
Ma il fascismo non operò solo nei riguardi dei nuovi strumenti dello spettacolo che si svilupparono nel periodo tra le due guerre. Fu abile anche nel riconvertire, a suo vantaggio, strumenti tradizionali come le feste folcloristiche della tradizione italiana, come la Piedigrotta partenopea o la Festa de noantri romana che vennero organizzate e “disciplinate” sotto l’egida dell’Opera Nazionale Dopolavoro diretta da Achille Starace. Il Dopolavoro assorbì la quasi totalità del teatro minore di carattere regionale che era allora molto diffuso nell’ampia provincia italiana. Anche il dialetto, avversato per motivi ideologici, venne tollerato quando serviva per propagandare i “valori” e i modelli del regime. In questo settore molti volenterosi autori, di scarsa qualità ma di provata fede fascista, si esercitarono nel diffondere le parole d’ordine provenienti dai vertici politici e culturali (leggi Minculpop). Il regime, sotto la spinta di un personaggio come Giovacchino Forzano, creò una sorta di teatro viaggiante, I Carri di Tespi, che si incaricò di portare in giro per il paese, a beneficio di un pubblico popolare, un vasto repertorio del teatro tradizionale. Anche quando le opere rappresentare erano neutre, nel senso che non avevano intenti propagandistici, questo tipo di iniziative, ampiamente pubblicizzate dagli organi di stampa, avevano un grande impatto nel dimostrare che lo slogan di Mussolini di “andare verso il popolo” era un atto concreto.
In conclusione: il regime – è un aspetto che spesso la storiografia politica ha trascurato – fu un abile organizzatore di un vasto movimento, a metà tra spettacolo e propaganda, che riuscì a raggiungere milioni di italiani delle classi popolari. Naturalmente tutto questo fu un successo per quanto riguarda l’aspetto organizzativo e propagandistico. Tutt’altro discorso si dovrebbe fare per la qualità o addirittura il livello artistico delle opere che non raggiunsero mai risultati di rilievo.
Come operava la censura teatrale?
La censura teatrale esisteva in Italia già prima dell’epoca fascista e aveva una lunga e consolidata tradizione. Era demandata ai prefetti del Regno che avevano il compito di vagliare tutti i copioni delle opere che le varie compagnie intendevano rappresentare nei teatri delle diverse città italiane. Era quindi decentrata e non centralizzata, come quella cinematografica che invece fu istituita in Italia nel 1913 e rispondeva ad un Ufficio Unico. La censura teatrale, per la sua stessa struttura, creava non pochi problemi al teatro italiano che si basava su in sistema di compagnie di giro che tenevano spettacoli nei i teatri delle maggiori città e della provincia. Il prefetto di una data città, o piazza teatrale, poteva consentire uno spettacolo, mentre quello della città vicina, poteva vietarlo in tutto o in parte. Questo sistema lasciava nell’incertezza i capocomici quando dovevano far fronte ad un divieto improvviso sostituendo il testo vietato con uno di riserva o con altri accorgimenti. A volte alcuni attori, che godevano del favore del duce, si rivolgevano direttamente a Mussolini per avere un permesso (o favori di altro genere) scavalcando così il normale vaglio del prefetto. Da parte sua il duce si regolava secondo un suo criterio personale e, come un principe rinascimentale, spesso concedeva lui un permesso che naturalmente era insindacabile. Ciò poteva creare grossi problemi, come nel caso della rappresentazione di un’opera che, per qualsiasi motivo, poteva dar adito a strascichi e polemiche. Per questo motivo, oltre che per una razionalizzazione che si ebbe negli Anni Trenta, la censura decentrata dei prefetti fu uniformata a quella cinematografica nel ’31 con l’istituzione di un Ufficio Unico presso il Ministero degli Interni (poi inglobato nel Ministero per la Cultura Popolare). L’Ufficio Unico venne affidato ad un viceprefetto, Leopoldo Zurlo, proveniente, come molti suoi colleghi, dalle fila dell’amministrazione giolittiana, che dal ’31 al ’43 vagliò la bellezza di oltre 18.000 copioni (dal teatro drammatico a quelli di riviste musicali, dalle opere del settore primario a quelle popolari ecc.). Zurlo fu un funzionario di grande cultura e di straordinaria abilità che svolse il suo compito con perizia e garbo tanto da raggiungere due risultati notevoli. Fu in carica per un periodo lunghissimo senza venir sostituito (come accadeva di frequente ai responsabili di altri uffici ministeriali sostituiti con facilità secondo i desideri del duce) e soprattutto riuscì a far