infatti, in circostanze storiche diverse si sono espressi modelli di santità diversi.

Se nei primi tre secoli dell’era cristiana, quelli coincidenti con le persecuzioni, il modello è stato quello del martire, con i decreti che riconobbero la tolleranza per la religione cristiana prese avvio la fase del culto dei “confessori”, ossia di coloro che, pur non versando il sangue per attestare la propria fede, lo facevano attraverso azioni straordinarie.

Nel periodo compreso tra l’età tardo-antica e quella alto-medievale il modello di santità preponderante fu quello ascetico-eremitico, ossia di coloro che si ritiravano a vivere in zone inospitali per separarsi dal mondo. Si pensi a tal riguardo al caso di Antonio, la cui scelta di vivere in solitaria nel deserto è stata descritta da Atanasio. Nell’età alto-medievale accanto a questo modello è emerso quello del monaco che vive in comunità con altri soggetti che hanno compiuto la sua stessa scelta di vita.

L’esperienza eremitica e l’esperienza cenobitica sono accomunate dalla ricerca della fuga dal mondo e dai suoi agi. Il mondo, infatti, è concepito come il luogo del peccato, che occorre evitare per intraprendere quella via che più di altre è capace di mettere in comunicazione con Dio. Questa vocazione contraria al secolo, spiega anche le prove a cui molto spesso i monaci, in modo particolare gli eremiti, sottoponevano il loro corpo, concepito ancora una volta come una gabbia che impediva all’uomo di sprigionare le proprie virtù. Solo per fare un esempio, basti pensare agli stiliti, ossia a coloro che decidevano di salire su una colonna e rimanervi tutta la vita per pregare separati, anche fisicamente, dal resto del mondo.

Con lo sviluppo della civiltà urbana nel XII-XIII secolo si sviluppò una nuova sensibilità religiosa, favorita anche dalla nascita della borghesia mercantile. Data ad esempio alla fine del XII secolo la canonizzazione del mercante Omobono di Cremona, il quale, per aver operato a favore dei più bisognosi, venne elevato agli onori degli altari e proclamato in seguito patrono cittadino.

Ovviamente in quest’epoca giocò un ruolo di primo piano anche la nascita degli ordini mendicanti, come ad esempio i francescani e i domenicani, i quali, vivendo tra la gente, promossero nuove forme di devozione. Data proprio in quest’epoca lo sviluppo di una diffusa pietà mariana.

Un momento di passaggio decisivo nella storia del culto della santità si ebbe nel corso della prima età moderna, sulla scorta della Riforma protestante. Come è noto i riformatori tedeschi e svizzeri, come Lutero e Calvino, mossero molte critiche nei confronti del culto dei santi, in quanto tale pratica era considerata come al limite della superstizione perché avrebbe allontanato i fedeli dalla vera fede, quella in Dio. Con il Concilio di Trento la Chiesa rispose a queste critiche ribadendo la legittimità del culto dei santi. I padri tridentini cercarono comunque di regolamentare un campo in cui effettivamente si erano sviluppati molti abusi. Non a caso vennero promulgati dei decreti per regolamentare l’utilizzo delle reliquie e delle immagini sacre.

Nel periodo della cosiddetta Controriforma il processo di accentramento da parte della Santa sede dei processi di canonizzazione divenne sempre più forte. In tal modo la Chiesa romana poté, attraverso la proclamazione dei santi, promuovere uno specifico messaggio. Ad esempio, nel corso del Seicento vennero canonizzate figure appartenenti al mondo religioso che si erano principalmente impegnate nel rilancio del cattolicesimo. È il caso di Carlo Borromeo, il vescovo riformatore per antonomasia, elevato agli onori degli altari nel 1610, e di Ignazio di Loyola, Francesco Saverio, Filippo Neri e Teresa d’Avila, canonizzati nel 1622. Attraverso queste canonizzazioni la Santa sede volle esprimere di sé l’immagine di una istituzione trionfante, capace di rispondere alla Riforma protestante. Non a caso in quest’epoca non vennero canonizzati martiri, che pure non mancarono.

