“Luzi” di Daniele Piccini

Prof. Daniele Piccini, Lei è autore del libro Luzi edito da Salerno: quale importanza riveste, per la poesia e la letteratura del Novecento, l’opera di Mario Luzi?
Luzi, Daniele PicciniMario Luzi è un autore acquisito al canone della poesia italiana ed europea del Novecento. Anzi la sua storicizzazione è stata particolarmente precoce, essendo egli stato riconosciuto come uno degli autori di riferimento della sua generazione fin dagli esordi. Nel 1943, ancora giovane, è ad esempio accolto nell’antologia Lirici nuovi di Anceschi e si può dire che nessuna antologia di poesia del Novecento prescinda, da lì in poi, dalla sua presenza. Detto questo, se si cerca di guardare più a fondo, si vede che Luzi è stato nel Novecento anche una coscienza critica e a suo modo inquieta. In questa direzione va la sua polemica con Pasolini negli anni Cinquanta sul concetto di realismo in letteratura e particolarmente in poesia. Ma non solo: Luzi si è trovato spesso su posizioni distanti da quelle ideologicamente predominanti. Si può dire che abbia costruito buona parte della sua carriera poetica, dal dopoguerra in poi, su un’idea non rinunciataria e non in perdita della vita e del mondo. Egli ha cioè cercato di riesaminare a fondo e di attraversare il grande motivo della negazione che domina la poesia moderna, almeno da Leopardi per ciò che riguarda la poesia italiana. Naturalmente non lo ha fatto con un’ingenua fede positiva, sorda ai mali e alle lacerazioni della storia, ma cercando di riconquistare attraverso le contraddizioni un’idea dell’essere non pregiudicata. La sua è stata dunque, in gran parte, una poesia aperta e disponibile all’evento del mondo, al suo rigenerarsi. In questa direzione, dopo un libro di profonda immersione nella problematicità del reale come Nel magma, vanno soprattutto i libri della piena ed estrema maturità, a partire dai poemi per frammenti di Su fondamenti invisibili (1971). I libri dell’estrema stagione, da Per il battesimo dei nostri frammenti (1985) fino a Dottrina dell’estremo principiante (2004), cercano una nominazione del mondo sotto specie creaturale. Le cose sono colte nel loro formarsi e trasformarsi, con la possibilità di non essere considerate oggetto di caduta e di perdita, ma piuttosto di eventuale compimento, di risalita al principio e all’origine. In questo senso è stata molto importante per Luzi la lettura del teologo francese Teilhard de Chardin, unitamente a una sensibilità innata nel poeta e da lui coltivata, soprattutto nella maturità e nella vecchiaia. Per certi aspetti la poesia di Luzi mi appare una sorta di controcanto alla poesia e alla letteratura novecentesche, un controcanto non immemore del negativo, ma proteso ad altro.

Quali tappe hanno segnato la vicenda umana e intellettuale del grande poeta?
Negli anni Trenta Luzi è uno dei protagonisti della stagione cosiddetta ermetica: un momento, nonostante il regime fascista, di effervescenza culturale, in cui si traduce molto e si riflette sul linguaggio della poesia. Accanto ai poeti, ci sono i traduttori e i critici: dunque figure di rilievo sul piano culturale come Leone Traverso, Carlo Bo, Oreste Macrì, a fianco dei poeti. Oltre a Luzi, si possono ricordare almeno i suoi coetanei Piero Bigongiari e Alessandro Parronchi. Luzi ebbe del resto come maestro e punto di riferimento ideale un poeta della generazione precedente, Carlo Betocchi, a cui rimase sempre legato da affetto e ammirazione. Dopo la guerra, Luzi comincia a maturare una sorta di conversione poetica verso una poesia maggiormente incarnata, sulla scia del modello dantesco. La guerra è dunque uno spartiacque importante, sentito profondamente da Luzi nella sua tragicità. Altro evento cruciale per la maturazione del poeta fu la morte, nel 1959, dell’amata madre Margherita, cui dedicherà alcune poesie centrali di Dal fondo delle campagne (1965). Si può dire che anche quest’esperienza convinca Luzi a crescere nel proprio sentimento attivo della comunione tra i vivi e i morti e nella consapevolezza di un compito da svolgere, che lo obbliga a procedere, a proseguire la strada, senza voltarsi a rimpiangere il passato con toni elegiaci. Questo rifiuto dell’elegia è una delle grandi conquiste della poetica di Luzi, a cui arriva a poco a poco, e che gli permette di approdare, alla fine, a una poesia dell’essere, dell’origine, della novità incessante del creato.