digerire ai richiedenti la sua funzione di “cerbero” divenendo una sorta di tramite tra autori e potere. Si proponeva nelle vesti di amico dei richiedenti (autori, capocomici o impresari) in grado di far passare opere che, senza i suoi paterni “consigli”, mai avrebbero ottenuto il permesso. Il suo operato rispondeva ad un abile criterio di politica censoria in grado di indurre gli stessi autori ad adeguarsi a quelle che erano le linee della politica culturale del regime. Nei confronti dei richiedenti appariva come una persona comprensiva che li aiutava a destreggiarsi tra i molti ostacoli che gli autori dovevano superare per vedere le loro opere rappresentate sulle scene. Col tempo, il costume di “consigliare” portò, nella stragrande maggioranza dei casi, ad un adeguamento automatico degli autori che a volte chiedevano lumi al censore anche in via preventiva. Sembra un paradosso, ma, nella memorialistica e nelle testimonianze successive al fascismo, non si trova un solo autore che non abbia considerato Zurlo come un amico del teatro e degli stessi richiedenti, dispensatore di permessi che la legge (volutamente generica e passibile di mille interpretazioni) difficilmente avrebbe consentito. Nel duello del gatto col topo, che si instaura in ogni circostanza del genere, è il potere che stabilisce le regole del gioco e ottiene i risultati voluti, a dispetto di quanto gli stessi autori ritengono di aver conseguito. Di fatto, molte delle opere che circolavano sulle scene avevano un co-autore in più di quelli regolarmente riportati in cartellone: il censore Leopoldo Zurlo.
Quali cambiamenti comportò il passaggio, tra gli Anni Venti e gli Anni Trenta, dalla pratica della repressione e dell’improvvisazione a quella del consenso e del coinvolgimento?
Il fascismo fu un prodotto originale della storia politica italiana che divenne poi il modello di altre esperienze del genere che fecero tesoro delle sue realizzazioni. Ma ebbe un periodo abbastanza lungo di adattamento anche nel campo dello spettacolo. Per anni dovette destreggiarsi tra la spinta innovatrice che molti intellettuali vedevano nel nuovo corso della politica anche in campo culturale. Mussolini fu inondato da proposte di tanti uomini dello spettacolo che vedevano in lui il possibile innovatore di vecchie e consolidate consorterie. E il duce nei primi anni, influenzato dalle idee di una donna a cui era molto legato, come Margherita Sarfatti, si regolava secondo le tendenze del momento e le simpatie personali. Il passaggio da questa fase “movimentista” (secondo una definizione di Renzo De Felice) a quella “istituzionale” degli anni del fascismo maturo, si ebbe all’inizio degli Anni Trenta quando il regime prese nelle sue mani tutto il settore della comunicazione, dello spettacolo e della formazione dello spirito pubblico con l’istituzione di Direzioni Generali, come quella del Teatro, affidata a Nicola De Pirro, che perseguiva un indirizzo culturale in linea con gli intenti ideologici dei vertici. La censura teatrale fu quindi incardinata in questa istituzione. Zurlo revisionava le opere. De Pirro stabiliva l’andamento “politico” del movimento teatrale entrando nel merito della composizione delle compagnie, di quanti autori stranieri fossero consentiti in una stagione, a chi dovessero essere destinate le “sovvenzioni” e tante altre cose. È impressionante il numero delle iniziative che vennero abbondantemente sovvenzionate, naturalmente se si adeguavano ai desiderata dei vertici, diventando uno strumento di cattura del consenso e di coinvolgimento per gli intellettuali (è stato calcolato in oltre 900 il numero dei destinatari di sovvenzioni). Chi non si uniformava, non solo veniva escluso dalle sovvenzioni, ma finiva per essere escluso da ogni forma di lavoro intellettuale. Si venne così a creare un sistema incrociato di controllo e promozione che lasciava pochi margini all’autonomia individuale, alla sperimentazione e alla creatività dei singoli autori. In poche parole, il fascismo mise in opera un sistema del bastone (censura) e della carota (sovvenzioni) che uniformò, istituzionalizzò e rese docile tutto il settore dello spettacolo secondo un criterio di direzione politica della cultura. Ottenne ciò che più gli stava a cuore: acquiescenza, autocensura, conformismo, compromissione, adulazione a cui fu ridotto lo spettacolo italiano alla fine degli Anni Trenta. Singoli casi di autonomia intellettuale – pochi in verità – valgono per quello che sono: splendide testimonianze individuali.
