“Lo Stato nell’era di Google. Frontiere e sfide globali” di Lorenzo Casini

Lo Stato nell'era di Google. Frontiere e sfide globali, Lorenzo CasiniProf. Lorenzo Casini, Lei è autore del libro Lo Stato nell’era di Google. Frontiere e sfide globali, edito da Mondadori Università: come cambia lo Stato per effetto, in particolare, della globalizzazione e delle nuove tecnologie?
Globalizzazione e rivoluzione tecnologica hanno condizionato e influenzano enormemente l’organizzazione e il funzionamento dello Stato.

Tuttavia, la globalizzazione non sembra aver indebolito gli Stati. Il loro numero continua ad aumentare. La ricerca della «statalità» è ancora la maggiore ambizione per le comunità politiche che vogliano vedersi riconosciute a livello internazionale (ve ne sono circa 50, come Tibet, Taiwan o Cipro del Nord). Inoltre, di fronte alla crescita di istituzioni, regole e procedure ultrastatali, sono sempre gli Stati ad avere il ruolo più importante. Le riflessioni sulla fine o sul declino dello Stato a causa dell’emergere di “poteri globali” raccontano quindi solo una parte della storia, perché gli Stati, all’interno dei processi di globalizzazione, si indeboliscono e si rafforzano al tempo stesso. E anche nella pandemia in corso abbiamo visto queste ambiguità: da un lato, abbiamo assistito al ritorno degli Stati-nazione padroni dei propri confini; dall’altro lato, ha trovato conferma la necessità di azioni coordinate in sede europea e internazionale, anche per l’uso di app a tutela della nostra salute.

La tecnologia muta le forme di esercizio della stessa sovranità e, in particolare, delle funzioni fondamentali dello Stato. Mi riferisco, per esempio, alla diffusione delle tecniche di democrazia c.d. diretta, e ai loro limiti nel perseguire l’utopia di un popolo legiferante, oppure all’uso di algoritmi da parte dei giudici, o anche alla diffusione crescente di decisioni amministrative automatizzate. In Italia, abbiamo avuto il caso – e le polemiche – degli insegnanti distribuiti sul territorio nazionale sulla base appunto di un algoritmo.

Poi abbiamo gli effetti che la rivoluzione tecnologica produce sui popoli e sui territori. E qui rilevano le problematiche riguardanti la tutela dei diritti fondamentali, le crisi delle frontiere, il rapporto tra tecnologie e informazione e, di conseguenza, tra democrazia e verità. Da questi condizionamenti sembra emergere un modello impostato sulla «sorveglianza», in cui i big data sulle persone, il loro uso e la loro protezione hanno acquisito un ruolo strategico.

Quali sfide si pongono allo Stato democratico ai tempi di Google?
La tecnologia cambia le modalità di legiferare. I giudici e le amministrazioni poggiano sempre più le proprie decisioni su modelli algoritmici. La protezione dei nostri dati personali è divenuta cruciale. Muta il concetto stesso di frontiera. Si è trasformato il modo in cui si forma l’opinione pubblica. In definitiva, ognuno dei tre elementi tradizionalmente identificati come costitutivi dello Stato, ossia popolo, territorio e sovranità, sono condizionati e influenzati dalle tecnologie.

Ma la sfida più difficile è quella delle fake news e della disinformazione. Persino l’incendio di Notre-Dame a Parigi, il 15 aprile 2019, è stato falsamente raccontato on line: in Russia e in Ucraina, diversi post hanno presentato l’evento come provocato dal Presidente francese Macron o anche come un attacco terroristico islamico collegato alla settimana santa. Questi rischi per la democrazia sono stati osservati molte volte in passato, specialmente in prossimità di eventi di «rottura», come fu per le due guerre mondiali: vi hanno dedicato pagine importanti Stefan Zweig e Hannah Arendt, per citare solo alcuni. Facebook, Google e altre grandi società stanno tentando di contrastare la piaga della «disinformazione», specialmente nei periodi elettorali. Ma è abbastanza?

