
L’utilizzo, spesso retorico e superficiale, di questi slogan nasconde però un dilemma geopolitico che caratterizza il paese sin dalla sua nascita. Da un lato infatti, l’Italia si configura come un paese che sceglie volontariamente di aderire al sistema che include quei paesi che, nel panorama internazionale, risultano più avanzati e in linea con il sistema di valori e politiche nel quale l’Italia crede. All’interno di questo quadro concettuale si colloca l’intera politica cavouriana, volta ad “agganciare” l’Italia a Francia e Gran Bretagna, quelle che nella seconda metà dell’Ottocento erano le potenze più avanzate sia sotto il profilo dello sviluppo socioeconomico ma anche delle istituzioni liberal-democratiche. Questa impostazione, lungi dal limitarsi al momento iniziale della storia dell’Italia unita, ha ispirato altri momenti di transizione, in particolare il secondo dopoguerra e il periodo successivo alla fine del bipolarismo. In tutti questi casi la scelta di ancorare il paese a un determinato sistema di regole e alleanze è stata dettata dalla convinzione della classe dirigente dell’utilità (e in alcuni casi della necessità) di creare una cinghia di trasmissione con paesi virtuosi oltre che utili a garantire la sicurezza e l’integrazione internazionale dell’Italia.
Accanto a questa opzione che potremmo definire come “non-geopolitica”, in quanto non prevede direttrici di sviluppo del paese verso l’esterno, si affianca però la rivendicazione di un ruolo del paese sulla scena internazionale. Qui prendono corpo le due coordinate di cui si è detto in apertura. Il discorso Nord-Sud è stato declinato in diversi modi: in termini coloniali fino alla caduta del fascismo e poi in termini di soft power, cioè di penetrazione e influenza economica. Oggi dialogare con il Sud del Mediterraneo e potenzialmente del mondo vuol dire sia agire come stabilizzatore di crisi ma anche come promotore della cooperazione allo sviluppo e del dialogo culturale. L’idea del ponte tra Est ed Ovest ha avuto maggiore circolazione negli anni del confronto bipolare, ma anche nel contesto odierno vi è un filone di pensiero che sostiene il ruolo dell’Italia come punto di contatto tra l’Occidente e la Russia.
La vera questione del ruolo geopolitico dell’Italia sta nella coerenza tra queste proiezioni nelle regioni circostanti (i Balcani, il Mediterraneo fino all’Africa) e le altre direttrici della sua politica estera. Negli anni della guerra fredda non sono mancate le contraddizioni, soprattutto quando la proiezione verso il Sud e l’Ovest ha assunto valore alternativo o di fuga rispetto al sistema di alleanze principale. In quei momenti l’affermazione del ruolo geopolitico dell’Italia ha assunto un valore di neo-nazionalismo più o meno esplicito e il tentativo di perseguire una politica estera più autonoma e indipendente ha avuto, come effetto collaterale, l’aumento dell’isolamento dell’Italia e l’emergere, nelle cancellerie alleate, di dubbi circa la coerenza della posizione italiana.
L’auspicio è che questa tensione geopolitica possa trovare, se non una soluzione, quanto meno un’attenuazione. Si può infatti sostenere che il perseguimento di un disegno geopolitico debba avvenire in modo integrato rispetto al sistema di alleanze che il paese ha scelto. Questo sistema di alleanza e punti di riferimento è sostanzialmente lo stesso dal secondo dopoguerra: Stati Uniti ed Europa. Si può certamente sostenere che si tratta di interlocutori che sono molto cambiati da allora e che oggi a questi si sono affiancati partner strategici per il paese – il riferimento è ovviamente alla Russia. Rimane però il discorso che nel momento in cui si concepisce la geopolitica in chiave grettamente nazionalista e la si svincola dal sistema di alleanze del paese, questo finisce per accrescere il proprio isolamento e per pregiudicare la posizione internazionale del paese.
Per quali ragioni, nonostante fosse potenza vincitrice della grande guerra, l’Italia è stata relegata al ruolo di ex nemico al termine del secondo conflitto mondiale?
È molto utile paragonare i due dopoguerra, non solo e non tanto per l’esito diverso che nei due casi ha avuto il conflitto, ma perché ci permette di comprendere al meglio i nodi centrali della politica estera italiana.
