
Tale impostazione, tuttavia, è tutto meno che universalmente condivisa nei sistemi democratici contemporanei. Al contrario, essa appare niente di più che una assoluta peculiarità italiana, connessa ad aspetti fondamentalmente socio-culturali. I gruppi di interesse (e, più in generale, il lobbying) sono parte fondamentale di qualunque sistema democratico: principalmente, perché rappresentano un canale di comunicazione ulteriore che i cittadini possono utilizzare per mettersi in contatto con i decisori politici, esprimendo loro richieste, istanze, necessità e impulsi di vario tipo. Il problema della mala-pubblicità di cui (non) gode il termine “lobby” (così come quello “gruppo di interesse”) è, come spesso succede, definitorio. Si pensa che la distinzione tra “lobby” e “non lobby” riguardi la natura dell’interesse rappresentato: ristretto, particolare e specifico nel primo caso, ampio, generale, pubblico nel secondo. E invece non è così: nella letteratura sul lobbying, infatti, anche gli ambientalisti vengono (a ragione) considerati un gruppo di interesse. Così come le associazioni a difesa dei consumatori o quelle animaliste. Altrettanto i gruppi a difesa dei diritti umani, quelli per i diritti civili. E così via.
Se questo è vero, diviene necessario – se non rivedere completamente – per lo meno attenuare in misura cospicua quella stessa connotazione negativa che la stragrande maggioranza dei cittadini è solita attribuire alle lobby. Dirò meglio: la loro funzione rispetto alla qualità democratica non può essere aprioristicamente considerata né positiva, né negativa; al contrario, è naturalmente caratterizzata da una certa dose di ambiguità. Tale ambiguità, tale ruolo spesso contraddittorio, è del resto oggetto di ampio dibattito all’interno della letteratura politologica, non soltanto contemporanea: da un lato, le lobby (tutte le lobby) fungono da contropotere all’azione dei governanti, impedendo così che la loro azione politica risulti del tutto irresponsabile rispetto a parti importanti della società civile; dall’altro, allorquando tale potere diventa tuttavia eccessivo, inseriscono un elemento di distorsione all’interno del circuito democratico-rappresentativo.
L’utilità o, al contrario, la disfunzionalità delle lobby per il corretto funzionamento della democrazia non può dunque essere assunta a prescindere, ma dipende da quali e quante tra loro risultano continuativamente vincenti nel processo decisionale: maggiore il numero di lobby influenti e, soprattutto, più varia la loro natura (gruppi imprenditoriali, sindacati dei lavoratori, gruppi di interesse pubblico, ecc.), maggiore la qualità della democrazia. Al contrario, paesi connotati da un ristretto numero di grandi organizzazioni d’interesse continuativamente vincenti e da un molto più alto numero di gruppi continuativamente perdenti – nel processo decisionale – sono anche quelli in cui il funzionamento democratico è qualitativamente peggiore.
Insomma, che le attività delle lobby migliorino o peggiorino la qualità del processo democratico in un dato paese – e questo è ovviamente vero anche per l’Italia – è questione che va risolta in maniera laica, senza pregiudizi, ed esclusivamente a conclusione di un’analisi empirica che affronti il tema – quanto mai decisivo – dell’equilibrio nella rappresentanza degli interessi contrapposti. È esattamente quello che ho provato a fare in questo libro, che infatti tocca questo aspetto da vari punti di vista: quello della mobilitazione (quali gruppi si mobilitano in relazione a quali processi decisionali e quali no?), dell’accesso alle varie sedi istituzionali (quali gruppi hanno continuativo accesso e quali no?) e dell’influenza sul processo di policy (chi vince e chi perde quando il parlamento è chiamato a legiferare su un determinato tema?).
Qual è stato il ruolo delle lobby nella Prima Repubblica?
Sul ruolo delle lobby nella Prima Repubblica italiana disponiamo di ampia letteratura: sono diversi, infatti, gli studiosi – non soltanto scienziati politici – che hanno affrontato il tema. Oltre cinquanta anni fa, ad esempio, un grande politologo americano – Joseph LaPalombara – definiva il sistema degli interessi italiano come sostanzialmente caratterizzato da dinamiche di “clientela”, con ciò intendendo che le lobby erano in grado di influire sulle burocrazie pubbliche in ragione delle proprie risorse economiche e conoscitive, e di “parentela”, con ciò individuando una relazione di consanguineità politico-ideologica tra un certo numero di gruppi di interesse e alcuni partiti. Più recentemente, altri autori hanno preferito coniare le definizioni di “sistema spartitorio” (è questo il caso di Giuliano Amato) e di “pluralismo oligopolistico”, con ciò sottolineando la frammentazione degli interessi e il prevalere di politiche distributive. A conclusioni similari sono inoltre giunti gli studiosi che hanno analizzato il rapporto tra sistema degli interessi e sistema partitico nella cosiddetta Prima Repubblica: al netto della dipendenza del primo rispetto al secondo, infatti, è piuttosto nota l’immagine di uno Stato il quale, invece di intervenire nell’economia per sostenere l’accumulazione complessiva, viene “occupato” da una serie di interessi privati (non soltanto capitalistici) che si appropriano di risorse e decisioni favorevoli, principalmente grazie all’intermediazione dei partiti politici.