Quale percorso ha caratterizzato la sua creazione poetica?
Nella sua giovinezza, Luzi è un poeta rarefatto e lirico, con La barca (1935), poi vitreo e prezioso, con Avvento notturno (1940). La guerra, cui pure Luzi non partecipò direttamente perché riformato, contribuì a spingere la sua ricerca in altre direzioni, ad acuire inquietudine ma anche curiosità della sua parola, fin da un poemetto scritto nel periodo bellico come Un brindisi. Nel dopoguerra, la poesia di Luzi va incontro, con forme mutevoli e via via più complesse e frastagliate, al reale, alle presenze concrete, alla fatica e alla storia degli uomini (penso a un titolo come Onore del vero del 1957). Tuttavia il libro più densamente coinvolto con l’assillo della realtà, con le richieste e le inquisizioni di personaggi antagonisti è senza dubbio Nel magma (1963), l’opera forse più di rottura e di svolta nell’intera storia poetica di Luzi. Lì arriva a piena maturazione quel germe dantesco che il poeta aveva rimesso al centro della propria riflessione nell’immediato dopoguerra, con il saggio L’inferno e il limbo (1945, uscito in rivista nel 1946). Nel magma è forse il libro poetico del Novecento più intensamente dantesco. Se qui la suggestione dell’oltremondo, del senso ultimo delle cose si fa strada drammaticamente, attraverso il magma del reale, in seguito Luzi ha cercato di orchestrare una poesia ancora più ricca di voci, di suggerimenti, di incisi sapienziali, che infine arriva a recuperare, oltre l’Inferno e il Purgatorio, la stessa idea dantesca del Paradiso: l’idea insomma del canto dell’essere, se pure contrastato e difficoltoso, interdetto dai limiti stessi del linguaggio umano.

Luzi è stato anche autore di teatro, prosa e saggistica: come si è articolata la sua produzione non in versi?
La saggistica ha accompagnato da sempre la scrittura poetica. Luzi cerca nei suoi saggi un ampliamento della propria coscienza di poeta moderno, mettendosi a confronto con i classici di epoche diverse, ma anche con la parola sacra e talvolta con le sollecitazioni della società e della cultura contemporanea. La letteratura appare sempre a Luzi come un atto fondativo, costitutivo, essenziale, teso alla nominazione di ciò che è originario, zampillante. In questo senso il confronto e il corpo a corpo con la parola di Gesù testimoniata nei Vangeli è ad esempio molto vivo (penso al saggio Gesù e la parola, datato 1953). La prosa non strettamente saggistica costituisce a sua volta una specie di ampliamento della poesia, come un’espansione della sua sfera, all’insegna di una scrittura nitida, icastica, epifanica. Per quanto riguarda il teatro, credo che il Luzi drammaturgo meriti di essere riscoperto. Certe figure da lui disegnate drammaticamente, da Ipazia a Rosales, fino al don Puglisi de Il fiore del dolore (figura evocata tutta in assenza, nel dopo del suo sacrificio), mettono assieme una riflessione sul tragico e un sentimento cristiano che porta il tragico oltre di sé, verso una possibile trasformazione e palingenesi.

Quale ricezione ha avuto l’opera di Luzi?
Come dicevo prima, la poesia di Luzi ha avuto un’accoglienza ampia e una notevole fortuna (il che si può dire anche del resto della sua opera). Ciò non toglie che in certi momenti l’autore abbia avuto critiche aspre e pungenti e vere e proprie controversie: ad esempio lettori come Franco Fortini e Pier Paolo Pasolini mostrano nei confronti di Luzi una sorta di sentimento contraddittorio. Da una parte c’è l’ammirazione estetica, dall’altra un’esibita distanza ideologica, che motiva un atteggiamento di messa in discussione di Luzi, accusato di un eccesso di letterarietà a fronte delle richieste pressanti dell’impegno e della presa di posizione nella realtà. Ma uno dei motivi pulsanti dell’opera di Luzi è proprio la difesa dell’autonomia del fatto letterario, che se pur umilmente, tuttavia non vuole rinunciare al proprio mandato, ad una conoscenza più piena, alla ricerca di una verità integrale e unitaria, che vada al di là delle ideologie e delle parole d’ordine di questa o quella epoca.

Daniele Piccini (1972) insegna Filologia della letteratura italiana all’Università per Stranieri di Perugia. I suoi ultimi libri saggistici sono Luzi (Salerno Editrice, Roma 2020) e La gloria della lingua. Sulla sorte dei poeti e della poesia (Morcelliana, Brescia 2019). Ha curato l’antologia La poesia italiana dal 1960 a oggi (Rizzoli, Milano 2005). I suoi libri poetici sono: Terra dei voti (Crocetti, Milano 2003), Canzoniere scritto solo per amore (Jaca Book, Milano 2005), Altra stagione (Aragno, Torino 2006), Inizio fine (Crocetti, Milano 2013, in via di ristampa), Regni (Manni, Lecce 2017). Collabora a “La Lettura”, a “Famiglia Cristiana” ed è redattore della rivista “Poesia”.

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