
Direi che l’eucarestia, più ancora che essere inaccettabile, per i pagani risultava difficile da comprendere. Nonostante l’idea di mangiare carni offerte agli idoli e alle divinità non fosse estranea agli uomini dell’antichità o, per fare un altro esempio, i pasti rituali fossero consueti, l’eucarestia risultava qualcosa di nuovo e, per certi aspetti, molto complesso da capire.
I cristiani erano una religione minoritaria nei secoli che seguirono la vita di Gesù, e non stupisce che la cultura pagana si difendesse da una nuova religione tacciandola di pratiche abominevoli.
Come si articolò la polemica pagana verso tale pratica?
Molto spesso capiamo quali furono le accuse rivolte dai pagani ai cristiani, dal modo in cui i cristiani stessi tentavano di difendersi e, per così dire, scagionarsi. Molti scrittori cristiani dei primi secoli reagirono ad accuse terribili come l’infanticidio e il cannibalismo, scagliate contro di loro. I cristiani erano presentati come esseri mostruosi, sovvertitori dell’ordine sociale, che si nutrivano di carne umana. È curioso notare, peraltro, come simili argomenti torneranno ciclicamente nel cammino storico dell’eucarestia e come spesso l’idea di cannibalismo – l’accusa di mangiare la carne di Dio fatto uomo – sarà usata per ridicolizzare le pratiche sacramentali fondate sull’idea che il corpo di Gesù fosse davvero nell’ostia e nel calice.
In che modo il corpo di Dio entrò nella vita dei credenti?
Il cammino dell’eucarestia nella vita di tutti i giorni conobbe alti e bassi. L’avvio fu non semplice: le prime comunità capirono subito che i gesti compiuti da Gesù nell’ultima cena avevano un carattere fondativo e che era importante ripeterli. Tuttavia, nutrirsi del suo corpo fu difficile, per alcuni persino spaventoso: soprattutto i laici iniziarono ad avere timore di non essere degni di cibarsi di Dio. Nacquero forme di “distanziamento”: per ricevere l’eucarestia si approntarono veli, vasi sacri, altre forme di distanza rituale. I vescovi e le guide religiose incitarono in molte occasioni i fedeli a comunicarsi spesso, a partecipare alla messa almeno una volta alla settimana. Ma ancora per tutto il medioevo la pratica eucaristica dei fedeli, e spesso persino del clero, fu molto meno assidua di quanto si creda. Non è un caso se, a questo riguardo, il quarto concilio Lateranense (1215) dovette arrivare a stabilire l’obbligo, per tutti i credenti, di ricevere la comunione e confessarsi almeno una volta all’anno, preferibilmente a Pasqua. Il che, detto altrimenti, significava che dodici secoli dopo la morte di Cristo moltissimi cristiani si cibavano raramente del suo corpo.
Quali contestazioni mossero alla prassi eucaristica teologi e pensatori medievali?
Nel Medioevo iniziarono varie forme di discussione riguardanti l’effettiva presenza di Cristo nell’ostia e le caratteristiche della trasformazione del pane e del vino nella carne e nel sangue di Gesù. Ed è in questo stesso periodo che viene codificata la dottrina della transustanziazione. Con questa parola, si indicava la trasformazione della sostanza del pane e del vino nella carne e sangue di Cristo. Questa è forse l’eredità più rilevante che il Medioevo ha lasciato alla storia dell’eucarestia. Ma fu anche un punto di non-ritorno che, nel tempo, attirò critiche di ogni tipo, a partire dal fatto che quella definizione dottrinale avesse un carattere troppo “filosofico” e artificioso.
Quale interpretazione diede del sacramento la Riforma protestante?
Riallacciandomi a quanto detto in precedenza, la Riforma protestante contestò fortemente proprio la transustanziazione. Se per Lutero la carne e il sangue di Gesù erano esistenti e presenti insieme al pane e al vino (dunque non c’era una trasformazione ma una con-sustanziazione: cioè una con-presenza), per molte chiese riformate l’eucarestia assunse un mero valore simbolico. Nel pane e nel vino non c’era più la presenza reale di Gesù, ma si era di fronte a un semplice ricordo, una commemorazione, un richiamo simbolico al corpo e sangue di Cristo. Le conseguenze erano profonde, perché cambiare la concezione dell’eucarestia significava di fatto cambiare la concezione di rapporto tra Dio e fedeli e, per molti aspetti, la stessa idea di Chiesa e di comunità credente. Come si doveva arrivare a Cristo se non lo si poteva più mangiare e nutrirsi della sua sostanza?
In che modo il legame tra il pane dell’eucarestia e la sostanza del corpo di Cristo divenne un connotato distintivo del mondo cattolico?
Di fronte alla critica, più o meno accesa, del mondo protestante, la Chiesa di Roma e il cattolicesimo reagirono rilanciando la centralità dell’eucarestia. Il sacramento che rendeva presente la persona di Cristo, anche nella sua materialità e fisicità, divenne un vero e proprio connotato dell’ortodossia cattolica. L’eucarestia fu un sacramento a cui il concilio di Trento dedicò moltissimo spazio, proprio perché ne colse il valore per l’identità della Chiesa. Parlare di eucarestia, e ribadire la presenza reale di Gesù, equivaleva a parlare anche della messa, del sistema di liturgie e feste che scandivano la vita dei fedeli. E nondimeno, significava parlare del ricco complesso di offerte e di interessi – anche economici – che provenivano dalla devozione dei fedeli per l’eucarestia.
