
Dall’altro lato, vi sono fenomeni eccezionali, rari, straordinari, le cui cause sembrano eccedere i limiti della natura: i casi di possessione, gli spettri e gli spiriti di ogni genere, i vampiri, i mostri. Occorre sempre tenere presente che la natura – come ha mostrato in studi importanti Stuart Clark – aveva, nell’età moderna, confini diversi da quelli che siamo abituati ad attribuirle: vi rientravano i fenomeni mirabili (mira) di una natura errans che includeva, ad esempio, i demoni. La trasformazione di una parte di quei fenomeni in effetti naturali (naturalia) propri di una natura currens, conseguente alla discriminazione degli effetti falsi e irreali, fu un processo lungo, incerto e non privo di residui. I mira e i naturalia erano entrambi distinti dai miracula, esclusivamente divini: questa distinzione tomistica venne fatta propria da tutti gli autori nella prima età moderna. La demonologia e la stregoneria, ad esempio, non soltanto non erano percepite come prodotti della superstizione, dell’irrazionalità o di una sorta di “delirio collettivo”, ma rappresentavano una physica specialis, o una instantia prerogativa baconiana.
Nella prima età moderna, riconsiderare la validità dei fenomeni meravigliosi di ogni genere, insieme ai criteri per comprenderli, divenne una priorità scientifica, che rimase tale anche dopo la nascita della scienza. Le meraviglie occuparono un posto di tutto rispetto nell’agenda dei temi della ricerca “seria”, anche in autori come Francis Bacon, Robert Boyle e nello stesso Newton – o, più tardi, nelle opere di Ludovico Antonio Muratori e Costantino Grimaldi.
È innegabile che, dal Cinquecento al Settecento, vi sia stato un progresso nelle teorie del “curioso”, reso possibile dall’accentuarsi di quel vaglio critico che ha permesso di separare, nel corso di oltre due secoli, i fili neri da quelli bianchi nel grigio tessuto della storia naturale, anche se è difficile individuare, in tale processo – che non può certo dirsi concluso con il sorgere dei Lumi – le svolte e i punti critici. Da un lato, si è cercato di discriminare ciò che è naturale da ciò che eccede la natura; dall’altro lato, ciò che è credibile da ciò che è superstizioso. Non è detto, infatti, che i confini del “naturale” coincidano con quelli della credibilità, né tantomeno il soprannaturale è destinato ad apparire ipso facto incredibile. Spesso quello che cambia, in autori contemporanei o successivi, non sono tanto le teorie, quanto l’atteggiamento epistemologico: ciò che separa Giovan Battista Della Porta da Francis Bacon, Girolamo Cardano da Daniel Sennert, William Gilbert da Robert Fludd, Athanasius Kircher o Caspar Schott da Robert Boyle non sono le credenze, ma i tentativi di spiegazione proposti.
Aggiungerei che, a partire dalla Pseudodoxia epidemica del medico ed erudito Sir Thomas Browne (1646) – opera, questa, del tutto trascurata dagli studiosi – debutta un genere letterario destinato ad avere una certa fortuna nel Secolo dei Lumi, fino alle sue propaggini ottocentesche e leopardiane. In quell’opera si trova il primo tentativo esplicito, consapevole, universale, anziché limitato alla sola medicina (come era avvenuto fino ad allora), di denunciare gli errori più diffusi – non solo e non sempre “popolari” – riguardanti la storia e la magia naturale, la medicina, la cosmografia, la storia sacra e quella profana. Quelli che erano stati fino a quel momento semplici aneliti, proponimenti e buone intenzioni di separare il vero dal falso – tanto generici quanto condivisi da tutte le categorie di sapienti che si dedicarono allo studio dei mirabilia – divengono con Browne autentica ricerca di un “avanzamento del sapere” e di un “progresso della verità”, che può avvenire soltanto a patto di evidenziare le opinioni erronee e superstiziose tramandate dagli auctores antichi, medievali e moderni.
Dopo Browne, altri personaggi sepolti finora nell’oblio – come Balthasar Bekker e Pierre Le Brun – e, in seguito, Giacomo Leopardi, nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815), si prefiggeranno lo scopo di individuare ed eliminare gli errori nei quali sono incorsi i filosofi antichi e moderni.
Come si sviluppa, nei secoli, la spiegazione dei fenomeni magnetici e quale significato acquisisce in età moderna il termine magnetismo?