Nel complesso, insomma, tali importanti studi si sono soffermati su pochi ma decisivi aspetti: innanzitutto, il numero delle lobby italiane davvero influenti – nel corso della Prima Repubblica – era assai ridotto. In secondo luogo, anche la natura di quegli stessi gruppi era scarsamente differenziata: soprattutto le associazioni imprenditoriali (Confindustria), le grandi imprese a partecipazione pubblica (Eni, Iri, Enel, ecc.), i sindacati confederali (Cgil, Cisl, Uil) e le principali lobby settoriali (Associazione Bancaria Italiana, Coldiretti, Confagricoltura, ecc.) potevano vantare un ruolo sovraordinato rispetto a tutti gli altri. In terzo ed ultimo luogo, l’influenza che i sopraccitati gruppi riuscivano ad esercitare dipendeva in larghissima parte dal rapporto che essi stessi erano in grado di intessere coi più importanti partiti politici (soprattutto, la Democrazia cristiana e il Partito socialista), veri “custodi” del processo decisionale pubblico.
In altri termini, era proprio il combinarsi di un sistema politico-partitico fortemente frammentato e naturalmente propenso alla produzione di micro-politiche distributive, da una parte, con un sistema degli interessi altrettanto frammentato e subordinato al controllo partitico, dall’altra, a far sì che solo pochi gruppi, e sempre quelli (segnatamente, le lobby collaterali ai principali partiti politici), superassero le relative barriere all’entrata e venissero (più o meno) stabilmente incorporati nel processo di formazione delle decisioni.
Ecco perché – in definitiva – gli analisti che hanno guardato al ruolo dei gruppi di interesse all’interno del sistema politico italiano di Prima Repubblica non hanno potuto fare a meno di evidenziare quanto l’azione delle lobby fosse disfunzionale per la democrazia: l’accesso alle sedi istituzionali era regolato su basi fortemente esclusive, ma l’identità dei gruppi privilegiati non era tale in ragione di una riconosciuta legittimità e rappresentatività rispetto ad un determinato settore della rappresentanza. Al contrario, le lobby a diretto e continuativo accesso erano tali in quanto collaterali ai maggiori partiti politici, a prescindere da quanto fossero legittime e/o rappresentative del proprio settore. Tutto quel che dovevano garantire era una qualche forma di supporto elettorale. E questo, in una società estremamente frammentata e complessa, dava origine a fenomeni di privatizzazione dell’apparato pubblico su basi particolaristiche e spartitorie scarsamente accettabili e, soprattutto, ancor meno funzionali dal punto di vista del benessere collettivo.
Dal punto di vista della qualità democratica, insomma, il sistema degli interessi nazionale rispecchiava fedelmente il più ampio sistema politico nei suoi tratti più disfunzionali: sempre gli stessi attori a spartirsi le quote più rilevanti di potere.
Come si articola il sistema degli interessi italiano?
In maniera non eccessivamente difforme dagli altri sistemi degli interessi dei principali paesi europei. Per quanto concerne la sua “densità”, ovvero la numerosità delle lobby che concretamente lo popolano, l’analisi comparata ci dice che altri paesi – penso al Regno Unito, alla Germania, alla Francia – sono caratterizzati da un numero di gruppi di interesse tendenzialmente superiore. Rispetto invece alla sua “diversità”, e cioè il grado di concentrazione/dispersione delle lobby all’interno di differenti categorie – gruppi imprenditoriali, sindacati, gruppi di interesse pubblico, ecc. – le similitudini con altri casi nazionali sono decisamente maggiori. Soprattutto, una larga parte dell’universo di riferimento – poco meno della metà di tutti i gruppi che ho censito nel mio lavoro – è composta da gruppi di tipo economico: nel dettaglio, gruppi imprenditoriali e professionali. Se a tali gruppi si aggiungono poi i numerosi sindacati dei lavoratori (circa un sesto della popolazione nel 2016), ne deriva che oltre i tre quinti del sistema degli interessi italiano è rappresentato da gruppi – per così dire – “tradizionali”, mentre meno rappresentati sono i cosiddetti “gruppi identitari” (etnici, religiosi, territoriali) e i gruppi di interesse pubblico: ambientalisti, animalisti, associazioni a difesa dei consumatori. In altri termini, lo squilibrio nella rappresentanza – per lo meno a livello di mobilitazione degli interessi presenti all’interno della società italiana – sembrerebbe premiare gli interessi di tipo materiale a discapito di quelli di tipo ideazionale o valoriale.