Come si sviluppò la devozione eucaristica?
La devozione eucaristica innescò per moltissimi aspetti una stagione di grande creatività per il mondo cattolico. Sul piano liturgico furono riproposte antiche usanze – come le processioni del Corpus Domini –, ma furono anche sviluppate nuove pratiche. Una delle più significative fu la nascita delle Quarantore. Si trattava di una celebrazione in cui l’ostia consacrata era esposta alla devozione dei fedeli per un periodo prolungato di tempo (da cui il nome). Una schiera di vescovi, predicatori e santi si prodigò per infondere nei cattolici un sentimento di devozione verso l’eucarestia, indicandola come un medicinale e un rimedio in grado di curare molti mali. Educare l’anima, consolare chi soffriva, forgiare una vita integralmente cristiana. Ma sull’eucarestia si esercitò anche un altro tipo di creatività: l’affetto per il sacramento si poté avvalere di altri canali. All’ostia furono dedicate raccolte poetiche, in cui si cimentarono alcuni tra i più prestigiosi letterati dell’età moderna. Per l’eucarestia furono costruite architetture effimere, grandi apparati che venivano smontati e rimontati all’occasione: i cosiddetti “teatri” eucaristici, in cui l’ostia era esposta al centro di grandi quinte sceniche, che impressionavano i fedeli servendosi dell’uso della luce. Il credente era accolto in una chiesa che, con finestre oscurate, veniva immersa nel buio da cui emergeva l’ostensorio illuminato, in una dimensione tra metafisico e sublime. Persino una figura di primo piano come Gian Lorenzo Bernini si dedicò a questo genere di architetture, cogliendone l’importanza, religiosa e politica.
Uno sforzo particolare fu poi quello per abituare i fedeli a ricevere l’eucarestia anche nel punto estremo della morte, con il cosiddetto viatico: l’eucarestia doveva essere presente in tutta la vita dei cristiani e, pertanto, non poteva mancare nel momento più importante, ovvero il passaggio alla vita ultraterrena. L’eucarestia fu, insomma, concepita e proposta come un sacramento totalizzante, che si insinuava in mille modi nell’esperienza quotidiana.
Quale ruolo acquisì nella Chiesa la prassi eucaristica e quali problemi creò, alle stesse autorità ecclesiastiche, il prodigioso potere della carne e del sangue di Dio?
Il volume cerca di adottare una prospettiva di lungo periodo che, pur concentrandosi sull’età moderna, vuole esaminare il fenomeno dell’eucarestia dalla sua istituzione ai giorni nostri. E in questo senso non vuole solo capire cosa funzionò nel congegno teologico che plasmò l’eucarestia, ma anche quali furono gli effetti collaterali. Per citarne solo alcuni, se Gesù si rendeva realmente presente nell’ostia, come la Chiesa sosteneva e si sforzava di far credere, qualcuno se ne poteva impadronire per “usarla” per fini diversi (o ostili) a quelli previsti dalle autorità religiose. Capitò così che, per esempio, molte donne fossero accusate di sottrarre ostie durante la messa e usarle a fini magici per produrre filtri d’amore, fabbricare malefici, ecc. Potremmo dire che fenomeni come quello appena descritto rappresentavano una sorta di “lato oscuro”, un rischio che, tuttavia, la Chiesa cattolica decise di correre, ritenendo la materialità della transustanziazione un elemento irrinunciabile.
Questa materialità – se vogliamo arrivare sino a noi – resta anche oggi la fonte di possibili problemi: la carne e il sangue di Gesù si transustanziano solo a partire da certi ingredienti (pane azzimo fatto con farina di grano, e succo d’uva fermentato): cosa succede dunque se l’uso di cereali OGM altera la sostanza genetica del grano? E come si può amministrare l’eucarestia a un celiaco? Sottrarre il glutine al grano significa infatti renderlo non più o non del tutto adatto al confezionamento di un’ostia che dovrà divenire il corpo di Dio.
Ciò nonostante, Mangiare Dio tenta di dimostrare come la materialità del sacramento rimanga un punto fondamentale, tanto che persino durante un disastro aereo sulle Ande molti si salvarono pensando all’eucarestia. Ma questo, lo lascerei scoprire al lettore.
Matteo Al Kalak (Modena 1979) è Professore associato di Storia del cristianesimo all’Università di Modena e Reggio Emilia. Ha svolto attività di ricerca e di valorizzazione del patrimonio storico-documentario presso varie istituzioni culturali e ha lavorato a progetti di ricerca presso l’Università di Bologna e la Scuola Normale di Pisa. Per la sua attività di ricerca ha ricevuto il Premio Borgia dall’Accademia dei Lincei di Roma. Ha al suo attivo numerose monografie, edizioni critiche e articoli in prestigiose sedi nazionali e internazionali. I suoi studi si sono concentrati sulla storia religiosa, con particolare attenzione all’età moderna. Si è occupato soprattutto della diffusione dell’eterodossia in Italia, delle relazioni ebraico-cristiane in età moderna, degli istituti confraternali e dei fenomeni di conversione. È coordinatore di un progetto europeo sulle migrazioni dal medioevo all’età contemporanea e coordina vari progetti in ambito di digital humanities.