
Detto questo, il teatro di Aristofane ha una peculiarità che ce lo rende molto interessante. Un grande studioso di commedia antica, Kenneth Dover, diceva che se intendiamo per ‘allegoria’ la personificazione di qualità, situazioni e azioni, allora Aristofane è un autore massimamente allegorico. Aveva ragione: la qualità che più di tutte illumina le commedie di Aristofane è la capacità di dare una sostanza teatrale a situazioni e concetti astratti, cioè la capacità di trasformarli in azioni, azioni simboliche. In questo Aristofane è in buona compagnia: Eschilo, Shakespeare, Čechov, Brecht – tutti i maggiori autori della tradizione teatrale europea sono autori ‘allegorici’, usano cioè il teatro per rappresentare, cioè per trasformare in azioni simboliche, considerazioni e relazioni. Pensiamo ai tappeti rossi su cui cammina Agamennone per entrare nel palazzo dove sarà ucciso, una rappresentazione perfetta del suo percorso verso la morte; o alla progressiva riduzione, fino a zero, della scorta di Lear nella tragedia di Shakespeare, che dà consistenza persino numerica al processo, altrimenti solo concettuale, di annichilimento del vecchio re e del suo potere a opera delle figlie; o, ancora, alla casa di campagna delle Tre sorelle di Čechov, che simboleggia l’incapacità delle protagoniste di muovere in avanti la propria vita, o alla tabaccheria sovraffollata di Shen-Te nell’Anima buona di Brecht, una rappresentazione plastica dei limiti – anche fisici – della condivisione. Aristofane si colloca proprio in questo gruppo, e fa dello spazio (non tanto e non solo lo spazio scenico, quello in cui lo spettacolo va fisicamente in scena, ma anche e soprattutto dello spazio ‘narrato’ dal testo) uno strumento della sua allegoria teatrale. Lo spazio, insomma, non è soltanto un costituente fondamentale, senza il quale non si potrebbe fisicamente fare teatro, ma è anche uno strumento decisivo di ‘significazione’, cioè uno strumento imprescindibile con cui l’autore comunica con il suo pubblico. Un esempio classico è il Pensatoio delle Nuvole, la strana scuola in cui Socrate e i suoi sofisti vivono e ricercano insieme: noi sappiamo con certezza che non esisteva una scuola simile nell’Atene dell’epoca, e anzi che Socrate non amava insegnare in luoghi esclusivi. Perché allora Aristofane costruisce il Pensatoio? Il Pensatoio è una delle allegorie teatrali di cui stiamo parlando: è una rappresentazione teatrale (che assume cioè forza fisica e drammatica) della cultura, e del suo uso esclusivo, o monopolistico. Ad Aristofane non basa dire che quella di Socrate è una cultura d’élite; lo deve mostrare – lo deve persino agire –, e lo fa costruendo uno spazio impenetrabile, diviso dal resto del mondo.
Se capiamo questa capacità ‘allegorica’, capiamo anche meglio come interpretare il teatro di Aristofane. Il fatto che si tratti di commedie non deve ingannarci: il teatro di Aristofane fa ridere, certamente, ma non si esaurisce nella risata, anzi. E non si esaurisce nemmeno nell’attualità ateniese, che certo è trattata ampiamente e dà spesso il movente all’azione o a parte di essa. Il teatro di Aristofane è molto più profondo e ambizioso di così. Al fondo delle undici commedie che noi possediamo (il corpus teatrale più cospicuo dell’antichità dopo quello di Euripide), troviamo spesso una relazione problematica fra un individuo – il protagonista – e un altro individuo, o la sua comunità. Il protagonista di Aristofane – quello che di solito si chiama l’‘eroe comico’– è un emarginato, è letteralmente ai margini della propria comunità di riferimento: questo fa dello scontro fra l’identità dell’eroe e l’identità dei suoi antagonisti anche, e soprattutto, uno scontro di potere. Aristofane è lucidissimo nel descrivere i rapporti interpersonali come rapporti di forza, che prevedono quindi che una delle due parti domini e l’altra sia soggiogata. La trama delle commedie consiste nel tentativo dell’eroe o dell’eroina di rovesciare questo rapporto di potere a proprio vantaggio: ci riuscirà con mezzi spesso fantastici – voli in altre dimensioni, scioperi del sesso, ringiovanimenti e risurrezioni –, e avrà finalmente imposto le proprie istanze, le istanze della propria individualità.
La drammaturgia di Aristofane, cioè le strategie teatrali con cui l’autore porta in scena questo grande nucleo narrativo, asseconda e rappresenta questa battaglia di potere: se i rapporti fra i personaggi sono rapporti di potere, questi rapporti sono messi in scena, rappresentati, attraverso azioni nello spazio. È di questo che mi occupo in questo libro: capire quale drammaturgia costruisce Aristofane per il suo teatro di poteri, e quale ruolo ha lo spazio in questa costruzione.
Quale gestione fa Aristofane dello spazio scenico?