Se si scorre l’elenco delle esperienze curiose che ho già menzionato – alle quali sono da aggiungere fenomeni assai dibattuti nella prima età moderna, come l’emorragia spontanea e inarrestabile che si produce nel cadavere di un uomo morto di morte violenta in presenza del suo assassino, lo sguardo letale del basilisco e quello del lupo, che se guarda per primo un uomo lo fa ammutolire, il potere paralizzante della torpedine marina e quello dell’echeneide, capace di fermare le navi – ci si accorge che si tratta sempre di fenomeni magnetici – che sembrano implicare, cioè, una misteriosa azione a distanza – riguardanti sia la natura, sia l’uomo. Il termine magnetismo ebbe infatti nell’età moderna un significato decisamente diverso, e molto più ampio, di quanto oggi si pensi: per analogia con il magnete, cioè con la calamita che attrae il ferro o un altro magnete, si definiscono magnetici tutti quei fenomeni che implicano un’azione a distanza: dall’invidia all’amore (i due casi della fascinatio oculis), dal girasole all’attrazione elettrica dell’ambra, dall’unguento armario – capace di curare una ferita a qualunque distanza, ove lo si spalmi sull’arma che ha inferto la ferita, o sugli indumenti del ferito – al morso del cane rabbioso e alla bacchetta dei rabdomanti. Non stupisce, pertanto, che Robert Boyle identifichi le “magnetick properties of things” con le “abstrusities of nature”.
Non bisogna tuttavia dimenticare che, tra le azioni a distanza, rientra anche l’attrazione gravitazionale newtoniana: questo creò molti imbarazzi sia a Newton stesso, che si sforzò invano di darne una spiegazione meccanica, sia ai suoi seguaci.
Una svolta nelle teorie del magnetismo è segnata dal De magnete (1600) di William Gilbert: egli stesso sottolinea la novità della propria opera, che poggia su esperimenti “sicuri”, dimostrati “con fatica, notti insonni e grandi spese”, e perciò si differenzia dalle “opinioni” e dalle probabili “congetture” dei filosofi, introducendo un novus philosophandi genus. La “scienza magnetica” è per quanti ricercano le cause ignote dei fatti più comuni, come di quelli più rari, non soltanto nei libri, ma nelle cose stesse.
L’importanza e la novità – sebbene più nel metodo che nei contenuti – della teoria di Gilbert sono dimostrate sia dalla considerazione che ne ebbe Galileo, manifestata nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632), sia, al contrario, dalla totale mancanza di considerazione che Tommaso Campanella riservò al De magnete. Mentre Galileo rimprovera a Gilbert unicamente lo scarso uso della matematica, il mago calabrese lo biasima per non avere utilizzato i concetti di simpatia e di antipatia.
In che modo la storia naturale ha rappresentato nei secoli il tentativo di spiegazione dei mirabilia naturae?
Dalla Naturalis historia di Plinio il Vecchio (I sec. d. C.), fino alla Histoire naturelle Georges-Louis Leclerc de Buffon (1749), la storia naturale consistette nella raccolta e nella descrizione, con intenti classificatori, dei più diversi generi di fenomeni naturali, inclusi i fenomeni occulti. Essi sono già presenti nei trattati di età ellenistica, compaiono nel De locis affectis di Galeno, vengono ripresi nel Rinascimento e affrontati, senza soluzione di continuità, dalla magia naturale, dalla filosofia naturale aristotelica del Cinquecento e dalla “fisica curiosa” del Seicento – che fu una parte non marginale della filosofia naturale, resistendo alla rivoluzione scientifica.
Bisogna attendere il 1646, anno di pubblicazione della Pseudodoxia epidemica di Thomas Browne, per trovare una decisa presa di distanza da Plinio, ritenuto ormai una fonte priva di qualsiasi attendibilità. Tra quegli autori che hanno contribuito a introdurre opinioni erronee nelle scienze della natura, oltre a Erodoto, Apollonio e Dioscoride, spicca Plinio, grande “compilatore” di racconti meravigliosi, che per la prima volta viene “processato”. Plinio viene definito da Browne “the greatest Collector or Rhapsodist of the Latines”. Secondo Browne, tutti gli “errori popolari” tramandati fino al XVII secolo sono contenuti nell’opera pliniana. Browne si domanda se sia più da condannare la “credulità del lettore” o la “curiosità dell’autore”.
Nell’Histoire critique des pratiques superstitieuses (1702), il liturgista Pierre Le Brun, cartesiano di stretta osservanza, si propone di separare le “infinite favole” che gli autori di storia naturale – da Plinio il Vecchio in poi – hanno “intruso in tutta la Fisica”, condannandola a “una grande oscurità”. Come Browne, Le Brun rotiene che sia mancato, sino a quel momento, il necessario lavoro di vaglio, che ormai occorre intraprendere: di ogni effetto raccontato e analizzato dagli autori di storia naturale, bisogna innanzitutto stabilire se è falso o vero: nel primo caso, occorre “disingannare il Pubblico”; nel secondo caso, bisogna cercarne le cause.