Quali caratteristiche aveva il “cinema fascista”?
Il cinema del periodo fascista fu parte di questo sistema di controllo e coinvolgimento. Dopo la Grande Guerra il cinema italiano, che era stato uno dei primi al mondo, andò incontro ad un grave declino e il mercato di casa nostra fu invaso dai prodotti del cinema americano che si avviavano alla conquista del mondo. Mussolini non si preoccupò di tutto ciò sia perché riteneva il teatro il settore più importante e in grado, tra l’altro, di veder nascere un grande poeta drammatico che avrebbe illustrato la nuova era inaugurata dal fascismo, sia perché considerava l’italiano medio immune dall’influenza del cinema americano. L’una e l’altra previsione si rivelarono errate. Il teatro non espresse il grande poeta politico, né – per la verità – nemmeno un onesto cantore delle gesta del regime. Le opere che furono rappresentata ebbero scarso successo e alcune furono addirittura controproducenti.
Agli inizi degli Anni Trenta il cinema, come gli altri settori della cultura, fu oggetto di un interesse che doveva portare alla sua “rinascita” e alla sua affermazione in grado, addirittura, di far concorrenza ai prodotti americani. Si misero in essere iniziative anche di grande importanza, come la istituzione della Mostra del Cinema di Venezia, il Centro Sperimentale di Cinematografia, la costruzione degli studi di Cinecittà. E, rispetto al teatro, si realizzarono anche alcuni film che, in qualche caso, si rivelarono di buon livello. Vecchia guardia e 1860 di Blasetti, Cavalleria e Luciano Serra pilota di Alessandrini, Scarpe al sole di Elter e perfino un curioso film di Mario Camerini Il grande appello, sulla guerra d’Africa, e pochi altri che raggiunsero risultati migliori delle opere teatrali dello stesso genere.
Ma il cinema fascista non diede i risultati sperati per vari motivi. Intanto non si riuscì a realizzare un numero consistente di opere ideologicamente orientate (non più del 5%), vuoi per una certa riluttanza degli autori, vuoi per il disinteresse del pubblico maggiormente attratto dalle opere di altri generi o addirittura dai divi del cinema hollywoodiano. Ma soprattutto per un equivoco di fondo che costringeva gli autori ad essere esposti alle critiche degli organi di stampa più oltranzisti che sparavano ad alzo zero contro qualsiasi soluzione narrativa che non disegnava i personaggi come eroi granitici dell’ideologia fascista. Blasetti fu uno dei registi che, nonostante i buoni risultati raggiunti, fu sotto gli strali di questi apologeti della critica incapaci di capire che, anche per fare onesta propaganda, era necessario non mettere su un piedistallo marmoreo il protagonista di un film narrativo. Gli americani, non a caso, si regolavano in modo diverso e quando, durante la guerra, produssero opere di “propaganda” adoperando diversi e più abili schemi narrativi.
