“Maasiana & Callimachea” di Luigi Lehnus

Prof. Luigi Lehnus, Lei è autore del libro Maasiana & Callimachea pubblicato da Ledizioni. Lei ha dedicato gran parte dei suoi studi alla figura di Callimaco: cosa possediamo del poeta di Cirene?
Maasiana & Callimachea, Luigi LehnusDi Callimaco di Cirene, fondatore della poesia ellenistica, la gran parte dell’opera – più di 800 volumi, secondo una fonte – è perduta. Callimaco era troppo difficile, troppo raffinato e troppo lontano dalla realtà, tranne quella della corte macedone di Alessandria, perché i suoi versi riuscissero a essere letti e trascritti oltre la fine dell’antichità. Fu commentato bensì, ma i commenti stessi andarono presto perduti e gli scolî che abbiamo in margine ai manoscritti medievali che conservano i suoi Inni sono poverissimi. I sei inni e la raccolta di epigrammi (alcuni tra i più belli della letteratura greca) che di lui ci sono giunti hanno varcato il tempo grazie al fatto che furono antologizzati, aggregati cioè a grandi raccolte generiche – il cosiddetto corpus innico e l’Antologia Palatina – che si sono salvate in forza della loro mole che rispondeva a un programma culturale più generale. Callimaco, elegiae princeps come lo definisce Quintiliano, scrisse una raccolta di elegie in quattro libri intitolata Aitia, cioè “Origini”: fu questa la sua opera più importante. All’inizio della raccolta figura un’invettiva contro i suoi nemici letterari, che egli chiama spregiativamente Telchini, cioè demoni dell’invidia. I Telchini esigono da lui lunghi poemi alla maniera omerica, o meglio alla maniera dei noiosi poemi del Ciclo epico, ma lui proclama orgogliosamente di essere oligostichos, “di pochi versi”, e la brevitas callimachea, che è un nuovo tipo di narratività, diventerà un’ossessione di tutta la successiva poesia greca e romana, con poche eccezioni. Callimaco è stato spesso avvertito come poeta frigido, chiuso in una torre d’avorio. Così in verità non è. Dicevo degli epigrammi: si pensi a quello in morte dell’amico Eraclìto di Alicarnasso, ambasciatore itinerante conosciuto forse presso la corte tolemaica:

Qualcuno, o Eraclito, evocò la tua sorte e mi portò
alle lacrime. E ricordai quante volte insieme
noi conversando coricammo il sole. Ma tu altrove,
ospite di Alicarnasso, da tanto tempo sei cenere.
Vivono i tuoi usignoli, e su di essi la Morte
rapitrice di tutto non imporrà la sua mano.

Quali vicende hanno segnato l’edizione dei testi callimachei?
Parliamo delle opere “perdute”: elegie e giambi più un singolo poema epico di 1000/1600 versi (inni e epigrammi hanno avuto un’altra storia, meno tormentata). Si comincia con Poliziano, si passa per Richard Bentley alla fine del XVII secolo, quando i frammenti di Callimaco sono già quasi 500, si incrociano gli eruditi olandesi del Settecento, grandi studiosi dei lessici greci medievali, e si arriva agli antichisti tedeschi di fine Ottocento e inizio Novecento, quando la Altertumswissenschaft o “scienza dell’antichità” si sposa felicemente con l’avvento dei papiri. È qui che incontriamo i nomi della storia di cui si parla in Maasiana & Callimachea: Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff (1848-1931) e i suoi scolari, tra i quali primissimi Paul Maas e Rudolf Pfeiffer. Questi ultimi hanno portato l’eredità della scuola wilamowitziana in Inghilterra e precisamente a Oxford, che negli anni Trenta li accolse esuli dalla persecuzione razziale nazista. Non divennero professori in Inghilterra, ma Pfeiffer completò lì la ricerca di una vita pubblicando per la Oxford University Press nel 1949 una ricostruzione sostanzialmente definitiva del Callimaco perduto. L’edizione callimachea di Pfeiffer si annovera tra i due o tre capolavori assoluti della filologia classica novecentesca. Paul Maas fu dal 1939 alla morte, nel 1964, non più che un collaboratore e consulente della OUP. Era un uomo dall’apparenza schiva e modesta ma a lui si rivolgevano i migliori tra i giovani studiosi di Oxford quando incappavano in problemi di greco insolubili. Maas rispondeva a stretto giro con una cartolina postale di brevità affatto callimachea. Oggi queste cartoline costituiscono non solo preziosi cimeli ma anche fonti di conoscenza filologica di prim’ordine. Di Maas dirò meglio tra poco.