La condanna del modello pliniano della storia naturale è però tutt’altro che unanime nei secoli XVII e XVIII: il platonico di Cambridge Henry More, ad esempio, non esita ad accettare opinioni tanto antiche quanto improbabili, come quella – sostenuta, oltre che da Plinio, da Virgilio e sant’Agostino – che il vento possa ingravidare le cavalle. Altri luoghi comuni di origine pliniana, diffusi tra gli autori di storia e di filosofia naturale, sono le opinioni secondo le quali vi sarebbero famiglie africane che ammaliano con la voce, mentre gli Illirici dalla doppia pupilla uccidono con lo sguardo. Gli occhi degli jettatori sono, infatti, preferibilmente dotati di pupille doppie, o effigiate di immagini equine.
Che forme assume, nella visione moderna, il magnetismo dell’immaginazione umana?
Nel De virtute imaginativa, Paracelso afferma che “l’immaginazione non è altro che un magnete”, perché è capace di agire a distanza. L’immaginazione, da Aristotele in avanti, è sempre stata considerata una facoltà conoscitiva, ma anche attiva, intermedia tra la sensibilità e l’intelletto, tra l’oggetto e il soggetto, tra il particolare e l’universale, tra la molteplicità e l’unità: insomma, tra il corpo e l’anima. Trattandosi di una facoltà dell’anima localizzata nel cervello, l’immaginazione agisce sul corpo al quale è unita, e anche sui corpi esterni, attraverso lo spirito. Questo corpo sottile, proveniente dai luoghi cerebrali dell’immaginazione, saetta i suoi raggi preferibilmente attraverso gli occhi, “come per finestre di vetro”, secondo Marsilio Ficino, provocando la fascinazione amorosa o, al contrario, un venefico odio. Tra gli spiriti più efficaci e pericolosi, infatti, ci sono quelli che, provenienti da un cervello “surriscaldato” dalla presenza di un’immagine capace di generare forti affetti dell’animo, escono dagli occhi, veicolando intenzioni benefiche o malvagie.
Fortis imaginatio generat casum: questo principio – affermato, tra gli altri, da Montaigne – era un luogo comune nel XVI secolo: le forme immaginate e intensamente desiderate, a differenza delle idee della memoria e dell’intelletto, hanno il potere di trasformarsi in cose reali. Se ne adducevano prove eclatanti: i re di Etiopia che generarono una figlia bianca, perché la regina teneva di fronte al letto un ritratto di Andromeda; la bambina villosa, concepita fissando la figura di San Giovanni Battista; le corna che spuntarono in fronte a Cippo, re d’Italia, dopo essersi entusiasmato per un combattimento di tori.
Sull’immaginazione agisce lo spiritus mundi, tramite i raggi astrali; agiscono anche gli spiriti benigni o, più spesso, maligni: il diavolo ha su tale facoltà il massimo potere, e per il suo tramite s’impossessa degli uomini, producendo effetti nefasti. Come il demonio, infatti, l’immaginazione è illusoria e cangiante: alla deceptrix imaginatio devono essere attribuiti gli errori nei giudizi percettivi (soprattutto quelli legati alla visione) e nello stesso tempo i peccati; essa cambia nei diversi uomini e nello stesso uomo in tempi diversi. L’immaginazione, insomma, è sempre in balia degli spiriti, in tutte le accezioni nei quali questo termine viene usato nel Rinascimento.
Con i poteri dell’immaginazione si spiegano: la fascinatio oculis, d’amore e d’odio, il contagio, le cure magnetiche, cioè a distanza (unguento armario, polvere di simpatia, transplantatio morbis), il fenomeno delle voglie materne e la mirabile sintomatologia di quanti sono morsi dalla tarantola.
Per due secoli, alla “regolata” ragione è stata contrapposta l’immaginazione “sregolata”, capace di turbare l’ordine razionale, di imprimere le proprie idee o intenzioni sulla realtà esterna, plasmandola. Il diavolo – summus physicus et opticus, secondo la definizione del medico Friedrich Hoffmann – agisce prevalentemente sull’immaginazione umana, le cui caratteristiche – inlusio, celeritas e fictio – coincidono, per l’appunto, con quelle del grande Avversario.
In che modo la magia naturale sopravvive nel secolo dei Lumi?
Il Settecento non è riducibile al trionfo dei Lumi; nella sua parte, per così dire, in chiaroscuro, rientrano ad esempio le dottrine della jettatura, maturate negli ambienti dotti dell’Illuminismo partenopeo; il dibattito, tutto settentrionale, tra l’abate Girolamo Tartarotti e il marchese Scipione Maffei sul carattere reale o illusorio della magia, e sui rapporti tra la magia e la stregoneria; lo studio storico e l’ampia disamina dei fenomeni del tarantismo pugliese, compiuti prima da Ludovico Valletta, monaco della congregazione dei Celestini, poi, da un diverso punto di vista, dal medico Francesco Serao nelle sue lezioni, rimaste incompiute, all’Accademia delle scienze di Napoli.