Ma soprattutto il regime fallì il suo esperimento più importante quando promosse, con una enorme grancassa pubblicitaria, il film più costoso e propagandato del periodo realizzando Scipione l’africano diretto da Carmine Gallone, con cui si proponeva di “celebrare” la conquista di un Impero e, contemporaneamente, di far concorrenza al prodotto americano. Il film era la maggiore metaforizzazione di Mussolini (il nuovo Scipione) e del fascismo paragonato alle glorie della Roma antica. Più che un normale film di finzione, Scipione l’africano fu un “manifesto” del regime con una sommatoria di simboli, personaggi e “valori” che dovevano illustrare il presente ed esaltare la figura del duce. Perfino le scenografie dell’epoca furono sovradimenzionate per disegnare i caratteri di una grandezza che doveva illuminare la Roma di Mussolini. Il film non solo non conquistò i mercati esteri, ma finì per avere meno incassi di un normale film in costume dell’epoca, come Giuseppe Verdi del solito Gallone. Fu un grave smacco per i teorici del regime che vedevano avere più successo, in Italia e all’estero, i tanti film del melodramma italiano, con la capacità evocativa della musica lirica, che non i film dei “condottieri”, come nel caso di Scipione. Beniamino Gigli, col suo fisico corpulento e poco marziale, e gli altri tenori della lirica di casa nostra, vincevano sulla gloria degli Scipioni a cavallo (e di Mussolini, a cavallo o meno). Nel mio libro si riportano le critiche che, su una rivista fascista, un giovane poeta come Alfonso Gatto, coraggiosamente muoveva in questi termini al filone ideologico del cinema italiano, mentre esaltava i migliori prodotti del cinema USA che fino al ’38 erano l’80% dei film che si proiettavano sugli schermi del nostro paese (altro paradosso dello spettacolo durante il fascismo). Dopo il ’38, con il “contingentamento”, furono fortemente limitati i prodotti d’oltreoceano col risultato di lasciare il pubblico italiano privo di un immaginario affascinante a cui ormai era abituato. I prodotti autarchici non riuscirono a colmare questa lacuna, anzi fecero aumentare negli spettatori il desiderio dei nuovi orizzonti intravisti nelle opere straniere.
La figura di Roberto Bracco è emblematica di cosa comportasse l’autonomia intellettuale coraggiosamente perseguita dai pochi artisti non asserviti alle logiche di regime.
Roberto Bracco era all’inizio degli Anni Venti un autore di lunga e stimata carriera, apprezzato in Italia e all’estero e perfino proposto per il premio Nobel. Ebbe però la cattiva idea di schierarsi contro il nascente fascismo e presentarsi come candidato della lista di Opposizione Costituzionale capeggiata da Giovanni Amendola nelle elezioni del ’24. Non solo. Ma fu uno dei pochi che, anche dopo l’affermazione del regime, non ricorse a una delle tante vie traverse (leggi “atto di omaggio” al duce o al fascismo) con cui tanta parte della cultura italiana fece dimenticare qualche avversione al fascismo nei propri trascorsi. Il risultato fu che Bracco si vide escluso da tutti i settori in cui prestava la propria opera: teatro, cinema, riviste, editoria e perfino avversato nella conquista del Nobel che venne dirottato nel ‘26, in seguito a pressioni del governo italiano, verso Grazia Deledda (fu, a detta di testimoni dell’epoca, la prima volta che il governo di un paese si adoperava contro e non in favore dell’assegnazione ad un connazionale).
Dopo alcuni anni di silenzio, Bracco venne ripresentato sulla scena da un’attrice, Emma Gramatica, sua vecchia amica (e, in anni lontani, fiamma amorosa), che, contemporaneamente, era una fervente “italiana”, ammirata dallo stesso Mussolini. Per ottenere il consenso all’ultima commedia di Bracco, I pazzi, pubblicata nel ‘22 ma scritta addirittura nel ‘17, la Gramatica aveva dovuto far ricorso ad uno speciale permesso del duce. L’opera debuttò a Napoli nel ‘29 ed ebbe uno straordinario successo di pubblico, tributato da una platea entusiasta, composta, in buona parte, da esponenti del fascismo locale accorsi per salutare un vecchio e stimato commediografo che ritornava alle scene dopo un lungo silenzio. Per un breve momento sembrò possibile la libera circolazione di un’opera di un autore non ortodosso e che la magia del teatro consentisse di superare gli ostacoli che la politica sembrava imporre al mondo della cultura. Sfortunatamente per Bracco, la manifestazione di simpatia fu giudicata, dagli informatori della polizia e dagli esponenti dell’ala più radicale del regime, come manifestazione di “antifascismo intellettuale”. In teatro si trovavano molti rappresentanti del vecchio mondo liberale, compresi alcuni esponenti del circolo crociano, che salutavano il ritorno dell’autore alle