Degli Aitia abbiamo circa 200 frammenti di varia estensione: da lunghi papiri a singole parole, spesso glosse conservate dai lessicografi medievali. Lo stesso accade con le altre due grandi opere di Callimaco, il poemetto epico Ecale e i tredici Giambi. L’Ecale è una sfida di Callimaco ai suoi propri principî. Volevate che componessi un poema epico, sembra dire. Eccolo: la storia dell’incontro tra l’eroe Teseo avviato alla sfida impossibile col toro maratonio e l’umile vecchia Ecale, che era stata una principessa e che ora vive sola in una casupola tra i monti dell’Attica. Gran parte del poema non riguarda l’impresa eroica come tale ma l’incontro umanissimo e di sapore quotidiano tra il giovane eroe avviato al cimento e alla gloria e la donna anziana e fragile ma affettuosa e ospitale. Uno scroscio di temporale sui monti, la capanna di Ecale che si apre e una cena povera e frugale quanto ricca di affetti. Ecco Callimaco al suo apogeo, questa è la nuova epica: le olive in salamoia, il pane cotto sotto la cenere, le erbe silvestri imbandite dall’anziana eroina. Un modello che farà scuola, si pensi anche solo agli ovidiani Filemone e Baucide. Domani il temporale sarà passato, Teseo doma facilmente il toro, risale in montagna per ringraziare la sua anziana ospite – ma Ecale è morta. L’eroe e i vicini fonderanno in sua memoria un commosso culto annuale e un municipio che da lei prende nome. Il poema epico è dunque anch’esso un aition.

Quali questioni filologiche solleva l’opera di Callimaco?
Bella domanda. Callimaco è uno degli autori antichi più impegnativi. Basta pensare all’enorme influsso che ha esercitato sulla poesia latina, che quasi non può fare a meno di lui. Si comincia col sogno di Ennio, col poeta che immagina di incontrare le Muse sul Parnaso, esattamente come Callimaco si era fatto trasportare in sogno dalla natìa Cirene fin sull’Elicona; si passa per Catullo che addirittura traduce, si può dire parola per parola, un’elegia di Callimaco, la famosa Chioma di Berenice con la metamorfosi in costellazione del ricciolo della regina egiziana; e si dilaga infine con Virgilio e gli altri augustei (soprattutto Properzio, ma anche Ovidio), dove Callimaco è onnipresente in filigrana. Properzio chiede espressamente a Callimaco e al suo precursore Filita di Cos di lasciarlo entrare nel sacro bosco della loro poesia.

La prima delle questioni filologiche suscitate da Callimaco riguarda proprio i poeti dotti romani. In che misura ci si può fidare di loro per ricostruire la parte perduta – cioè la maggior parte e la più importante – dell’opera di Callimaco? Per esempio, Ovidio nelle Heroides presenta la romantica storia d’amore di due giovani abitatori delle Cicladi, Acontio e Cidippe. Fino a tutto l’Ottocento si è pensato di poter ricostruire partendo da qui l’elegia callimachea dedicata, nel terzo libro degli Aitia, ai due celebri amanti, rispettivamente di Ceo e di Nasso: forse la poesia più famosa dell’intera letteratura ellenistica. Adesso, da quando nel 1910 un papiro di Ossirinco ci ha restituito tutta la seconda parte dell’originale greco, sappiamo che non ci si può fidare di Ovidio, il quale affronta la storia da tutt’altro punto di vista. E si è scoperto che molto più attendibile in questo senso è un tardo epistolografo greco di nome Aristeneto, addirittura del V-VI secolo. Questo è il genere di sorprese cui va incontro chi si fida troppo delle scorciatoie e dei luoghi comuni con Callimaco.

La brevità callimachea implica uno stile magari sintatticamente non troppo difficile ma elaborato e compresso, che fa della lettura di Callimaco un’impresa comunque ardua. Si consideri che i papiri (sono circa sessanta quelli che ci conservano frammenti di Callimaco) sono per le vicende stesse della loro trasmissione quasi sempre corrosi e lacunosi. Ricostruirli e integrarli quando l’opera che trasmettono è così concentrata e imprevedibile può essere gratificante ma richiede pazienza e una faticosa combinazione di intuito e tecnica, attitudini spesso tra loro conflittuali. Non a caso l’impresa ha attratto alcune delle menti filologiche più raffinate e tenaci dell’intera storia degli studi classici. Inoltre, al di là dei papiri, le fonti della maggior parte dei circa 900 frammenti callimachei fin qui raccolti sono spesso di tipo “grammaticale”, vengono cioè dalle grandi enciclopedie erudite (Esichio, la Suda, gli Etymologica) della tarda antichità e del millennio bizantino. Sono testi per loro stessa natura difficili, la cui edizione da parte degli specialisti ha richiesto in qualche caso secoli e in altri casi (per esempio per il cosiddetto Etymologicum Genuinum) non è completa neppure adesso.

Nel libro Lei celebra la grandezza di Paul Maas: in che modo il filologo tedesco si dedicò a Callimaco?
Nell’ultimo decennio della sua vita Wilamowitz, ormai in pensione, organizzava a sabati alterni a casa sua a Charlottenburg, nell’elegante Westend berlinese, dei seminari “privatissimi” chiamati Graeca. Vi partecipavano gli alunni migliori di quegli anni. L’incolmabile divario tra maestro e allievi richiedeva che ci fosse qualcuno a fare da mediatore. Questo compito era normalmente svolto da Paul Maas (1880-1964), l’unico in grado di tener testa a Wilamowitz (del resto, aveva cominciato a farlo già da studente del prim’anno) con una preparazione e un patrimonio di conoscenze comparabile. Quando i due si confrontavano su un passo greco corrotto o comunque di difficile interpretazione “era una cosa da tenere il fiato”, racconta uno dei partecipanti di allora. Maas magari diceva: “su questo punto si sono fatte troppe congetture, purtroppo anche da parte di Sua Eccellenza”, e dei due alla fine il più disposto a cedere era proprio Sua Eccellenza.

