Prof. Canfora, il Festival del classico ci chiama a riflettere sul ruolo dei classici nella nostra società: una società che celebra la tecnologia, la tecnica, e che ha un po’ perso di vista il legame con le proprie radici. Che ruolo possono avere, oggi, nella nostra società, i classici?
Prima bisognerebbe intendersi sulla parola ‘classico’ che viene dal latino primae classis. Vuol dire “che sta molto in alto nella scala sociale”; è un termine piuttosto antipatico, un termine che io adoperò sempre in punta di piedi. C’è un autore latino, che si chiamava Gellio, che riflette su queste parole e dice che all’opposto di classico c’è proletarius nella scala sociale. Questo non vuol dire che ce l’abbiamo coi classici perché antiproletari; è un termine ormai entrato nell’uso, in maniera ambigua perché si riferisce soprattutto ai Greci ai Romani. Però poi in realtà si pensa agli antichi, ma gli antichi sono più numerosi dei Greci e dei Romani, tant’è vero che in questo incontro, che avremo questi giorni qui, sulla schiavitù antica e moderna, si parlerà dell’antico Egitto, per esempio; si è parlato della realtà di Ilio, l’antica città di Troia. Io preferisco sempre dire ‘gli antichi’. Però, siccome poi l’antichità andrebbe molto oltre – la Cina, l’Asia, l’Estremo Oriente, l’Africa, le civiltà precolombiane – il termine antico ci porterebbe addirittura ad una difficoltà geografica di dominare la materia. I Greci e i Romani, per quanto la loro realtà ci sia nota in modo intermittente, con grandi vuoti, hanno determinato culturalmente l’antefatto delle nostre moderne letterature e civiltà politiche, artistiche, filosofiche. I moderni hanno via via scelto gli antichi: il Medioevo è stato un periodo decisivo in questo, nel selezionare e far sopravvivere quello che è stato ritenuto necessario, preferibile. Quindi, abbiamo tutto Platone ma non abbiamo Democrito. Perché? Perché Platone entra nell’orbita, diciamo, della spiritualità cristiana – opportunamente ritoccato o comunque criticato – mentre il materialismo di Democrito è considerato in modo ostile. Quindi, bisogna sempre tener presente che abbiamo ciò che altri hanno scelto per noi e poi abbiamo quello che si è salvato anche da cause materiali di distruzione, che sono state fortissime. C’è una continuità, ma per una ragione più semplice di quella che viene spesso addotta: di solito si dice “i valori degli antichi sono i nostri valori”; i valori degli antichi sono tutti, perché nell’antichità greca e romana, ellenistica, tardoantica, c’è ogni aspetto del reale, in grande contraddizione spesso, come nella nostra. Quindi, io abbandono il patriottismo disciplinare fastidioso e dico invece che quella civiltà ci interessa molto per una ragione fondamentale: che sappiamo come è andata a finire, come finisce un mondo. Lì lo abbiamo constatato attraverso le fonti che ce ne parlano, attraverso tutti gli elementi, anche materiali – gli edifici diroccati superstiti in minima parte. Quindi se noi vogliamo riflettere sulla nostra civiltà e sui destini, non possiamo che studiare come è finita quell’altra civiltà.
Tra i partecipanti al Festival vi sono molti studenti, molte scolaresche, presumibilmente, in maggior parte, che frequentano il liceo classico. Le chiederei una riflessione sul ruolo di questa scuola: ha ancora senso?
Sì, per quanto se ne parli male poi alla fine si riconosce che è la più completa dal punto di vista disciplinare, dei contenuti, dello stile di lavoro. Io penso sempre a una frase di Antonio Gramsci che dice, nei Quaderni del carcere: si studia il latino non per imparare a parlare latino ma per imparare a studiare. Quindi c’è questo elemento, secondo me vitale, dello studio, per esempio delle lingue antiche, in quanto vivisezioniamo la storia linguistica di un’area geografica molto ampia come quella, per esempio, dei parlanti la lingua latina che col tempo è diventata amplissima. Il Nord Africa, la Gallia, parte della Germania, persino della Britannia. Quindi, il motivo vero per cui questa scuola classica merita non solo di sopravvivere ma di essere addirittura arricchita è la sua completezza e la sua storicità.
Vorrei adesso toccare il tema del suo ultimo libro, Tucidide e il colpo di stato: Tucidide è una figura alla quale Lei ha sempre dedicato molta attenzione, anche sulla base appunto di una specifica ipotesi storiografica che adesso riprende nel suo libro. Tucidide era davvero presente ai fatti che narrava?