Soffermiamoci un attimo sulla vittoria nella prima guerra mondiale: questa può essere vista come il completamento di un cinquantennio di politica estera italiana che ha avuto come filo conduttore il principio di nazionalità. Con la grande guerra, infatti, l’Italia “si completa” e peraltro si afferma come potenzia stabile e riconosciuta del concerto europeo. Il momento della pace rappresenta dunque il completamento di un percorso: forse non si è riusciti a “fare” gli italiani ma l’obiettivo di portarli tutti all’interno dei confini nazionali è riuscito. Si apre così una fase nuova, nella quale l’Italia cerca di aggiungere al programma nazionale quello della grande potenza. Si innesta qui il tentativo mussoliniano di trasformare l’Italia in impero coloniale e di affermare il mito della Grande Italia. Ma qui si individua anche il limite della politica mussoliniana: la ricerca della grandeur porta infatti al logoramento delle alleanze tradizionali e all’isolamento diplomatico del paese, che porta il paese nel campo gravitazionale della Germania hitleriana.
Il progressivo appiattimento sulla Germania di Hitler può essere visto come una perdita di autonomia della politica estera italiana e una dissipazione del capitale, in termini di territori e riconoscimento internazionali, accumulato nella prima fase della storia unitaria. Il 1943, anno in cui gli eserciti invasori tornano a solcare il territorio italiano, può essere visto come il momento di totale azzeramento della posizione internazionale dell’Italia. In quell’anno la resa incondizionata, firmata a Malta il 29 settembre, definisce l’Italia come paese sconfitto e l’Italia torna a dover imboccare un’ardua strada in salita per poter riguadagnare la fiducia internazionale ed essere validamente inserita in una rete di alleanze. Questo avverrà in un periodo compreso tra la cobelligenza, l’atto del 13 ottobre 1943 con cui le potenze delle Nazioni Unite riconoscevano all’Italia la facoltà di combattere al loro fianco contro i tedeschi, e l’ingresso dell’Italia nella Alleanza Atlantica, il 4 aprile 1949, che darà una soluzione definitiva al problema della sicurezza e reinserirà il paese all’interno di una stabile e solida rete di alleanze.
Come si è tradotta la fine del bipolarismo per la collocazione internazionale dell’Italia?
Sebbene sinceramente salutato dall’opinione pubblica italiana con favore, il crollo del muro di Berlino è stato in parte una tragedia per l’Italia e per la sua politica estera. Le ragioni della “tragedia” dell’Ottantanove (e soprattutto degli anni immediatamente successivi) vanno ricercate nel fatto che la fine del bipolarismo è avvenuta in un paese che non era stato in grado di riformare le proprie istituzioni e i principali soggetti del sistema politico – i partiti – in modo da rendere il paese capace di affrontare la mutata realtà internazionale.
In buona sostanza a partire dall’Ottantanove l’Italia entra in una duplice crisi: una interna, con la fine di quella che il grande storico Pietro Scoppola aveva definito la “repubblica dei partiti”; una esterna legata al processo di adattamento alle nuove gerarchie e alle nuove regole della vita internazionale.
Nel momento in cui finisce la guerra fredda i partiti italiani sono al collasso: al Partito comunista, che scompare perché storicamente “inattuale”, fanno seguito quello socialista e la Democrazia Cristiana. Vengono così a mancare quei soggetti che, nel bene e nel male, avevano garantito per quarant’anni la governabilità del paese e la presa di decisioni importanti sul piano internazionale.
In mancanza di un sistema politico pienamente funzionante, legittimo e legittimato, le grandi scelte del post-guerra fredda sono state scelte sostanzialmente tecnocratiche, alle quali è mancata la necessaria legittimazione popolare. Il caso più evidente è quello del trattato di Maastricht. Da allora la politica estera si dimena tra due spinte opposte: da un lato quella alla tecnocratizzazione, con la sostanziale sottrazione al dibattito pubblico e tra le forze politiche; dall’altro quella della sua “popolarizzazione”, intesa come tentativo di restituire la politica estera al pieno controllo, anche a quello più imprevedibile, del cittadino-elettore. Si tratta di una tensione che Silvio Berlusconi, negli anni in cui è stato al governo, ha cercato di risolvere giocando molto sulla personalizzazione della politica estera.