Il fatto è che occorre tempo per consolidare una democrazia. Negli Stati Uniti, in relazione ai quali oggi molti denunciano una “crisi” democratica, ci sono voluti secoli. Lo racconta bene Larry Diamond, il quale ogni anno domanda ai propri studenti «Quando è nata la democrazia negli USA?». Le risposte spaziano dal 1776, con la dichiarazione di indipendenza, al 1789, con l’approvazione della Costituzione, sino al 1865, con l’abolizione della schiavitù, e al 1920, con il riconoscimento del diritto di voto alle donne. Ma la risposta giusta, in realtà, è il 1965, quando con il Voting Rights Act ebbero finalmente fine le discriminazioni razziali negli Stati del Sud: soltanto nel 1968 si ebbero quindi negli Stati Uniti, per la prima volta, elezioni presidenziali «free and fair». E questa ricostruzione trova conferma nelle tensioni sociali ancora presenti negli USA: basti citare la triste vicenda di George Floyd a Minneapolis e le conseguenti reazioni.

In che modo devono cambiare gli strumenti per gestire e contenere i poteri diversi dallo Stato?
I dati e le informazioni personali nel mondo sono oggi per la maggior parte acquisiti, conservati e gestiti da società private che hanno bisogno di queste informazioni per fare profitto, tramite le inserzioni pubblicitarie o altre forme di introito. Il noto scandalo di Cambridge Analytica ha messo in luce i rischi che un cattivo uso di queste informazioni può provocare, in quel caso addirittura condizionando la competizione elettorale per la Presidenza USA.

Quali sono i rimedi adottati contro questi rischi? Quale spazio di intervento rimane per gli Stati? Il dilemma qui riguarda il rapporto tra pubblico e privato. Vi sono già stati in passato interventi dei pubblici poteri per correggere o prevenire possibili storture, inefficienze o pericoli per la tutela dei diritti fondamentali derivanti da regimi regolatori o contesti di matrice esclusivamente privata (sono i casi di sport, agenzie di rating, la stessa internet, per esempio).

Urge perciò disegnare regole internazionali che possano assicurare standard elevati di tutela dei diritti fondamentali, favorire il contrasto alla disinformazione e alle fake news, garantire la protezione dei dati personali nei confronti di tutte le grandi compagnie private che «controllano» la rete. In materia di privacy, per esempio, o anche di difesa contro decisioni automatizzate o contro i c.d. harmful contents, occorrono regole certe e condivise in tutto il globo.

Ecco la sfida più importante che attende lo Stato e gli Stati nel XXI secolo: riprendere il controllo sui big data delle persone, quanto meno in termini di regole globali e di garanzie dei singoli e delle collettività. Non a caso, sono gli stessi operatori a domandarlo, perché hanno compreso la complessità e la rilevanza dei problemi con cui sono oramai costretti a misurarsi: è evidente, per esempio, che non può essere affidata esclusivamente a Facebook o a Google la responsabilità di moderare i contenuti di post o messaggi durante una competizione elettorale. Basta vedere la polemica di fine maggio tra il Presidente Donald Trump e Twitter rispetto ad alcuni suoi tweet non rispettosi delle policy del social network (mentre nulla è stato fatto da Facebook per post di identico contenuto pubblicati da Trump su quest’ultima piattaforma).

Nell’era digitale, le sfide in particolare per la privacy si moltiplicano: andiamo verso uno Stato di sorveglianza?
La protezione dei dati personali è la più immediata delle esigenze alimentate dalla rivoluzione tecnologica. Lo abbiamo visto anche durante questa pandemia. Ma non è l’unico diritto fondamentale la cui tutela può essere messa a rischio dal sempre più diffuso uso di tecnologie da parte dei pubblici poteri.

Innanzitutto, vi sono i rischi legati all’impiego di algoritmi nei processi decisionali. Qui entrano in gioco le più basilari garanzie dei cittadini, conquistate nei secoli, dinanzi a possibili eccessi di potere da parte delle amministrazioni pubbliche: obbligo di motivazione, trasparenza, accesso alle informazioni, diritto di difesa.

Vi è poi la tutela della libera manifestazione del pensiero. Questa subisce limitazioni ogni qualvolta sia messa in atto una qualsiasi forma di «moderazione» dei contenuti da parte degli operatori della rete o dei social media. La moderazione, tuttavia, può essere necessaria sia per assicurare la protezione di altri diritti fondamentali, sia per prevenire o contrastare reati, sia ancora per assicurare una «corretta» formazione dell’opinione pubblica. Questi aspetti riguardano più direttamente il già citato problema del rapporto tra tecnologie e informazione, nonché, in termini più ampi, quello tra democrazia e verità.