A rigore lo dice lui stesso, più volte, e quindi gli dobbiamo credere. E poi, in realtà, l’interesse, per me ma per tantissimi altri, verso un autore di quel peso – e anche, se vogliamo, di quella ricchezza di informazioni concrete – nasce dal suo pensiero politico: io so che di solito si parla di lui, giustamente, come del padre della storiografia scientifica cioè di una storiografia non mitizzante, però in realtà egli non si proclama storico: lui è un interprete politico della realtà vivente. Lo dice; dice «questo che io racconto, è un modello che può essere utile a chi farà politica dopo». Non è chiaro a chi stia pensando, forse a generazioni subito successive, non certamente a noi altri. Però il focus è: i meccanismi della politica. Per quello è un autore col quale facciamo i conti continuamente.
La sua riflessione mi fa ricordare il fatto che Tucidide sia citato spesso, ai giorni nostri, in relazione alla famosa trappola di Tucidide, il confronto tra Cina e Stati Uniti come una nuova guerra fredda: di quale utilità può essere la lezione di Tucidide nello scenario attuale?
Secondo me, nessuna! Nessuna perché è fin troppo banale dire che il conflitto di potenza parte da conflitti locali che poi si allargano. Non c’è bisogno di Tucidide, si può leggere Tito Livio che parla della prima guerra punica e il meccanismo è uguale, quindi non è quello. Però nel mondo anglosassone, specialmente americano, che è un po’ selvaggio, hanno una storia più breve della nostra alle spalle e quindi scoprono, talvolta in estasi, delle cose che per noi sono ovvie… passerà, col tempo… e quindi i consiglieri dei presidenti che additano questo rischio del conflitto che si allarga dicono una banalità che, essendo una banalità, è anche vera. Non è che contenga un elemento di falsità: è un’ovvietà. Poi, nel caso della storia della guerra tra Atene e Sparta, le dinamiche furono di un certo tipo e cioè quasi una sorta di inevitabilità del conflitto. Ma senza andare tanto indietro nel tempo – guerre puniche o altro -: Danzica. “Morire per Danzica?” Il famoso articolo pubblicato nella stampa francese per scoraggiare dal procedere a frenare Hitler nella sua ambizione di estendere, di infrangere le clausole della pace di Versailles puntando su un caso limite, quello, appunto, di Danzica. Causa locale, apparentemente delimitata, di un conflitto che si allarga a macchia d’olio nel giro di un anno o due, tra il settembre del ‘39 e il giugno del ‘41, o addirittura il dicembre del ‘41 quando, con Pearl Harbor, entra in scena il Giappone contro gli Stati Uniti; gli Stati Uniti a un certo punto dichiarano guerra anche alla Germania, che è alleata del Giappone, quindi abbiamo un gioco del domino, come nel caso di Atene, Megara, Corinto, Sparta, Siracusa: Atene attacca Siracusa, Sparta aiuta Siracusa quindi si torna a combattere, i satrapi persiani aiutano gli Spartani, gli Ateniesi si trovano in guerra con i satrapi persiani; meccanismo simile. Il problema è: oggi abbiamo, forse, dei freni superiori che – speriamo – ci eviteranno quell’esito che invece nella storia passata si è rivelato quasi inevitabile come un meccanismo obbligato. In questo senso ci istruisce non per la somiglianza, ma per la differenza.
Un’ultima domanda: può dirci qualcosa dei suoi prossimi progetti? A cosa sta lavorando?
Sono alle prese con un lavoro sulla tesi di dottorato di Karl Marx che riguardava Epicuro e Democrito; un lavoro scritto da un uomo di vent’anni, 21 anni, di grande genio e di grandissima cultura classica: un dominio delle fonti greche e latine impressionante. Si sono salvati i quaderni preparatori della tesi, che fu discussa all’Università di Jena, e questi quaderni documentano una familiarità con autori difficili: Plutarco filosofo, non il biografo soltanto, Sesto Empirico, Lucrezio, Seneca, impressionante! E c’è dentro molto da scavare, secondo me, in questa tesi; una sorta di polemica molto rispettosa, talvolta esplicita, nei confronti delle lezioni di Hegel sulla storia della filosofia; che Marx non ha potuto ascoltare perché Hegel è morto nel 1831 e Marx aveva 13 anni in quel momento quindi non andava all’università. Aveva ascoltato allievi di Hegel e aveva soprattutto letto le lezioni messe per iscritto da un grande allievo di Hegel – si chiamava Michelet – lezioni sulla storia della filosofia dove il capitolo riguardante Epicuro, il materialismo antico è molto polemico, molto aspro. Hegel disprezza Epicuro, non filosofo, e Marx si cimenta con questi due autori. Un testo che mi affascina molto. Sono abbastanza avanti in questa ricerca.