In un sistema internazionale sempre più disordinato quale futuro per il nostro Paese?
Un vecchio detto popolare dice che quando vuoi che una cosa sia fatta bene te la devi fare da solo. In un certo senso questo potrebbe essere il motto della politica estera italiana odierna, pur tenendo sempre a mente che nel sistema internazionale raramente le cose si fanno interamente “da soli”.
Bisogna partire dal presupposto che il sistema internazionale odierno non è solo più disordinato, ma è anche più anarchico e meno normativo, al punto che alcuni studiosi tendono a mettere in discussione il suo essere “un sistema” propriamente detto. Senza entrare troppo nel merito del dibattito dottrinario sull’evoluzione della politica di potenza, si può semplicemente dire che le superpotenze sono sempre meno idonee a coprire l’intera gamma di problemi (ma anche di opportunità) che si vanno ponendo nei vari teatri regionali. Il discorso è evidente per quel che riguarda gli Stati Uniti: al netto del presidente che li guida – il quale può essere più o meno isolazionista – vi è un dato concreto consistente nel fatto che gli Stati Uniti non possono assumersi una responsabilità realmente globale. Al massimo possono operare una serie di investimenti in termini di risorse politiche, economiche e militari in alcuni quadranti problematici. Tra questi vi rientrano sicuramente l’Europa e l’area mediterranea. Ma è fisiologico che non potrà trattarsi di un investimento paragonabile a quello compiuto negli anni del bipolarismo. In aggiunta, possiamo osservare che al ritrarsi della potenza statunitense fa riscontro un’avanzata di altre potenze, dalla Russia alla Cina tanto per citare i più noti. Ma si tratta di avanzate “parziali”, che servono certamente gli interessi delle potenze che le compiono ma che non contribuiscono a un incremento del livello di governabilità di una data area.
Tutto questo per dire che l’Italia sarà chiamata ad assumere maggiori responsabilità in prima persona, come peraltro sottolineato da altri analisti. Lo dovrà fare perché l’instabilità che si genera ai suoi confini o nelle aree con le quali è più a contatto non sarà necessariamente gestita come in passato dai global player. Da qui la necessità di continuare ad investire, pur tenendo conto dei vincoli di bilancio che sono particolarmente stringenti, per dotarsi di quei mezzi politici e militari attraverso i quali è possibile fare un’efficace politica estera e di difesa. La difficoltà di questa politica sta nel fatto che essa passa sempre più per il canale della difesa europea: ne deriva che una politica piena di riserve o di scarsa e incostante partecipazione alle politiche e istituzioni dell’Unione Europea priva paradossalmente il paese degli strumenti per fare una politica estera più autonoma e “nazionale”.
C’è poi un altro elemento che non riguarda direttamente la politica estera ma che, soprattutto nel contesto odierno, diventa fondamentale per il posizionamento internazionale del paese: quello della reputazione. La questione reputazionale è da sempre una componente importante dell’essere dell’Italia nel mondo. Lo è stata fin dalla sua nascita ed ha accompagnato, con alti e bassi, la storia del paese fino agli sviluppi più recenti. Si può però ragionevolmente supporre che la questione della reputazione (che include al suo interno la questione più superficiale dell’”immagine” del paese) acquisirà un peso rilevante negli anni a venire. Questo perché in un sistema sempre più disordinato e disaggregato la capacità di affermarsi come un soggetto affidabile è fondamentale sia per le coalizioni estemporanee che vengono create per affrontare i problemi che di volta in volta si pongono sulla scena internazionale, sia soprattutto all’interno di quei blocchi regionali che mirano a svolgere un ruolo importante nelle relazioni globali. Il riferimento è ovviamente all’Unione Europea: se l’Italia ha una qualche ambizione a svolgere un ruolo importante nell’Unione che ha contribuito a fondare, allora è necessario che lavori molto su quelle riforme interne che le permettano di essere più competitiva e forte.
Emidio Diodato è professore di Politica internazionale all’Università per Stranieri di Perugia.