scene e contribuirono al successo del debutto partenopeo. Questa circostanza determinò il sabotaggio, avvenuto pochi giorni dopo, in un teatro della capitale. I pazzi venne interrotto da una vera e propria azione squadristica che si rivolse non solo contro i sostenitori di Bracco, ma investì gli attori, bersagliati da lanci di monetine ed oggetti vari, provocò l’intervento della forza pubblica, devastò il teatro e sollevò un’enorme impressione nel mondo della cultura La vicenda de I pazzi, le sue due rappresentazioni e la successiva esclusione dai teatri, dimostrava l’impreparazione dei vertici del regime nel decidere, alla fine degli Anni Venti, un chiaro indirizzo in un settore così ricco di ripercussioni. Mussolini non ritenne di intervenire per modificare il corso degli avvenimenti. La forzatura degli ambienti più radicali del fascismo romano aveva trasformato una vicenda, iniziata come una delle tante novità di una stagione teatrale, in un vero e proprio monito rivolto al mondo della scena perché si conformasse ad un costume in cui le implicazioni politiche erano ritenute prevalenti su quelle artistiche. Prima di allora non era mai avvenuto che un’opera teatrale venisse tolta dalla circolazione perché le idee dell’autore non erano in linea con le idee del potere. I pazzi non avevano contenuti politici ed erano stati scritti prima del fascismo. Dopo di allora le cose cambiarono. Probabilmente proprio l’episodio della gazzarra in un teatro romano contribuì all’istituzione di un sistema centralizzato di censura preventiva che doveva impedire che le estemporanee decisioni di Mussolini, in seguito a personali richieste di qualche attore vicino al regime, potessero creare conseguenze così contraddittorie come era avvenuto nella vicenda de I pazzi. Bracco fu uno dei pochi (e forse l’unico) che non cercò, né accettò alcun tipo di compromesso, né ricorse ad uno dei preziosi “consigli” di Zurlo per schivare le censure. Fu anche l’unico, tra i tanti che ottennero la famosa “sovvenzione”, a restituire la somma di danaro che, a sua insaputa, Emma Gramatica aveva richiesto per lui al Ministero per la Cultura Popolare. Impiegò più di due anni a far pervenire l’assegno al ministero, solo perché non era mai avvenuto, né avverrà in seguito, che un beneficiato restituisse l’elargizione. Il caso Bracco, che si prolungò fino al ’43, data di morte del vecchio autore intransigente, fu il classico sassolino che inceppò o – meglio imbarazzò – un ben oliato sistema di controllo e addomesticamento del mondo della cultura da parte di un regime che vantava tra i suoi meriti la promozione dell’arte e degli intellettuali italiani.
In margine al tema della censura è il caso di accennare soltanto a due altri temi che sono connessi al rapporto tra potere e cultura.
Il primo è la questione della continuità amministrativa tra l’epoca giolittiana e quella fascista in cui i membri dell’amministrazione, di vertice e di base, non trovarono ostacoli insormontabili a transitare dalla democrazia alla dittatura (Zurlo si è sempre vantato, anche in seguito, di aver fatto rispettare una legge che non stava a lui giudicare). Non solo. Ma è importante e spesso trascurato anche il tema della continuità tra fascismo e democrazia repubblicana che, specie in questo settore, vide una sostanziale continuità almeno fino agli inizi degli Anni Sessanta. Si pensi che gran parte del personale amministrativo rimase saldamente all’interno degli uffici ministeriali che si occupavano di spettacolo e cultura (non Zurlo, ma solo per limiti d’età). Un solo esempio: l’avvocato Nicola De Pirro, a capo della Direzione Generale del Teatro negli Anni Trenta, divenne in epoca repubblicana il responsabile di tutto il settore dello spettacolo fino agli inizi degli Anni Sessanta. La lunga lista dei soggetti cinematografici di autori progressisti, abortiti per le censure ministeriali nel periodo neorealista e anche dopo, è ancora tutta da scrivere. Francesco Rosi, mi disse una volta che, per far passare il suo film Salvatore Giuliano dovette “contrattare” al ministero con De Pirro quante scariche di mitra si sentivano nel finale del suo film…
Pasquale Iaccio insegna Storia del Cinema e Documentario italiano all’Università di Salerno. Tra le opere: L’intellettuale intransigente. Il fascismo e Roberto Bracco (Guida, 1992); Cinema e Storia. Percorsi e immagini (Liguori, 1998); Bronte. Cronaca di un massacro (Liguori, 2002); Non solo Scipione. Il cinema di Carmine Gallone (Liguori, 2003); L’alba del cinema in Campania (Liguori, 2010); Napoli d’altri tempi (Liguori, 2014); Pionieri del cinema napoletano (con Cozzi Scarpetta), Liguori, 2016; “La Villeggiatura” di Marco Leto. Un film sul confino fascista (Liguori, 2018).