Tuttavia, tale convinzione viene fortemente attenuata se si comparano i dati del 2016 con quelli di quasi quaranta anni prima, in piena Prima Repubblica. Lo faccio all’interno del secondo capitolo del libro, e l’evidenza empirica che emerge mostra tutta una serie di interessanti trasformazioni. Ciò che più conta, da questo punto di vista, è che il cambiamento va nella direzione di più pluralismo e, quindi, rappresenta un miglioramento per la qualità democratica. Più nello specifico, il sistema degli interessi italiano contemporaneo è infatti molto differente, nelle proprie caratteristiche principali, rispetto a quello del passato: è assai più “denso” – con ciò intendendo che un numero molto maggiore di gruppi è in grado di mobilitarsi e fare lobbying – e, soprattutto, decisamente più “diverso”, nel senso che categorie di gruppi prima sostanzialmente misconosciute (gruppi identitari e di interesse pubblico), oggi rappresentano una parte non disprezzabile dell’intero sistema, a discapito di quelli che erano gli assoluti “dominatori” del precedente assetto: gruppi imprenditoriali e professionali, nonché grandi sindacati dei lavoratori. Entrambe tali dinamiche non sono particolarmente eccezionali se collocate in prospettiva comparata: anche il sistema degli interessi di Unione Europea e Stati Uniti, nonché quello di vari paesi europei, hanno infatti evidenziato un forte incremento nel corso del tempo, per quanto meno pronunciato di quello italiano. Lo stesso dicasi per l’aumento della diversità e, nello specifico, dei gruppi di interesse pubblico, nonché per il ridimensionamento dei sindacati: tutte tendenze assai note nella letteratura internazionale.
Per quanto non peculiarità italiane, quelle mostrate sono comunque ottime notizie se collocate all’interno del discorso più generale, che fin dall’inizio abbiamo affrontato, del contributo – positivo o negativo – che le caratteristiche del sistema degli interessi forniscono alla qualità democratica del nostro paese: il fatto che – nel 2016 – le lobby attive in Italia siano più numerose e, soprattutto, rappresentino una platea di interessi maggiormente differenziata che non negli anni ’70 e ’80, è certamente un bene. All’interno di un quadro sconfortante sotto diversi punti di vista per la qualità della nostra democrazia, credo che questo aspetto dovrebbe essere maggiormente enfatizzato, se non nel dibattito pubblico, per lo meno da chi al sistema degli interessi nazionale dedica la propria attenzione di scienziato sociale.
Come è regolata l’attività di lobbying nel nostro Paese?
È molto poco regolata. Se non del tutto non regolata. Pensi che fino a pochi anni fa, in Italia non esisteva nemmeno alcun registro dei portatori di interesse, a nessun livello. Detto altrimenti, fino a tempi recentissimi, non soltanto non si aveva un’idea precisa di come i gruppi italiani fossero organizzati o si mobilitassero, ma nemmeno si sapeva con certezza i contorni e i confini del sistema degli interessi italiano. Alla domanda “quali sono le lobby italiane?”, insomma, non si poteva rispondere. Sul punto, qualcosa sta (fortunatamente) cambiando, anche se con un ritmo davvero troppo lento. Nel settembre 2016, ad esempio, il Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) ha istituito il proprio “Registro per la Trasparenza”: tale registro riprende, in modo consapevole e mirato, il sistema di incentivi selettivi già sperimentato in sede di Unione Europea con lo “European Parliament Registry”, puntando sull’abbinamento tra registrazione, su base volontaria, e accesso istituzionale, vincolato a quella medesima registrazione. La possibilità di richiedere incontri presso il MISE a ministro, viceministro e sottosegretari (di cui vengono pubblicate bimestralmente le agende pubbliche di incontri), è dunque condizionata alla iscrizione dei portatori di interessi al Registro per la trasparenza. Un esperimento similare era d’altronde già stato condotto qualche anno prima: il Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali (MIPAAF), infatti, si dotò di un proprio registro tra la fine del 2011 e l’inizio del 2012. Infine, anche la Camera dei Deputati, con una decisione del febbraio 2017, ha istituito un “Registro dei rappresentanti di interessi”, all’interno del quale sono chiamati a registrarsi tutti quei soggetti che “svolgono professionalmente attività di rappresentanza di interessi nei confronti dei deputati presso le sedi della Camera”.
Al netto di tali iniziative isolate, però, l’attività di lobbying nel nostro paese ancora aspetta una regolazione sistematica. Pensi che sono state ben una trentina le proposte di legge depositate in parlamento su questa tema, di cui una ventina soltanto negli ultimi venti anni, ma non ve ne è nessuna che non dico sia stata approvata, ma che nemmeno abbia mai raggiunto l’Aula.
Quali sono le più influenti lobby italiane?
Beh, temo proprio che per saperlo bisognerà leggere il libro… Le posso solo dire che i risultati dell’analisi empirica condotta sono piuttosto sorprendenti, e testimoniano la necessità di andare avanti nello studio delle lobby e del lobbying. Ad oggi, si sa ancora troppo poco di come i gruppi di interesse si mobilitano, formano coalizioni di interesse, accedono alle varie sedi istituzionali, incidono sul processo di formazione delle decisioni. Lo studio del lobbying è per sua natura assai difficile e complicato, soprattutto nel nostro paese, in cui il reperimento delle informazioni necessarie è meno agevole che altrove, per varie ragioni; è tuttavia anche estremamente affascinante, e ci può dire molto circa la qualità del processo democratico-rappresentativo nelle moderne democrazie occidentali.