La rivoluzione tecnologica produce poi effetti ambigui sulle frontiere e sulla nozione stessa di territorio, soprattutto con riguardo all’ultimo grande limite che oggi frena la realizzazione di uno spazio globale: la libera circolazione delle persone.

Le nuove tecnologie rafforzano gli Stati che intendono sorvegliare e difendere le proprie frontiere, contrastando i fenomeni migratori: passaporti con dati biometrici, droni in volo sui confini, algoritmi per monitorare i flussi di entrata, controlli satellitari, sono solo alcuni esempi. Con l’aumento di muri e steccati si persegue l’illusione che, rafforzando il vincolo che più di ogni altro ancora oggi frena la globalizzazione, gli Stati possano in solitudine difendere la propria sovranità e fare a meno degli altri. Ma, come molti hanno rilevato, si produce qui un altro paradosso: gli Stati sovranisti pretendono che istituzioni internazionali li supportino nell’imporre le proprie decisioni, quindi essi stessi ammettono e riconoscono che, senza l’aiuto di altri poteri, anche ultrastatali, non possono realizzare gli obiettivi che si sono fissati. E, anche in questo caso, la pandemia ci ha ricordato tutti i limiti di approcci o politiche sovraniste che non tengano conto della necessità, dinanzi a problemi globali, di coordinarsi e prendere decisioni in sede internazionale.

Quale futuro, allora, per lo Stato?
Non è facile prevedere dove porteranno questi cambiamenti. Si è parlato spesso di una crisi dello Stato, ma anche di una sua rinascita. La parola Stato continua a identificare la principale forma di regime politico e, sotto questo profilo, non sembra ancora mostrare seri segni di cedimento. È sempre più frequente l’uso di questo termine e del relativo concetto, in modo anacronistico, per ricostruire dinamiche istituzionali od organizzative dell’antichità. La «tirannia» del concetto di Stato, dunque, vige ancora oggi. Inoltre, a fronte dell’incremento del numero di istituzioni internazionali, quello degli Stati non si è ridotto, anzi. Né vanno dimenticate le spinte separatiste divenute sempre più pressanti anche in Europa, con la Catalogna o la Scozia.

Un argomento che merita studio e approfondimento da parte di tutte le scienze sociali riguarda i profondi cambiamenti che la tecnologia ha prodotto anche sul modo di comunicare e sugli enunciati. La scrittura (e in termini più ampi l’alfabetizzazione), che ha tradizionalmente favorito la formazione di istituzioni e organizzazioni politiche dotate di apparati, come lo Stato, è ora sempre più semplificata e guidata da logiche mimetiche dell’enunciato orale: basta vedere la sempre maggiore diffusione di messaggi vocali Whatsapp o delle storie pubblicate su Instagram.

Si assiste, così, alla progressiva riduzione o addirittura alla eliminazione dei diversi livelli di lettura di un testo. Si abbandona l’argomentazione quale principale forma di motivazione delle decisioni. La rivoluzione tecnologica – che incide profondamente sulla scrittura, sulla memoria e sulle modalità di comunicazione e archiviazione – e il «capitalismo di sorveglianza» evocato da Shoshana Zuboff sembrano aver prodotto una nuova lingua, con ambizioni quasi totalitarie: sono queste possibili conseguenze del passaggio «dai fatti ai dati», favorito anche da Facebook e da Google quando ambiscono ad anticipare le nostre decisioni.

Qual è il futuro dello Stato allora? In che modo questo tipo di organizzazione politica è condizionato dalla creazione e dallo sviluppo di un linguaggio frenetico, sincopato, non argomentato?

Il libro traccia alcune ipotesi di lavoro. Ma l’importante è ricordare sempre che, come scriveva Norberto Bobbio, «[n]essuno Stato è solo. Ogni Stato esiste accanto ad altri Stati in una società di Stati. Come le città greche, così gli Stati contemporanei. Ogni forma di convivenza, anche quella senza leggi dello stato di natura, comporta dei limiti nella condotta di ciascuno dei conviventi».

Lorenzo Casini (1976) è professore ordinario di diritto amministrativo nella Scuola IMT Alti studi di Lucca, dove insegna Law and Cultural Heritage e Global Law. Co-Presidente della International Society of Public Law (ICON-S), dal settembre 2019 è capo di Gabinetto del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo (MIBACT).

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