Nelle opere di Geminiano Montanari e Giuseppe Toaldo, la meteorologia prende insensibilmente il posto dell’astrologia; è ammessa, tuttavia, l’azione di “secreti effluvi” astrali. Un ipocondriaco del calibro del filosofo modicano Tommaso Campailla crede fermamente ai “giorni critici” delle malattie, regolati dagli influssi del Sole o della Luna; i “fluidi sottili” di Benjamin Franklin trasportano l’elettricità e sono conduttori dei suoni, ma spiegano anche perché un mercante parigino inizi, senza ragione apparente, a canticchiare una vecchia canzone e, dopo duecento passi, si imbatta in un mendicante cieco, che strimpella al violino quello stesso motivo.
Raimondo di Sangro, principe di Sansevero e Gran Maestro della Massoneria per il Regno di Napoli, muore nel 1771, probabilmente per intossicazione, in seguito ad uno degli esperimenti chimici che compiva nel laboratorio, all’interno del suo palazzo. Pochi mesi prima, nel medesimo anno, era morto il suo unico figlio, per aver bevuto – si narra – un liquore, scambiato per elisir di lunga vita. Le presunte scoperte del principe di Sansevero erano “fuori dell’ordine della natura”. Il suo museo – subito disperso dagli eredi – era considerato una tappa irrinunciabile del Grand Tour anche da viaggiatori ben dotati di una robusta razionalità scientifica, come il matematico Daniel Bernoulli e l’astronomo Joseph-Jérôme de Lalande.
Nel 1746, l’abate lorenese Antoine (Augustin) Calmet, considerava il fenomeno dei presunti vampiri, apparsi negli ultimi sessant’anni in Ungheria, Moravia, Slesia e Polonia, una delle “mode”, “inclinazioni” o “malattie” tipiche del Settecento, e lo esaminava ampiamente, citando fonti mediche. Alla fine del secolo, poi, le catene magnetiche teorizzate dal gesuita Athanasius Kircher nella prima metà del XVII secolo conobbero un’ultima, significativa ripresa nel sistema del magnetismo animale di Franz Anton Mesmer, che, a parere di Robert Darnton, “soddisfece l’interesse per la scienza […] durante la decade precedente la Rivoluzione, e non sembrò contraddire lo spirito dell’illuminismo”, tanto che il mesmerismo si può considerare “la più grande moda culturale degli anni Ottanta del XVIII secolo”.
Il lapis philosophorum, capace di mutare i metalli in oro e di prolungare la vita, era considerato da Muratori un “idolo” della fantasia; il pio abate non trascurava di aggiungere, però, che c’era ancora qualcuno, ai suoi giorni, che ne andava in cerca: in pieno Settecento, un medico paracelsiano come lo spagnolo Francisco Suarez de Rivera poteva ancora dedicarsi a un’attardata ricerca dell’alkahest, della polvere di simpatia e dell’oro potabile.
Un altro medico, Giorgio Baglivi, negli anni ’30 del XVIII secolo si inserisce nella disputa che si era svolta circa settant’anni prima tra Athanasius Kircher e Francesco Redi riguardo ai poteri curativi della pietra serpentina, così chiamata perché si riteneva che si formasse spontaneamente nella testa del cobra. Schierandosi dalla parte del gesuita, Baglivi considera quella pietra efficace contro il morso dei serpenti, perché capace di succhiare il veleno per una sorta di attrazione magnetica tra sostanze simili.
Persino Giacomo Leopardi, che definisce la magia, e le connesse credenze nelle “ombre, larve, spettri, fantasmi, visioni”, “il pregiudizio dei secoli”, uno degli “errori popolari degli antichi” più duri a morire, soprattutto presso il “volgo”, scrivendo nel 1815 il suo Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, ammette la possibilità che “si dimostri che la Magia non è assolutamente una chimera”.
Silvia Parigi, dottore di ricerca in Filosofia e in Storia della Scienza, con abilitazione scientifica nazionale in entrambi i settori, è dirigente scolastico nei licei. I suoi interessi di ricerca riguardano principalmente la storia delle teorie della percezione, e i rapporti tra magia e scienza nell’età moderna. Ha pubblicato numerosi saggi su riviste nazionali e internazionali; ha tradotto opere di Agrippa, Cardano, Fludd, Berkeley, Diderot. Ė autrice di: Il mondo visibile. George Berkeley e la ‘perspectiva’ (1995), Studi sull’entusiasmo (2001), George Berkeley. Religion and Science in the Age of Enlightenment (2010), Spiriti, effluvi, attrazioni. La fisica ‘curiosa’ dal Rinascimento al Secolo dei Lumi (2011). Fa parte del comitato direttivo della rivista “Berkeley Studies”.