Autore irto di problemi testuali e metrici, Callimaco attrasse il critico del testo e metricologo Maas fin dall’inizio, nel periodo in cui fu docente a Berlino e a Königsberg; ma fu soprattutto con l’arrivo a Oxford nel 1939, dove già si trovava Pfeiffer e dove operava l’inaccessibile (ma non per Maas) Edgar Lobel, massimo papirologo letterario inglese, che Maas prese a dedicare a Callimaco un’attenzione assidua. Lo dimostrano diversi articoli e soprattutto la quantità di note a penna da lui apposte sui margini delle edizioni critiche di poeti greci che lo accompagnarono nell’esilio inglese, e soprattutto sulle pagine dell’edizione pfeifferiana del 1949. Questi libri fittamente postillati con osservazioni di alto tenore filologico andarono dispersi e rischiarono di perdersi del tutto dopo la morte di Maas, ma sono stati in parte recuperati una ventina d’anni fa dal dipartimento classico dell’Università degli Studi di Milano, dove sono ora a disposizione degli studiosi. Si tratta di decifrare e far parlare non tanto una grafia, difficile ma infine leggibile, quanto un pensiero conciso, spesso ellittico perché formulato ad uso privato, e concentrato come tecnico e concentrato è lo stile stesso di Callimaco. Pubblicare e commentare queste note è un lavoro per certi versi umile ma che richiede passione e procura la tipica soddisfazione che si prova quando ci si accomoda, con desiderio di apprendere, ai piedi di uno spirito magno. A mia volta, come ho scritto altrove, non saprei dire se Maas fosse consapevole di creare documenti e un monumento destinato a durare, mentre annotava; semplicemente studiava e pensava senza lasciarsi distrarre.

Sempre nel libro, Lei narra un curioso aneddoto relativo alla percezione che di sé stessi avevano grandi filologi come Paul Maas e Ulrich von Wilamowitz: per il principe dei filologi era il suo allievo il miglior conoscitore della lingua greca antica…
Sì, la storia è narrata da Elias Bickerman, grande storico dell’ellenismo e del giudaismo ellenistico. Bickerman, esule russo che nel 1926 si era addottorato a Berlino frequentando tra gli altri Wilamowitz, racconta in un discorso tenuto a Tubinga nel 1977 e reso pubblico nel 2010 da A.I. Baumgarten, che una volta nel berlinese Istituto di Scienza dell’Antichità, creatura di Wilamowitz e Diels, uno studente gli chiese di spiegargli una sfumatura di sintassi greca. Bickerman rispose come poté ma prudentemente aggiunse l’esortazione a rivolgersi a Paul Maas «che secondo Wilamowitz era il miglior conoscitore di greco». Era dunque questo il privato parere del principe dei filologi a proposito del suo allievo.

Lo studente peraltro non si lasciò impressionare e replicò (si consideri che uno “straordinario” era allora l’equivalente del nostro “associato”): «Impossibile! In questo caso il Signor Maas sarebbe un professore ordinario, mentre egli è soltanto un professore straordinario». Tale era lo spirito dei tempi. Ma in materia di gradi accademici l’anonimo era ben informato. Maas diventò ordinario a Königsberg nel 1930, ormai cinquantenne. Wilamowitz, che evidentemente aveva voluto tenerlo con sé il più a lungo possibile, scrisse per l’occasione un epigramma greco in stile scherzosamente criptico, che fu declamato alla festa di addio, e che ci è giunto:

Diamo l’addio e ci sentiamo orfani,
o compagni del tiaso, al penetrante
interprete di lettere illeggibili,
che oggi si allontana: e salutiamo
il medico-indovino di nascosti errori.

Luigi Lehnus è stato ordinario di Filologia classica a Milano dal 1989 al 2015. Si è occupato di Pindaro, di cui ha tradotto le Olimpiche, di lirici greci e di poesia ellenistica e romana, Callimaco in particolare. Ha edito la Vita Vergilii probiana, tradotto e commentato il trattato plutarcheo Sul volto della luna, e tradotto il libro di Plinio sulla bronzistica. Da tempo studia e ricerca documenti sulla storia degli studi classici, soprattutto in Inghilterra e Germania, onde la pubblicazione di Incontri con la filologia del passato (2012), di Maasiana & Callimachea (2016), e nel 2019 l’edizione italiana del Monte delle Muse di Wilamowitz. L. Lehnus è socio dell’Accademia Ambrosiana, membro vitalizio di Clare Hall, Cambridge, e Member of the Common Room di Wolfson College, Oxford.

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