Nel corso del XIX secolo, di fronte agli esiti della Rivoluzione francese e alla diffusione dei principi democratici, la Chiesa espresse una netta chiusura nei confronti della modernità. È la fase dello sviluppo dell’ideologia intransigente, che caratterizzò l’orientamento teologico e politico della Chiesa almeno sino al Concilio Vaticano II. Tale posizione ebbe ricadute rilevanti anche sul culto della santità e sulle pratiche devozionali. A differenza di quanto accadde nell’età della controriforma, in cui, come si diceva, non vi furono sostanzialmente martiri canonizzati, l’Ottocento è il secolo della riscoperta della santità martiriale. La Chiesa si auto-comprendeva come corpo assediato e perseguitato dalla modernità. Dunque, in tale contesto prese nuovo vigore la figura del martire, come prototipo, emblema della situazione vissuta dal cattolicesimo. L’Ottocento è anche stato il secolo della santità sociale. In un’epoca in cui l’Europa conobbe una prima industrializzazione, la nascita della nuova classe operaia spinse la Chiesa a valorizzare quelle figure distintesi nell’aiuto dei più disagiati e bisognosi. Emblematica risulta a tal riguardo la figura di san Giovanni Bosco.

Nel XX secolo, in modo particolare dopo il Concilio Vaticano II, il numero delle canonizzazioni è aumentato esponenzialmente, implicando anche una maggiore complessità dei modelli di santità promossi dalla Chiesa. Questa evoluzione è stata evidente in modo particolare durante il lungo pontificato di Giovanni Paolo II. Ad esempio, in questo periodo è aumentato il numero di laici e di donne canonizzate. Durante il pontificato del papa polacco si è inoltre registrata una sorta di allargamento della categoria martiriale. Si è cominciato a parlare di “martiri del nazismo”, per descrivere quanti trovarono la morte per mano dei regimi totalitari, e di “martiri della mafia”.

In tempi ancora più recenti il fenomeno della santità è diventato ancora più complesso. Questo anche sulla scorta dei nuovi mezzi di comunicazione, in modo particolare dei social network, che hanno radicalmente modificato (e ancora lo stanno facendo) il rapporto tra i fedeli, le persone venerate e le pratiche devozionali.

Insomma, questa rapida carrellata, approfondita nell’ultima sezione del volume, permette di comprendere come la santità non costituisca un fenomeno puramente teologico e slegato dalla realtà contingente. Esso, al contrario, conosce modificazioni sulla base dell’evoluzione del contesto storico. Al mutare della situazione sociale, economica e politica, oltre che religiosa, mutano i modelli di santità. Ecco perché per indagare la santità in quanto fenomeno sociale, oltre che propriamente religioso, è imprescindibile il quadro storico.

Cosa significa la santità nella società contemporanea?
Come si diceva in apertura, il volume, superando una tradizione storiografica a lungo imperante, ha riservato molta attenzione alla santità contemporanea.

Questo per una ragione molto pratica, motivata da una rapida analisi della attuale. Se si osserva la vita religiosa non solo italiana (questa dinamica accomuna, infatti, tutta l’Europa) è facile notare come a una pratica religiosa domenicale sempre meno assidua, facciano da contraltare una serie di pratiche devozionali molto vive e diffuse. È il caso dei pellegrinaggi e del culto dei santi. Basti pensare al numero di pellegrini (oggi si potrebbe forse utilizzare il termine “turisti”) che ogni anno raggiungono santuari mariani come Lourdes, Fatima e Guadalupe, o luoghi di culto dedicati a specifici santi. Il caso di San Giovanni Rotondo e del santuario dedicato a Padre Pio costituisce un esempio evidente. Altrettanto rilevante risulta Santiago de Compostela. Che poi, a differenza di quanto avveniva nelle epoche passate, non è detto che tutti i pellegrini si mettano in viaggio per motivi strettamente religiosi, questo poco importa. Lo storico, l’antropologo, il sociologo non sono tenuti a sondare l’intimità degli individui, bensì a comprendere perché un fenomeno sia così impattante su una società che si pensa completamente secolarizzata.

Da qui la necessità di indagare il fenomeno della santità anche nell’età contemporanea. Per riprendere quanto sostenuto da un grande storico come Marc Bloch (poi ripreso nella sua opera Apologia della storia), allo storico non deve tanto interessare la veridicità storica della crocifissione di Cristo, bensì per quale ragione un fenomeno accaduto 2.000 anni fa continui ad avere ancora oggi una così rilevante influenza.

Marco Rochini è ricercatore presso l’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea (CNR) e docente a contratto di Agiografia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Fa parte del Comitato di direzione della rivista “Annali di Scienze Religiose”. È autore di numerose pubblicazioni. Per Morcelliana ha pubblicato Giovanni Battista Guadagnini. Teologia, etica e politica nel giansenismo (2017).

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