Questo è un aspetto che può risultare sorprendente. Siamo da sempre abituati a pensare al teatro di Aristofane come un teatro caotico, in cui l’andirivieni esasperato di un numero molto alto di personaggi, props e servi di scena confonde spettatori e lettori. Di certo, la commedia di Aristofane tollera un grado di confusione scenica più elevata della tragedia, e possiamo dire che in diversi punti è proprio la confusione a generare la risata. Ma questo non deve distrarci da un rigore drammaturgico di fondo, che il teatro di Aristofane mostra con consistenza e costanza.
Se osserviamo con attenzione, infatti, possiamo vedere che Aristofane organizza l’azione del suo teatro in modi non troppo diversi da quelli della tragedia contemporanea, spesso lodata dagli interpreti proprio per il suo rigore drammaturgico. Poiché deve rappresentare uno scontro fra due forze opposte, Aristofane sfrutta l’opposizione fra spazi opposti: il dentro e il fuori, l’alto e il basso. Si tratta di due opposizioni quasi ovvie per la tragedia: pensiamo alla scena di Cassandra nell’Agamennone di Eschilo, tutta impostata sulla tremenda dialettica fra l’esterno della reggia, dove si trova Cassandra, e l’interno del palazzo, dove avviene l’omicidio; oppure al famoso deus ex machina, che arriva dall’alto (e spesso recita in una posizione sopraelevata) per risolvere, con il suo potere superiore, le questioni dei mortali. Aristofane non è da meno, e sfrutta questa stessa ‘sintassi’ drammaturgica: la gran parte delle commedie che noi possediamo si giocano attorno a un limite, un confine – fra uno spazio interno e uno spazio esterno, o fra una posizione sopraelevata e una posizione di inferiorità. Proprio l’azione attorno al limite si carica di quel valore ‘allegorico’ di cui parlavamo prima, e il tentativo di invadere (o difendere) uno spazio diventa il simbolo scenico, teatrale, del dispositivo della lottà fra identità e poteri contrapposti. Naturalmente, anche se la sintassi teatrale della commedia di Aristofane è la stessa di molte tragedie, il valore semiotico – cioè il significato che noi attribuiamo a questa sintassi – cambia radicalmente, e noi dobbiamo interpretarlo.
Quale interpretazione in chiave semiotica della creazione, diegetica e mimetica, dello spazio in cui si muove l’azione teatrale offre il Suo studio?
Prendiamo l’opposizione fra dentro e fuori, la più tipica del teatro di Aristofane: siccome l’eroe è un emarginato, è messo fisicamente ai margini; cioè, ci sono diritti, beni, privilegi che gli sono preclusi. Pensiamo al contadino Strepsiade nelle Nuvole: da ignorante, Strepsiade vuole poter entrare nel Pensatoio di Socrate; ma non gli è concesso di entrare. Fuor di allegoria, l’impossibilità di entrare in uno spazio rappresenta quindi l’esclusione da un bene o da un diritto, che l’eroe subisce. Il suo obiettivo sarà quindi quello di rovesciare questa situazione, arrivando al possesso, esclusivo, di un bene ancora più desiderabile, che potrà così negare a chi prima lo emarginava. Negli Acarnesi, per esempio, Diceopoli secede dalla città, che ha bocciato all’unanimità la sua proposta di una pace con Sparta, e stipula un trattato di pace separato con gli spartani: questo gli garantirà una ricchezza infinita, che Diceopoli, vendicandosi, non spartirà con nessun concittadino. Diceopoli, insomma, ha rovesciato il suo stato iniziale di emarginato, e ora fa subire la sua emarginazione agli altri. Questo disegno è rappresentato in teatro proprio dall’opposizione fra spazi: Diceopoli si rinchiude in casa sua, la rappresentazione del suo monopolio, di tutto ciò che è suo e che non vuole condividere; gli faranno visita moltissimi scocciatori, con la richiesta di condividere una parte della sua ricchezza, ma la risposta sarà invariabilmente una cacciata di casa. Non poter entrare significa non avere il diritto alla condivisione; barricarsi in casa significa, d’altro canto, costruire un monopolio, cioè un possesso strettamente esclusivo. La drammaturgia è dunque un’allegoria dei rapporti di forza: i movimenti nello spazio, e le opposizioni spaziali, non sono altro che la rappresentazione teatrale di uno scontro, astratto, fra individui e istanze.
Questo meccanismo così geometrico – nella trama e nella drammaturgia – è la grande forza del teatro di Aristofane, che si fonda proprio su opposizioni discrete: il mondo di Aristofane è un mondo di contrasti, di interessi sempre in conflitto. Non esiste possibilità di conciliazione: poiché il desiderio dell’eroe è totalizzante, soltanto una soddisfazione totale delle istanze dell’individuo potrà bastare. In questo ci sono fantasia e comicità, certo: ma anche una delle analisi più intelligenti e spietate dei funzionamenti fondamentali del nostro essere uomini.
Francesco Morosi è assegnista di ricerca in Letteratura greca all’Università di Pisa. Si è formato alla Scuola Normale Superiore (dove è stato anche responsabile per la divulgazione), all’Università di Pisa e all’Università della California a Berkeley. Il suo principale campo di indagine è il teatro classico, anche nei suoi rapporti, storici ed ermeneutici, con la storia del teatro successiva.